Ora, Sempre…

“Le Marie antoniette che volevano il fascista come scimmietta in gabbia da mostrare al popolino per distrarlo, sono rimaste sopraffatte e ampiamente superate dal loro stesso giocattolo, dal mostro che hanno creato. In questo senso, gli sproloqui allarmati e liberali perdono tutta la loro ragion d’essere. il fascismo non è il contrario della democrazia ma ne è l’intimo complemento. i cosidetti giovani sovranisti non sono che l’espressione ultima e compiuta, di una torsione esplicitamente autoritaria della macchina statale, tutto a vantaggio del libero mercato”

(Aurora dice…)

 

Se ci guardiamo intorno è facile farsi prendere dallo sconforto, dalla volontà di lasciar perdere, o ancor più di ritirarsi ad uno stoico snobismo verso le classi che 40 anni fa riempivano le nostre fila. Tuttavia lo sappiamo e lo dobbiamo tenere bene a mente: qui ci vogliono distruggere. Padroni, politici e fascisti bramano la nostra messa a tacere forse più di quanto noi bramiamo la loro. Il revisionismo storico non è contingente, ma organico, il suo obiettivo è chiaro. E noialtri? Abbiamo un’idea del nostro obiettivo? di chi sono i nostri nemici, i nostri oppressori? Per far fronte ad un fascismo istituzionale e diffuso, solubilizzato all’interno del senso comune, abbiamo bisogno di farci noi stessi organizzati, obiettivi. Per questo abbiamo deciso di chiederci chi è l’oppressore che oggi siamo destinati a combattere: porsi le domande giuste può portare a traguardi ben lontani dal nostro orizzonte.

Ce lo siamo chiesti per ricordare ancora a noi stessi quei motivi che ci spingono a rifiutare ciò che ci circonda, quell’inquietudine che non ci permettere di guardare fino alla fine un telegiornale per la rabbia che c’assale. Quelle verità etiche che sentiamo dentro e che sono in assoluto disaccordo con l’esistente: come gli ideali della Resistenza. L’odio per i prepotenti e non l’esaltazione della forza, la ribellione di chi non ce la fa più contrapposta ad una vita di soprusi, la cura degli altri piuttosto che l’indifferenza, il “si parte e si torna insieme” invece della competizione. Tutto ciò è totalmente incompatibile col mondo di merda che ci troviamo a vivere ogni giorno e contro cui lottiamo. Perchè in fondo, ciò che si dice è vero, noi lottiamo contro il mondo ma anche contro noi stessi, contro quella parte di barbarie quotidiana che si è incarnata in noi e che riproduciamo nei nostri modi di vita. 

Lottiamo, come ci è solito fare, ognuno secondo le proprie modalità, insistentemente, a volte disorganizzati e stanchi, rifiutando, calpestando il terreno in cui vorrebbero tumularci. Determinati sì, a volte con rabbia, eppure ne siamo certi, mai mossi da odio, ma da amore. 

Nell’estate del 1944 l’area di confine tra le province di Belluno, Bolzano e Trento fu contraddistinta da un’intensa attività partigiana.  e, soprattutto, la sicurezza dei cantieri che di lì a poco avrebbero avviato i poderosi lavori di costruzione della Blaue linie. L’offensiva partigiana fu presto perseguita delle autorità militari nazifasciste: dall’agosto all’ottobre 1944, si susseguì una serie di operazioni antipartigiane volte a reprimere l’insorgenza dei «ribelli» e a riportare sotto Le azioni di guerriglia, con attacchi, imboscate e sabotaggi, intraprese dai partigiani delle formazioni veneto-trentine misero in crisi il sistema di comunicazione tedesco. Dopo aver colpito una prima volta il Battaglione Gherlenda (Brigata Garibaldi Gramsci) in settembre, le forze tedesche e gli uomini del Secondo Battaglione CST (Corpo di sicurezza del Trentino) guidati dal capitano delle SS Karl Julius Hegenbart condussero, tra l’8 e il 12 ottobre 1944, un altro rastrellamento. All’operazione parteciparono non meno di 500 uomini. In tutta l’area, furono rastrellate circa 140 persone, poi arruolate nei cantieri della Todt di Pergine e Trento. Durante l’azione, i militari catturarono Clorinda Menguzzato, partigiana di 18 anni conosciuta con il nome di battaglia Veglia. La giovane fu seviziata, violentata dai militi del CST  e uccisa, il suo corpo abbandonato lungo la strada in direzione di Pieve Tesino l’11 ottobre, come monito per tutta la cittadinanza. 

Qualche mese dopo, nel febbraio 1945, venne uccisa dai Nazisti una compagna di Veglia della Brigata Garibaldi Gramsci, Ancilla Marighetto. La partigiana Trentina conosciuta come Ora, anche lei di 18 anni, venne fucilata brutalmente dai nazifascisti , insieme ai suoi compagni e alle sue compagne, presso Castel Tesino.  Ora, insieme al resto del gruppo, venne catturata durante un agguato delle truppe naziste capitanate da Hegenbart, e uccisa, dopo essere stata torturata nel castello del Buonconsiglio, poiché aveva risposto con il silenzio alle domande del capitano sull’organizzazione delle truppe partigiane. 

Ora e Veglia pagarono con la vita il loro coraggio, il loro non voler abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. 

Il loro carnefice Karl Julius Hegenbart  venne condannato all’ergastolo, senza tuttavia scontare nemmeno un giorno della sua pena in quanto non fu mai estradato dall’Austria, dove morì nel 1990, al termine di un’esistenza vissuta nel segno della vigliaccheria.  

 

Abbiamo deciso di raccontare i sacrifici di Ora e Veglia perchè la loro è la storia di due giovanissime donne che decisero di parteggiare per la causa della resistenza, perchè credevano in un modo migliore. Perché con il loro coraggio hanno deciso di non abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. Perchè hanno deciso di stare dalla parte giusta della storia. 

Ma anche perché i loro carnefici sono rimasti impuniti per i crimini efferati  dei quali si sono macchiati. Perché da una parte la Repubblica Italiana istituiva la festa della liberazione e portava avanti la memoria di una resistenza deconfluttualizzata nelle sue istanze più radicali e pacificata, dall’altra ha perseguito i partigiani e le partigiane compagni e compagne di Ora e Veglia. Mentre veniva concessa l’amnistia per chi massacrava civili inermi che non si erano voluti piegare all’oppressione fascista, venivano reinserite negli ambienti di potere le elite economiche complici del fascismo. Mentre con il codice penale fascista veniva perseguit* chi lottava per l’uguaglianza, venivano riciclati  i “camerati” per compiere stragi contro le rivendicazioni studentesche e operaie.

E oggi ci troviamo a dover sentire da politicanti, pseudogiornalisti e pseudostorici, che valgono meno di un capello di chi combatteva per la libertà, attuare un revisionismo storico che mette sullo stesso piano gli oppressi e gli oppressori. Dobbiamo sorbirci il teatrino della celebrazione delle vittime delle foibe, in cui cameratini di casapound, protetti dai loro amici della polizia, provano a riabilitarsi e uscire dalle fogne in cui la storia gli aveva confinati. Ancor più abietto (e perdente) è l’utilizzo strumentale, da parte della sinistra, di un antifascismo da salotto, tenuto buono come spauracchio contro i sovranisti brutti e cattivi e da sbandierare in campagna elettorale o durante le commemorazioni istituzionali.

Questo avviene perché la memoria della Resistenza e degli ideali che animavano partigiane e partigiani fanno ancora paura ai padroni e ai governanti. La potenza del popolo insorto, costruita con pazienza, tenacia e tempismo storico, che si libera degli oppressori va ricordata e studiata. Ma non per celebrarla come un feticcio museale, ma per decidere da che parte stare, per essere ogni giorno partigiani. Per vivificarla come vivi sono i legami, le emozioni, i rapporti nelle lotte di resistenza. 

E quindi viva la Resistenza e viva i partigiani e le partigiane. Che ci liberi quello stesso vento dai fascisti e dai liberali che gli fanno da portieri. Dai servi e dai padroni. Che liberi la vita.

Ora e sempre.

 

CURinQuarantena#3 – Colpevoli Ovunque

…Riflessioni di un compagno su covid e vicinato…

 

20 Marzo 2020

Allora, vediamo di mettere in ordine le idee finchè c’ ho ancora il crimine addosso. Dunque…

Vivo in un remoto paesino di montagna della Val Belluna, per capirsi una di quelle gemme incastonate nel verde delle Prealpi, dove ogni vecchia casa è accostata ad un fienile, i rumori del bosco ti accompagnano prima di coricarti e il cemento ancora non strangola il sole. Per capirsi, uno di quegli abitati che mezzo secolo fa contava 200 persone e ora non arriva a 50, dove i campi di granturco lasciano pian piano spazio ai vigneti tossici, che qualche magnate trevisano del prosecco decide di piantare e farcire di pesticidi, comprando la terra di qualche vecchietto mezzo morto. Il classico frutto dello spopolamento della montagna: a fare il contadino ti spacchi la schiena “par do schei” e quindi vai a lavorare in fabbrica (giustamente). Il comune tagli i fondi al trasporto pubblico, le botteghe e le osterie chiudono, vivere quassù diventa scomodo e il paese inizia a dissanguarsi.                                                                                        Fra le vecchie case nel bel mezzo de paese, ve n’è una in particolare, ormai mezza in rovina, che attirava spesso la mia attenzione di bambino. Sulla canna fumaria infatti vi è incisa una scritta, ripassata a caratteri rossi nella malta, che recita: “1855 anno del colera”. Emblematico.                                                                                                     Da qualche giorno infine, a turbare la tranquillità amena del caseggiato, sono le sirene e gli alto-parlanti della polizia locale, ad echeggiare fra le viuzze intimando alla gente di rimanere in casa.

Tutto questo preambolo sostanzialmente non serve a un cazzo al fine del discorso. Era solo per dire che mi piace il posto dove vivo e ora che la quarantena mi stringe in casa ho molto più tempo per apprezzarlo. Andiamo avanti…

A differenza dell’annoiato e bolso poltronaro che è il sottoscritto, i genitori si discostano nettamente dalla suddetta prole, la gente lì definirebbe “dei tipi sportivi”, cioè che vanno a correre e in bicicletta un tot di volte a settimana: è il loro modo di mantenere l’equilibrio psicofisico.

Arrivando al dunque: col coronavirus a seminare il panico, nell’ultima settimana abbiamo assistito ad una sempre maggior insistenza, nei discorsi dei politicanti/esperti/opinionisti vari, nell’invitare la gente ad evitare il più possibile i contatti ravvicinati fra le persone, sacrosanto visto la pericolosità della patologia e la precarietà del sistema sanitario in questi giorni.

Nel senso che se incontri una persona malata (untore) e questa ti passa il virus e poi tu lo passi a tua volta è un casino, quindi meglio evitare di accalcarsi alle porte dei supermercati. Ossia che perché il virus si diffonda questo deve passare da una persona all’altra e per farlo devono esserci più soggetti a distanza ridotta. Nel senso che la diffusione dell’epidemia di per sé non c’entra un cazzo con lo #stareacasa, ma con gli atteggiamenti (ir)responsabili che i singoli mettono in atto, cioè l’accalcarsi alle porte del supermercato e il frequentare ambienti ristretti. Vabè sta di fatto che la gente è scema, quindi è normale che lo Stato cerchi di dare un messaggio semplice, chiaro e difficilmente fraintendibile, optando per la riduzione del danno, insomma #staiacasa.

E fin qui mi sta bene, il problema tuttavia inizia a presentarsi quando l’hashtag di cui sopra, inizia ad essere assunto come dogma, senza passare per il buonsenso, appiattendo la molteplicità delle situazioni al rigore univoco dell’ordinanza. Detto in parole povere: non importa a nessuno che tu stia andando a correre in piena campagna dove non incontrerai anima viva, resti comunque un trasgressore che mette a repentaglio la vita di tutti, DEVI STARE A CASA, anche se il precedente ragionamento manca di un filo logico.E vabè di leggi assurde ce ne sono tante, la novità che emerge con forza è un’altra: ossia che il giudizio delle trasgressioni, che formalmente è delegato alle autorità giudiziarie e alle forze dell’ordine, viene collettivizzato per diventare un giudizio diffuso, poichè la tua azione mette a rischio l’intera comunità. Chi fa jogging viene criminalizzato (da tutti) solo per il fatto di uscire di casa, non importa che eviti i luoghi affollati o utilizzi dei DPI.

Cioè che la colpa della catastrofe è di chi va a correre, non di chi ha tagliato i fondi alla sanità pubblica, esternalizzato a privati i servizi essenziai, ridotto i posti letto negli ospedali e ora continua a mandare la gente a lavorare nonostante il pericolo contagi: tipo mio padre che salda in fabbrica 8 ore al giorno, incazzato agro col mondo, che torna a casa, per sfogarsi va a fare un giro in bicicletta e gli fanno pure la multa.

 

Con queste parole non intendo assolutamente minimizzare la gravità della situazione o negare l’importanza dello “stare a casa” come metodo di contenimento dell’epidemia: di sicuro non andrei a trovare mia nonna dopo aver leccato tutte le maniglie dello Spallanzani (semi-cit). Come di sicuro non è mia intenzione sminuire il dolore di chi in questo momento sta soffrendo. Quello che vorrei invece mettere in luce è l’effetto che questo clima di tensione inizia a produrre negli individui.

 

Insomma: la mia vicina di casa ha fatto un post su Facebook, delirante, in cui condivideva la sua personale gioia nel vedere denunciati i trasgressori delle ordinanze restrittive e con un tono fra il sognante e il maligno si augurava di poter denunciare (delazione) lei stessa alle autorità coloro che “vanno a correre in beffa ai decreti e all’interesse di tutti”.

Peccato il post sia stato cancellato prima che io potessi screenshottarlo

In seguito a questo episodio ho pensato 3 cose:

  • Che è meglio che i miei non si facciano più vedere in short e scarpe da ginnastica
  • Che la mia vicina sta fuori
  • Che il coronavirus è risultato essere un mezzo di orizzontalizzazione del conflitto, ancor più efficace del razzismo diffuso.

Non basta il fatto che la forzatura del covid abbia portato lo Stato a munirsi di dispositivi di controllo (sociale) sempre più invasivi (ad esempio il monitoraggio degli spostamenti attraverso il GPS dei cellulari), il clima di tensione è ben completato dagli sguardi e dai sospetti delle persone che ti stanno intorno. In mezzo a tutto sto casino, a coloro che attribuiscono alcune delle colpe della situazione attuale ai potenti e ai politicanti (verticalizzando il conflitto), viene risposto, nel migliore dei casi, che ora non è il momento di creare divisioni inutili, poiché adesso è il momento di stringersi tutti assieme attorno al Tricolore e affrontare la tempesta. Da una parte quindi vi è la riconciliazione con lo Stato, dall’altra l’individuazione del nemico interno. La colpa viene addossata a coloro che escono di casa, solo per il fatto di farlo e non per l’effettiva possibilità che le loro azioni costituiscano un pericolo effettivo.

In questo modo il conflitto esplode in orizzontale -tutti contro tutti- e con maggiore intensità rispetto ad altre modalità di esplosione come quelle che caratterizzano le dinamiche razziste e xenofobe.

E così, fra un inno nazionale e l’altro, la situazione nelle fabbriche e nelle carceri passa in sordina. Da qua a due settimane son morte quasi 15 persone nelle galere, morte nel senso di ammazzate a suon di manganello e poi imbottite di barbiturici per mascherarne l’uccisione, son tante e non se ne parla già più. Confindustria continua a mandare la gente in fabbrica anche in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna che sono le regioni più colpite dal covid. Un sacco di lavoratori a chiamata hanno già perso un posto di lavoro che probabilmente non riotterranno. Gli affitti van pagati, ma il danaro scarseggia.

Il problema non è più sapere se sia effettivamente più pericoloso lavorare mezza giornata in mezzo a 200 persone o andare a correre al parco da soli, ma il fatto che porsi tale domanda sia considerato inutile o non pertinente, poiché tutto viene appiattito all’osservanza del decreto restrittivo. La legge è la legge.

Mi chiedo cosa accadrebbe se questa impostazione venisse mantenuta anche ad emergenza finita, quando dovremo tutti lavorare come le bestie per far ripartire l’Italia e guai a chi fiata pretendendo di andar in pensione a 67 anni. Staremo ancora a cantare l’inno nazionale mentre assembliamo occhiali, con ritmi più incalzanti e stipendi più bassi? Chi giudicherà il nostro approccio al lavoro, il padrone o sarà collettivizzato fra i colleghi? Ce la prenderemo (ancora) fra di noi o pretenderemo gli scalpi di chi negli ultimi 30 anni ha macellato il corpo sociale?

Mi chiedo se quando torneremo alla nostra quotidianità ritorneremo anche alla “normalità”, o presenteremo delle riserve nell’ approcciarci ad altri per paura che possano “attaccarci qualcosa”. Chissà se questo periodo di quarantena in cui, per forza di cose, siamo ripiegati su noi stessi ad una dimensione individuale, (chi più chi meno) avrà dei risvolti sui nostri comportamenti futuri. Ultimamente capita di sentire molte riflessioni, legate al coronavirus, sull’idea di morte nella società occidentale e sulla nostra visione antropocentrica, chissà se a virus debellato avremo un rapporto più sereno con la morte o ci spaventerà ancora di più?

 

Forse dovremmo prestare attenzione anche alla lettura di questi aspetti: più interiori (un po’ alla libro cuore se vogliamo), ma che potrebbero restituirci un mondo diverso da come l’abbiamo conosciuto prima che la porta di casa scivolasse alle nostre spalle.

Se già ci viene raccomandato di prepararci ad un periodo di recessione, ai fini della comprensione di tale periodo, sarebbe bene ricordare che la crisi non è mai solo economica, ma anche esistenziale e metafisica.  E a chi nella crisi si muove, sta il compito di darne un’interpretazione, tale per cui, quando calerà la mannaia delle conseguenze, questa non ricada sui soliti sfigati, ma sulle teste di coloro che se lo meritano.

(foto -fatta col telefono- della scritta a cui accennavo… lo so no se capis gnint!)

È nato: L’AFFITTO DEMMERDA

Affitti di merda? È ora di vendetta.

Paghi uno sproposito per un appartamento che cade a pezzi? Sono mesi che il tuo vecchio locatore latita e non accenna a restituirti la caparra? Il tuo padrone di casa cerca di farti pagare spese e/o danni al locale che competerebbero a lui (imbiancaggio, lavori di idraulica etc)?.

In una città universitaria dove il prezzo degli affitti continua ad aumentare e gli appartamenti disponibili sono sempre meno, c’è chi lucra sulle spalle degli studenti fuorisede. Agenzie immobiliari, palazzinari, padroni di casa il cui unico scopo è aumentare il loro profitto sulla nostra pelle.

Nel Luglio 2019 sono state raggiunte cifre di 420€ per una stanza singola. A Trento Airbnb sottrae al mercato immobiliare oltre 70 case, affittate -illegittimamente- unicamente a turisti. Il contratto di locazione per studenti, varato dal comune è insufficiente e non pone un prezzo massimale, nonostante i benefici fiscali di chi affitta. Insomma, la realtà è conosciuta da molti e molte: l’affitto costa troppo.

Dal punto di vista economico le opzioni sono due o vivi sulle spalle dei tuoi familiari oppure lavori in modo da sostenere le spese per università e affitto. Pagare l’affitto uno sproposito può determinare la possibilità di studiare all’università o meno.

Molto spesso per chi ha un locatore di merda è molto difficile far valere i propri diritti, alcuni padroni di casa sono sfuggenti, non rispondono al telefono, o semplicemente si nascondono dietro a cavilli legali.  Allo stesso tempo non vi è alcuna figura istituzionale o organo a cui uno studente possa rivolgersi per chiedere aiuto. Ci si rende conto di non poterci fare nulla e l’unica soluzione rimane il cambio d’appartamento.

La rabbia provata nel vedere il proprio vecchio appartamento, che cadeva a pezzi, rimesso a disposizione sui vari gruppi Facebook e spacciato per nuovo dopo la nostra uscita, è ben nota a molti.

Ebbene è giunto il momento di farla pagare ai nostri vecchi e nuovi locatori di merda, per questo motivo abbiamo voluto creare questa pagina Facebook, in modo da raccogliere più testimonianze possibili e iniziare a smascherare chi fa profitto, sulle nostre spalle e su quelle dei nostri genitori, dietro la narrazione di Trento città universitaria. Creiamo degli strumenti per tutelarci contro i soprusi di lor signori, riappropriandoci della nobile arte plebea del lancio dei pomodori. Intaccare la loro immagine vuol dire rompere il muro di silenzio intorno al problema degli affitti ed evitare che altri studenti come noi cadano tra le mani di questi imbroglioni. Vuol dire ribaltare i ruoli di potere.

E quindi cosa devo fare?

  • Scrivi alla nostra pagina e racconta la tua esperienza con il tuo padrone di casa nonchè pezzo di fango
  • Inviaci foto dell’appartamento, documenti, i dati del tuo locatore e l’indirizzo della casa, tutto ciò che può essere utile a smerdarlo
  • Noi verificheremo il materiale e garantiremo il tuo anonimato
  • Pubblicheremo la tua storia sulla pagina facebook in modo che tutti possano leggerla.

L’idea è quella di creare una comunità che possa muoversi su questo terreno scivoloso, in modo da darsi una mano tutti assieme e ribaltare le dialettiche di potere corrente. Perché se frequentare l’università è un diritto che dovrebbe essere garantito, lo è anche avere un tetto sotto il quale stare, senza dissanguare le nostre finanze. Iniziamo a fare in modo che le prepotenze dei disonesti non le paghino solo i poveracci.

Perché come diceva Quintiliano: odiare i mascalzoni è cosa nobile

BRUCIA IL CAPITALISMO, NON IL PIANETA!

 

Venerdì scorso il mondo è stato attraversato da migliaia di manifestazioni in 125 paesi. E’ stata la manifestazione più grande di sempre. Tuttavia siamo ancora lontani dai nostri obiettivi. Le multinazionali agroalimentari continuano a bruciare l’Amazzonia e migliaia di foreste in tutto il globo, i governi di tutto il mondo continuano le loro politiche energetiche ed industriali miopi e dannose, così come non si arrestano le guerre e lo sfruttamento ai danni del sud del mondo da parte dell’occidente, per difendere gli interessi, a brevissimo termine, di pochi. Ormai è chiaro che non è sufficiente chiedere a qualche governo o elitè, che sono i responsabili di questa crisi, di salvare il pianeta. Siamo noi a doverlo fare, a tutti i costi, rifiutando con fermezza ogni politica pseudo-ambientalista che fa gravare il costo di questa crisi sui più poveri. E’ necessario cambiare un sistema economico che continua a sfruttare oltre ogni limite le risorse naturali e umane. Il capitalismo è il problema, non la soluzione e non accettiamo nessun green washing neoliberista. Chiedere giustizia climatica significa intrecciare le lotte, perché oltre a cambiare un sistema economico va abbattuto il sistema di pensiero che lo alimenta: fascismo, sessismo, razzismo  sono gli strumenti culturali che nutrono il capitale ed il suo sfruttamento, che perseguitano e attaccano ogni giorno i nostri corpi e la natura. Un terzo della popolazione sarà costretta a migrare nei prossimi due decenni a causa dell’avanzare della desertificazione, delle carestie e delle guerre causate dalla scarsità di risorse, ben altra cosa a livello numerico rispetto alla crisi migratoria di questo decennio. Per far fronte a questi problemi e mantenere l’ordine sociale, la trasformazione in senso autoritario dei regimi esistenti sarà una costante che proverà a mettere a tacere ogni dissenso, ogni rivolta, a normalizzare e uniformare ogni corpo e pensiero. Ci aspetta una lotta lunga e faticosa. Ma vinceremo. Perché se per loro è potere, per noi è sopravvivenza.

O RIVOLUZIONE O BARBARIE!

COME È STATO AMMAZZATO FRANCESCO LORUSSO?

Nell’Italia del marzo 1977, presso l’istituto di anatomia dell’università di Bologna si tiene un’assemblea di Comunione e Liberazione, 400 i presenti. All’entrata dell’aula cinque studenti di medicina riconosciuti come aderenti al movimento vengono malmenati dal servizio d’ordine dei cattolici. Mentre la notizia attraversa la città, la zuffa dilaga. L’intervento di carabinieri e polizia, chiamate dal rettore, è immediato: partono lacrimogeni e gli scontri si spostano verso porta Zamboni. Dopo le violente cariche, nei pressi di via Irnerio, studenti e studentesse vengono bloccat* da una autocolonna di PS e carabinieri ed é a questo punto che un carabiniere spara ripetutamente. Per difendersi, viene lanciata una molotov contro la jeep, causando un principio d’incendio. Poi, in Via Mascarella, una colonna di carabinieri proveniente da Via Irnerio sparano ancora. Chi spara è un carabiniere e lo fa con la fermezza di chi, per amplificare le potenzialità di una buona mira, appoggia il braccio su una macchina mentre punta l’arma. Sotto la vigliaccheria dei colpi puntati alla schiena cade Francesco Lorusso, 25 anni, studente e militante di Lotta Continua. La voce si sparge, seguono ore e giorni di autentica guerriglia per le strade della città. Gli echi degli scontri di Bologna si propagano per tutta Italia e il clima diventa torrido, nella città emiliana e non solo. Con la complicità del sindaco comunista Zangheri i carri armati di Cossiga occupano le vie del centro di Bologna, lasciando il ricordo indelebile di una repressione che vede nel Partito Comunista Italiano il principale alleato della magistratura.
Con la determinazione di chi non intende assuefarsi e arrendersi a una narrazione avvelenata da miopi pagine di ricostruzione storica che dove non ha imbalsamato ha demonizzato, sentiamo oggi più che mai la necessità di promuovere la costruzione di un pensiero critico che parta, oggi come allora, dalle nostre università. La repressione di oggi ci trova sempre preparat* ed insubordinat* perché siamo forti del fatto che abbiamo nella memoria l’esempio e nella lotta la pratica.
11 MARZO BANDIERE ROSSE AL VENTO! UCCIDONO UN COMPAGNO NE NASCONO ALTR* CENTO!

Note su provincializzazione, conti in rosso e BUC

Una biblioteca è un contenitore e un contenitore deve avere due principali caratteristiche: funzionalità e capienza. Si può abbellire, si può raccontare, si può lucidare, ma rimane un contenitore. Si dà spesso per scontato che tale tipo di manufatto sia tanto più efficiente e funzionale quanto più è centralizzato e dimensionato. La domanda che ci si pone è quindi se per la nuova Biblioteca Universitaria Centrale (BUC) siano valsi questi criteri. La risposta che ci siamo dati è no. Quali criteri sono stati dunque ritenuti importanti? A questo non si può che rispondere tramite ragionamenti e indagini, mancando di risposte dirette da chi ha preso e continua a prendere decisioni al riguardo. La risposta sembra essere: gli interessi economici privati di chi ci ha guadagnato o spera di guadagnarci a discapito dell’interesse pubblico e in particolare di chi, tra il “pubblico”, ha meno potere.
Per capire meglio c’è bisogno di prendere in considerazione la storia del processo che ha portato a cambiare il progetto della biblioteca tra il 2008 e il 2014 in conveniente coincidenza con il passaggio di controllo e finanziamento dell’Università di Trento da Stato a Provincia, la cosiddetta “provincializzazione” o “delega” iniziata nel 2010. Qui cercheremo di dare un veloce sunto per punti salienti.

  • Funzionalità e capienza: come si è arrivati alla BUC

Partiamo dalla funzionalità. Una biblioteca centrale si suppone che per essere funzionale abbia come criterio principale il rendere disponibile libri e spazi di lettura nel modo più facile possibile. Una biblioteca centrale universitaria dunque dovrà essere raggiungibile nel minor tempo possibile da universitari, ovvero vicino ai luoghi dove questi si trovano. La biblioteca di Palazzo Ex Cavazzani (o CIAL) si trova in tale posizione ideale, a 5 minuti a piedi dalle facoltà di Lettere, Sociologia, Giurisprudenza ed Economia, a ridosso della ferrovia Verona-Brennero. Poiché era sottodimensionata rispetto alle esigenze di un’Università in continua espansione, l’ateneo commissiona all’architetto Sandro Botta nel 2008 il progetto di una biblioteca centrale appena oltre la ferrovia, in Piazzale Sanseverino, acquistato con i suoi propri fondi (forniti dallo Stato) nel 2002[1]. Le distanze cambiano di poco, la funzionalità rimane la stessa. Senza spiegazioni precise, il Comune ritarda, prende tempo, rimanda indietro il progetto di Botta. Il processo si incaglia fino al 2013, quando un vertice trilaterale tra l’allora rettrice De Pretis, il sindaco di Trento Andreatta e il vicepresidente della Provincia Pacher, decide per l’abbandono del progetto su Sanseverino e apre allo spostamento nel quartiere Albere, al posto del centro congressi[2]. Nel Consiglio di amministrazione dell’ateneo, la rettrice “alla luce della nuova ipotesi di realizzazione della nuova biblioteca di ateneo nel quartiere ‘Le Albere’ recentemente emersa, propone al consiglio di amministrazione di valutare l’opportunità di richiedere una sospensione della pratica edilizia”[3]. Proposta approvata all’unanimità, compreso l’allora rappresentante degli studenti, facente parte di una coalizione oggi ancora nella maggioranza (si fa per dire, considerando che i votanti sono stati il 21% degli aventi diritto nel 2014 e 31% nel 2016, un successone, secondo la coalizione vincitrice – UDU e UniTin, poco più del 10% ognuno).
Passiamo alla capienza. Il progetto originario di Sandro Botta variava da 1212[4] a 900[5] posti studio. Parte del progetto era il mantenimento dei posti auto del “piazzale Sanseverino”, che sarebbero stati interrati in più piani. La BUC aperta nel quartiere Le Albere viene pubblicizzata con l’altisonante articolo del webmagazine dell’UniTn del 7 ottobre 2014 (non più consultabile, ma in parte reperibile nel testo di De Bertolini) come un successo da addirittura 500 posti[6] poi magicamente corretto in 430[7] (tra la metà e un terzo del progetto originario, per un costo di due terzi rispetto al progetto di Botta). Non solo, i posti auto sono stati sostituiti da scaffali e postazioni interrate in una zona ad alto rischio inondazione del fiume Adige, una possibilità stimata nell’ordine una ogni 30 anni circa, in cui le prime vittime sarebbero i libri stessi, con buona pace della priorità allo studio[8]. Insomma, almeno 500 posti in meno rispetto al progetto precedente, tanto che nel periodo in cui si decise lo spostamento da Sanseverino a le Albere si disse che bisognava far fronte al ridimensionamento tramite futuri progetti nell’area Trento Fiere (tra le altre cose di sale studio e mense) che latitano tutt’ora3.

  • E la Provincia… NON PAGA

Perché latitano? Cercando di non essere proliss@, possiamo dire che gli articoli del Corriere del Trentino delle ultime settimane possono fornirci una sintesi qui riassunta: La Provincia non paga.
Da sei anni a questa parte la provincia ha mancato di pagare la sua parte di pagamenti all’Università, risultando in una mancanza di 200 milioni di euro. Dal 2010, per essere precis@, anno di inizio della delega (o provincializzazione) dallo Stato alla Provincia dell’onere di finanziamento. Cioè da quando buona parte del finanziamento pubblico dell’Ateneo di Trento non deriva più dal Ministero dell’istruzione ma dalla Provincia Autonomia di Trento. I circa trenta milioni l’anno che la PAT deve all’università, come stabilito, non sono arrivati all’Ateneo. Nemmeno un euro. MAI. Il risultato è che l’Università ha campato con gli “spiccioli” del Ministero e ha iniziato ad utilizzare i fondi di cassa, i risparmi, ha persino prosciugato il fondo per le borse per studenti meritevoli e ha persino avviato dei prestiti, l’ammontare dei quali non è dato sapere per ora.
Un fatto gravissimo.
Ancor di più se, ha detta del rettore Collini, a fronte di questo ENORME buco in bilancio, l’unico effetto negativo della provincializzazione dell’ateneo è relativo “ai ritardi circa l’edilizia universitaria”, riferendosi certamente al progetto di Trento Fiere. Dichiarazioni un po’ idiote, certamente miopi e probabilmente non sincere, di comodo, dato i conti in rosso che si ritrova l’università per colpa della Provincia. Solo ora capiamo l’aumento di 800 mila euro delle tasse universitarie: la Provincia non paga, l’università è in rosso e anziché battere i pugni sui tavoli di chi di dovere, si aumentano le tasse agli studenti e alle studentesse.

Veniamo al punto: perché il Collettivo Universitario Refresh ha manifestato la sua contrarietà verso la BUC? Perché la BUC è stata usata per arricchire chi già è ricco. Tutto il processo di costruzione del quartiere Le Albere ha seguito questa istanza e lo spostamento della BUC da Sanseverino a Le Albere è inserito nella stessa logica. Il ridimensionamento della biblioteca (della metà almeno) è stato inserito esclusivamente entro logiche di gentrificazione urbana e speculazione edilizia che vanno ad arricchire le solite famiglie ed imprese della borghesia trentina e della Chiesa Cattolica (che detiene circa il 30% del patrimonio immobiliare della provincia, giusto per ricordarlo) tramite lo strumento numerose volte dimostratosi fallimentare del project financing. Fallimentare dal punto di vista del bene pubblico e del risparmio, ovviamente, visto e considerato che alla fine i soldi pubblici vanno sempre a risolvere i buchi degli investimenti privati.

Perché il Collettivo Universitario Refresh ha occupato il CIAL? Perché è stato chiuso senza motivazioni plausibili per evitare che l’apertura della BUC fosse un fallimento. Anche chi lavora al CIAL fatica a comprendere la riduzione degli orari, spiegabili solo con il fatto che si doveva dimostrare subito il successo della BUC, una biblioteca sottodimensionata, raccontata bene, bella e lucidata a dovere. Questo è il motivo per cui il CUR ha occupato il CIAL: per riappropriarsi di uno spazio universitario produttivo e funzionale, nonostante le sue ridotte capacità.
Il risparmio (di un terzo) tanto declamato da chi quella biblioteca l’ha voluta (e chiamiamoli con il loro nome, UDU e UniTin, che prima hanno votato per tale scelta e ora la giustificano) è servito agli studenti e alle studentesse? Considerato il fatto che per due terzi dei costi si è costruito un contenitore della metà, senza posti auto ed a rischio inondazione: no.
Ma se non è servito a loro, a chi? Questo bisognerebbe chiederlo a chi si è sperticato in sotterfugi a porte chiuse per spostare la BUC, da UDU-UniTin alle imprese e famiglie della borghesia trentina e nazionale. La risposta è facilmente intuibile, ma la lasciamo a voi.

Una biblioteca è un contenitore. Questo contenitore è stato costruito e noi come universitar@ che hanno contribuito alla sua realizzazione, pur senza il nostro consenso, vogliamo farne parte, ma solo alla condizione di non essere usat@ come fotografia per apparire nei begli spot per pubblicizzare un’azienda di lauree che vuole vendersi sul piano nazionale ed internazionale come aggregatore di capitali e di persone di una certa estrazione. Vogliamo un’università per tutt@ quell@ che vogliono studiare, per tutt@ i/le cittadin@ e non cittadin@. Per tutt@ quell@ che vogliono un’università che non fa differenze sul reddito, per tutt@ quelli che vogliono sapere.

[NOTE]

[1] “Il pasticciaccio brutto della biblioteca”, in Questo Trentino, n. 11, novembre 2013.

[2] Ibidem.

[3] L’affare ex michelin, De Bertolini 2016, Altrotrentino Società Cooperativa.

[4] “Il pasticciaccio brutto della biblioteca”, in Questo Trentino, n. 11, novembre 2013.

[5] http://www.questotrentino.it/articolo/14018/il_pasticciaccio_brutto_della_biblioteca.htm.

[6] L’affare ex michelin, De Bertolini 2016, Altrotrentino Società Cooperativa, p. 92.

[7] http://webmagazine.unitn.it/news/ateneo/12202/inaugurata-la-biblioteca-di-ateneo-sette-piani-430-postazioni-e-480mila-volumi.

[8] Parere espresso da architetti presenti alla conferenza di Questo Trentino il 28 novembre 2016 presso la Facoltà di Economia di Trento a cui abiamo partecipato