Deflorian chiude tutto!

Il 7 dicembre, nelle nostre caselle di posta, abbiamo ricevuto un videomessaggio del rettore Deflorian sulla chiusura dei dipartimenti e delle maggiori aule studio di Unitn per le festività natalizie, fino al 9 gennaio.

In questi giorni, studenti e studentesse, tornati in città per studiare in vista degli imminenti esami di gennaio, hanno potuto notare tutte le conseguenze di questa assurda decisione, tanto elogiata in quei quattro minuti di video.

Deflorian giustifica la scelta ribadendo quanto la chiusura degli spazi fosse l’unica opzione possibile di fronte all’attuale crisi energetica, soffermandosi sul significato pratico e di risparmio di questa decisione. Il rettore ci spiega come questo sia uno sforzo etico, strategico e necessario da compiere in vista delle possibili future problematiche che porterà questa crisi, il tutto per salvaguardare il portafoglio di UniTN nelle spese che l’ateneo dovrà sostenere e per evitare futuri tagli salariali alla componente tecnico amministrativa.

Decliniamo l’augurio di un sereno Natale in famiglia e ribadiamo il nostro dissenso verso le misure prese in atto.

Non è possibile che durante questo videomessaggio la componente studentesca, quella che veramente subisce gli effetti di questa chiusura, venga completamente marginalizzata e che le problematicità di questa scelta vengano relegate ad un mero “disagio temporaneo”, facendo leva sullo sforzo personale di ognuno in “periodi complicati come questo”.

E’ assurdo come la chiusura dei dipartimenti e delle maggiori aule studio in città, venga fatta passare com

e un mezzo per garantire la futura stabilità degli stipendi del personale e non si badi a come una misura del genere non sia altro una soppressione di un servizio per tuttə coloro che necessitano di spazi di studio e di ricerca.

All’interno di un ateneo di merito ed eccellenza come UniTN è paradossale parlare di garanzia per il diritto agli spazi di studio. Ci interroghiamo inoltre su come una chiusura di quattro giorni possa andare a toccare il portafoglio di un ateneo che continua a ricevere finanziamenti dalla PAT, amministrandoli seguendo le classiche logiche aziendali: tagliare su servizi risparmiabili ed investire su mega-progetti redditizi. Progetti che poco, o nulla, hanno a che fare in m

odo diretto con studenti e studentesse. UniTN infatti, predilige investire in progetti tecnico scientifici che hanno a che fare con il mercato molto redditizio della guerra (come MedOr, Perception Europe, Eledia), piuttosto che garantire il diritto allo studio: ricordiamo ad esempio, che non esiste la possibilità di ottenere un alloggio gratuito se non per merito, e che un pasto in mensa costa più di una margherita in una qualsiasi pizzeria (5€). Oltre ai finanziamenti nostrani, anche quelli nazionali vengono mal investiti. I 7 bandi di dottorato aperti con i fondi del PNRR sono stati tutti assegnati a facoltà scientifiche, certamente più utili ai fini imprenditoriali di Deflorian e compagnia, che possono fruttare nel sopracitato mercato della guerra oppure nella farsa della transizione ecologica. Contemporaneamente all’aumento quantitativo delle borse per lə dottorandə , tramite un complesso sistema di leve e specchi, gli stipendi sono diminuiti di circa 80€ al mese, rendendo ancora più precariə chi decide di proseguire il percorso di studi all’interno dell’accademia. Questa s

celta aggrava ulteriormente le condizioni di un gruppo che veniva già ampiamente sfruttato all’interno dell’università: obbligato a prestare servigi di ogni tipo sotto ricatto, pena l’impossibilità di avere continuità all’interno del mondo accademico.

Ci troviamo quindi di fronte al risultato degli accordi che alcuni anni fà un gruppo di student* avevano inchiestato e a cui si erano oppostə : la provincializzazione dell’ateneo Trentino. Un accordo tra PAT e UniTN, che prevedeva l’allentamento del potere statale sull’ateneo in favore di quello provinciale, rendendo di fatto la seconda schiava della prima, direttamente sottomessa agli investimenti mirati ai grossi ritorni economici tanto cari all’autonomia trentina.

Non ci stupisce inoltre che le rappresentanze sulle loro pagine social non abbiano fatto altro che un post informativo sugli orari di apertura della BUC e non abbiano espresso alcun dissenso per la questione. D’altronde si, sempre dalla stessa parte, quella dei padroni.

Ribadiamo quindi la nostra posizione: questa chiusura è inaccettabile. La BUC è gremita, le prenotazioni sono esaurite da giorni, il clima del clic più rapido sul “prenota posto” caratterizzante della pandemia non ci mancava, anzi ci chiediamo come sia possibile che possa accadere di nuovo. I soldi ci sarebbero caro rettore, basterebbe investirli in modo sensato e destinarli ai fabbisogni studenteschi. Le serrature chiuse di questi giorni non sono altro che un

a privazione di spazi di studio per migliaia di studenti e studentesse ed è inutile riempirsi la bocca con la retorica dello sforzo personale per mettere toppe ai disservizi di questi giorni.

Deflorian apri ste porte. 

Il triangolo no, non l’avevamo considerato: Ianeselli-Sciortino-Baldo

Giovedì 7 aprile sulla testata del Corriere del Trentino è stato riportato un articolo di Donatello Baldo che tenta infruttuosamente di ricostruire i fatti della mattinata del 5 aprile, giorno in cui, presso il dipartimento di Sociologia, si sono tenuti un presidio e una contro-lezione riguardo la presenza del sindaco Ianeselli e della sua propaganda in università. Infatti, il signor sindaco, invitato dal prof. Brunazzo – e non Brunello, caro Baldo – avrebbe dovuto tenere una lezione che elogiasse lo strumento del dibattito pubblico e dei processi decisionali democratici sul progetto della circonvallazione ferroviaria che interesserà la città di Trento. Tuttavia, come ci è stato confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione” e dalle registrazioni, si è rivelato un becero tentativo di propagandare nuovamente l’opera della circonvallazione presentandola come la panacea di tutti i problemi della città di Trento, e lasciando addirittura dei voltantini a supporto della Grande Opera di RFI.

Alle parole del direttore di Dipartimento Sciortino, che dalla sua finestra – in realtà affacciata sul lato opposto dell’edificio – avrebbe contato solo ventuno persone di cui ben pochi iscritt* all’università, ribadiamo invece una forte e vocale presenza, in particolar modo di student* che sono stati il cuore di questa contro-lezione. Troviamo anche quantomeno ironico che un dipartimento che si vanta così tanto di essere stato al centro dei movimenti del ’68 riempiendo gli spazi universitari con frasi iconiche di questo periodo – vedi aule studio, panchine, ecc – allo stesso tempo gioisca della riduzione ai minimi termini del movimento studentesco e faccia di tutto per eliminare e contrastare quel poco di attività politica che resiste al suo interno. Infatti, puntuale, ritorna lo spettro di Biloslavo sempre usato come strumento per delegittimare il nostro collettivo ancora a 3 anni di distanza, nonostante ormai in università non sia rimasto praticamente nessun* dell* student* presenti quel giorno. Il caro direttore Sciortino afferma anche di essere stato presente alla “lezione” di Brunazzo e Ianeselli, peccatto che a pochi minuti dall’inizio del presidio sia stato visto uscire dalla porta principale dell’edificio e abbia fatto ritorno in facoltà solo alle 11 quando la “lezione” era ormai conclusa e noi ci preparavamo per spostarci nel cortile posteriore. Fatto nuovamente confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione”, riportando che Sciortino è stato in aula i primi dieci minuti e all’arrivo del Sindaco è uscito accennando ad un impegno. Brunazzo e Sciortino non sono nemmeno riusciti a mettersi d’accordo prima di esporsi sulla “lezione”: secondo il direttore infatti la lezione non era aperta a tutt*, mentre Brunazzo ha sostenuto fino al giorno prima che la lezione sarebbe stata riservata all* student* del corso, salvo poi scoprire convenientemente la mattina stessa che in realtà sarebbe stata pubblica e accessibile all* student*, come ci ha riferito lui stesso al termine della lezione (LOL). Questo è lo stesso direttore di dipartimento che qualche mese fa si oppenva alla concessione di un aula per una conferenza organizzata dall* student* utilizzando tra le varie scuse quella dell’assenza di una controparte, esattamente quello che è accaduto martedì e che sta difendendo a spada tratta.

Un’altra critica che ci preme sollevare riguarda le parole di Edoardo Giudici, che esprime solidarietà al sindaco a nome di tutta la comunità studentesca arrogandosi a portavoce della totalità dell* student*, che rappresenta ma non ascolta, e rinforzando ancora l’idea che la “lezione” non avesse lo scopo propagandistico che in realtà ha avuto, come conferma invece la registrazione della lezione che abbiamo potuto ascoltare.

Chiudiamo dicendo che non ci faremo intimorire dalle parole di Sciortino e che non abbiamo paura della repressione che molto probabilmente scatenerà nei nostri confronti (non che non lo facesse già). L’università è uno spazio pubblico, nonostante la pandemia abbia provato a farci dimenticare questo particolare, e abbiamo ogni diritto di incontrarci, auto-organizzarci e manifestare il nostro dissenso.

CUR

 

Abitare le contraddizioni – note sullo sciopero generale dell’11/10 e sui movimenti spuri

Di seguito alcune riflessioni sullo sciopero generale indetto dai sindacati conflittuali lunedì 11 Ottobre. Questa giornata ci ha portato a discutere al nostro interno su come muoverci all’interno di una sitiuazione a noi inedita. Ci auguriamo che questo testo possa portare un contributo alla discussione e possa essere un punto di inizio per trovare delle coordinate in questi tempi confusi ma, a nostri dire, cruciali per delineare il futuro campo di conflitto nel quale ci trovaremo a muoverci.
Buona lettura, Cur.

L’8 ottobre insieme ad altre realtà universitarie abbiamo convocato un’assemblea studentesca in vista dello sciopero generale indetto dai sindacati di base. Abbiamo quindi deciso di partecipare con uno spezzone studentesco, consapevoli di poter portare determinati contenuti e tematiche che richiamassero le tematiche lanciate dall@ organizzator@ della piazza quali no green pass, diritto alla salute dei territori, diritto al lavoro, la contrapposizione al TAV e in aggiunta una tematica particolare su cui stiamo lavorando da diverso tempo: la delicata situazione abitativa in città, universitaria e non. Le case sono poche e i prezzi spesso inaccessibili e inaccettabili, e questo ormai è sotto gli occhi di tutt@. La situazione esasperante apre la strada ad un crescendo di soprusi da parte dei proprietari di casa, come segnaliamo da mesi sulla piattaforma Affitto Demmerda Trento. I responsabili di questa situazione, oltre ai padroni di casa di merda e palazzinari, sono provincia, comune e opera universitaria, che hanno attuato negli anni una politica volta a vendere gli appartamenti in favore di costruzione di studentati/dormitori nelle zone periferiche della città.

Arrivat@ in piazza immediatamente ci troviamo di fronte ad una composizione eterogenea. Oltre ai sindacati di base, student@ e lavorator@, una buona fetta dell@ partecipanti è ascrivibile ai percorsi novax/nogreen pass che ogni sabato, da diverse settimane,  si ritrovano in gran numero a protestare per le vie della città.

Il contatto con questa composizione, a primo impatto, ci ha lasciat@ interdett@. In particolare, a nostro avviso, viene lasciato molto spazio ad interventi/comizi spesso dai toni deliranti (con l’exploit di zuckerberg che ruba organi di bambini) a richieste disperate (nei toni e modalità) di colloquio col presidente Fugatti (sigh). Proprio per questo motivo – è tangibile l’irrigidimento di alcune soggettività con cui condividevamo lo spezzone dinanzi a questi interventi – capiamo subito qual è la cosa giusta da fare: lo spezzone si posiziona vicino a realtà a noi familiari, portando i suoi contenuti e intonando cori contro l’opera universitaria e contro le politiche del governo Draghi – Confindustria. Dopo aver attraversato tutta la città di Trento e aver portato azioni di diversa natura, su cui non ci soffermiamo perchè bastano i pennivendoli vari a infamare e travisare la gestione delle piazze, il corteo è terminato all’ingresso della sede di Confindustria. Di fronte a un nutrito spezzone di sbirrume vario, la piazza si dispone rivolta verso quella che viene comunemente identificata come nemico comune: la sede dei padroni e degli industriali. Che sia per il TAV, per lo strumento logistico di ristrutturazione del mondo produttivo post-pandemia (aka green pass), per una sanità pubblica dissanguata o per un’università asservita ai bisogni di multinazionali il corteo si dimostra capace di individuare senza indugi i responsabili. E a noi questo non può che piacere. E ci porta a scrivere poche righe di riflessione su quello che questa esperienza ci ha lasciato, tra dubbi e insicurezze ma anche determinazione nel non lasciar appiattire il dibattito su un piano di “son tutti fascisti e vanno presi a randellate” che ultimamente stiamo vedendo correre sui social ma anche nelle piazze di questi giorni.

 

Abitare le contraddizioni

La sfida che ci pone la nostra epoca è quella di confrontarci con movimenti sempre più spuri e difficilmente inquadrabili nelle tradizionali categorie politiche.

Quarant’anni di neoliberismo hanno portato ad una composizione di classe frammentata.

Le piazze sono diventate imprevedibili (vedi i gilets jaunes), ed eccedono la nostra idea di composizione di classe di “sinistra”–  diciamolo, ormai stanca e sconfitta. Come antagonist@ dobbiamo imparare a non criminalizzare movimenti che nascono spontaneamente da spinte anche emotive e non “militanti”. Anche in queste situazioni infatti si cela un possibile nocciolo pre-insurrezionale che deve essere sviluppato e non represso sul nascere. Questo non vuol dire lasciar correre qualsiasi intervento e posizione, a volte assurde e nazionaliste, ma rimboccarsi le maniche e abitare le contraddizioni, infiltrarsi nelle crepe che vengono aperte da queste piazze e scardinarle. Può spaventare un movimento come quello no green-pass e no-vax: manca una linea politica in piazza e fuori dalla piazza, è caratterizzato da una composizione completamente spuria, con pochi obiettivi e pochi paletti imposti alla partecipazione. La dimostrazione è che allo sciopero dell’11 indetto dai sindacati di base, a Trento ma anche nel resto d’Italia, i no green pass hanno partecipato in massa senza porsi il problema di chi avesse lanciato il corteo. Certo ha fatto piacere vedere marciare migliaia di persone sotto le bandiere del sindacalismo conflittuale, non possiamo negarlo è stato un bello spettacolo, ma non dobbiamo mentirci: questo è stato possibile solamente perchè merde nazionaliste non sono state fatte entrare nel corteo, tranne pochi e silenziosi casi isolati. Le rivendicazioni del corteo erano limitate, specifiche, ma allo stesso tempo semplici e facilmente condivisibili: chi non sarebbe d’accordo di fronte allo slogan “giù le mani dal lavoro?”. Questa semplificazione del problema e la facilità nell’aver individuato nello stato, qualsiasi cosa potesse significare questa parola per le singole soggettività presenti nel corteo, ha posto le basi per un movimento di massa.

Rifiutiamo la superficialità con cui una parte de* compagn* affronta questa questione, la realtà nuda e cruda che ci sono migliaia di persone incazzate contro stato e padroni anche per motivazioni dubbie e confuse. Un tempo “il movimento” sapeva misurare e criticare gli strumenti mediatici dei padroni, a noi sembra imbarazzante l’equivalenza novax/no green pass = fascisti.

Piuttosto di scervellarsi nel trovare una posizione coerente “di sinistra” per inquadrare la situazione dovremmo invertire il nostro ragionamento: cosa sposta gli equilibri di forza a nostro favore in questo nuovo contesto potenzialmente esplosivo?

Il piano discorsivo mainstream, attualmente, sembra esserci tremendamente a sfavore. Il vaccino ed il green pass, con la conseguente demonizzazione di ogni opinione critica nei confronti di queste misure, sono attualmente i simulacri dietro il quale, scaricando la responsabilità sull’individuo, avanzano politiche reazionarie e contro-insurrezionali del governo. E questo è stato chiaro fin da subito con la fine delle misure che hanno accompagnato l’emergenza pandemica: le quarantene che non vengono più considerate dall’inps come equivalenti alla malattia o, sul piano universitario, il blocco della didattica a distanza laddove poteva essere uno strumento utile per l@ meno abbienti (con la conseguente saturazione dell’offerta immobiliare delle città produttive e/o universitarie). Queste misure si accompagnano ad altre misure infami: la sospensione lavorativa dell@ non vaccinat@, la fine del blocco degli sfratti e dei licenziamenti. La colpa viene scaricata sull@ singol@ colpevole di non aderire alla campagna vaccinale – simulacro della salvezza – piuttosto che sui veri responsabili. Come scrivevamo fin dall’inizio della pandemia “il virus si propaga per le condizioni di vita che ci sono state imposte”: lavorare, spostarsi, vivere in massa in luoghi sovraffollati e insalubri con una sanità ridotta a macerie da anni di neoliberismo. E i discorsi su sanità e cura dei territori, del “torneremo ad abbracciarci” (cap.1 del libro cuore delle conferenze di Conte durante il lockdown) vengono lasciati in un polveroso scaffale ad ammuffire.
Rifiutare il green pass come strumento retorico e logistico per riorganizzare il mondo produttivo post pandemia diventa a questo punto cruciale.

La contrapposizione tra libertà individuale (di vaccinarsi) vs responsabilità collettiva (anche qui di vaccinarsi) sembra ricalcare la tiritera sulla responsabilità del singolo con il quale il governo ci ha tenuto al guinzaglio per più di un anno. Questo non può essere il nostro piano di azione, i responsabili ce li abbiamo davanti e, mentre discutiamo sul nulla, questi si fanno delle grosse risate. Dobbiamo sfuggire alla categorizzazioni di governo e media. Noi siamo (vaccinat@ e non) gli/le sfruttat*, l@ disoccupat@, l@ precar@, l@ senza-futuro. E proprio per questo dobbiamo diventare ingovernabili, sfruttare e ragionare con altre persone che per diverse motivazioni vogliono interrompere la catena di comando e oppressione dello stato. Cacciare i fascisti dalle piazze, cacciare i padroni dai palazzi in cui si godono lo spettacolo; dobbiamo essere presenti in queste piazze, capire come spostare gli equilibri, come portare l’odio verso il vaccino in sè all’odio verso la gestione capitalistica di una pandemia capitalistica che non ci ha lasciato il tempo di piangere l@ nostr@ mort@ che già ha creato un nuovo strumento di controllo e oppressione. Non sono l@ no vax o no green pass ad aver tenute aperte le fabbriche, non sono stat@ le no vax e no green pass ad aver gestito il rapporto con gli ecosistemi in maniera deleteria e aver favorito lo sviluppo e la propagazione a livello mondiale di una pandemia, non sono l@ no vax o no green pass a sfrattarti, a darti un salario da fame e a farti perdere il lavoro. La solidarietà di classe è l’antidoto al virus retorico del governo Draghi-confindustria.

Per questo motivo in quelle piazze noi dobbiamo esserci, diventare la piazza, creare anticorpi alle presenze neofasciste e neonaziste, incanalare la rabbia anti sistema vero i veri produttori della nostra miseria, trovare nelle teorie complottiste meno strampalate i semi di una possibilità rivoluzionaria, isolare la minoranza rumorosa e inconciliabile con i nostri punti di vista dalla piazza. Come movimento dobbiamo imparare a prendere coscienza che quelle categorie, quel modo di fare politica a cui siamo abituat@ è finito da un pezzo e, car@ compagn@, sembra che siamo l@ unic@ a non essercene accort@. Siamo di fronte ad un bivio: continuare a trascinare avanti fino allo sfinimento le modalità a cui siamo abituat@, farci i nostri eventi e cortei in cui facciamo le foto studiate per sembrare una folla ma alla fine siamo sempre l@ solit@ quattro gatt@, oppure mollare gli ormeggi e navigare in mari inesplorati. Non sappiamo ancora dove ci porteranno queste piazze, ma questo abbiamo e su questo dobbiamo lavorare. Dobbiamo immergere le mani nella merda e nel fango, chi non se la sente torni nei salotti della sinistra a guardare con disprezzo classista una massa di lavorator@ sporc@ e ignorant@ che non sono in grado di prendersi una laurea magistrale per capire come gira il mondo. Noi, da parte nostra, la scelta l’abbiamo compiuta: per richiamare una parola ormai cara nel nostro immaginario, INSORGIAMO.

 

Ianesellik! Il sindaco della notte colpisce ancora!

E bene, ci risiamo.

Appena gli studenti tornano in città il caro sindaco Ianeselli risponde con una nuova ordinanza per combattere la tanto temuta movida. Infatti, fino al 1° novembre 2021, nell’area di Santa Maria Maddalena – la Scaletta – dalle 22:30 alle 5 non si potranno consumare bevande, sì, non alcolici ma proprio bevande, né tanto meno averne di chiuse, tranne se non si è seduti ai tavoli dei due locali lì presenti.

Il problema è sempre lo stesso da anni ed anni: l* student* vanno bene finché sono seduti ai tavolini a 100 metri dalla zona dell’ordinanza a bere cocktail a botte di 8 euro, ma diventano fonte di degrado se bevono delle birrette portate da casa. Quindi, “l* resident*”, altra figura immaginifica dietro il quale spesso si nascondono comitati antidegrado (aka vecchi di forza italia e rigurgiti nazi/fascitoidi) si lamentano con il sindaco. Il sindacalaro, neanche a dirlo, spara un’altra bella ordinanza “per contrastare l’abuso di alcol e fenomeni di degrado”.

La giustificazione è anche questa sempre la stessa, cioè che l* resident* hanno il diritto di dormire. E nessuno lo vuole mettere in dubbio, per quanto personalmente non capisco perché quell* che abitano sopra i locali dove i cocktail costano 8 euro non abbiano lo stesso diritto, ma vabbè.

Comunque non sarà certamente una politica repressiva – a colpi di multe da 89 a 534 euro – a risolvere il problema e né è consapevole lo stesso Iasenelli, che però appare piuttosto confuso. Quando gli viene chiesto cosa succederà dopo il 1° novembre, la sua risposta è che l’ordinanza si può prolungare. E sì, la scorsa primavera era stato formato un tavolo di discussione, per cercare di trovare una soluzione tra student* e resident*, ma se l* resident* pretendo che l* student* non si svaghino – per altro dopo anni di quarantene e coprifuochi – mi sembra piuttosto logico pensare che il compromesso non si possa in alcun modo trovare.

Oltre, al disturbo del loro povero sonno, l* resident* si lamentano per le condizioni per cui la zona di Santa Maria Maddalena viene ritrovata la mattina – si parla di bici rotte, rifiuti abbandonati e pipì un po’ qui e un po’ lì – ma anche in questo caso, cosa ci si può aspettare da una piazzetta in cui ci sono forse 400 student* con le vesciche piene, due bagni (dei bar) e due cestini?

Sempre il caro sindaco dice anche che durante quest’estate dei passi in avanti sono stati fatti, perché si è de-localizzata la minacciosa movida nei parchi e che questo modello potrebbe essere ancora utilizzato. Anche quella che era stata definita la “sindaca della notte”, che no, purtroppo non è vestita da supereroe per combattere la sua acerrima nemica – la Movida – in una post su Instagram – perché, guarda un po’, lei sì che è vicina ai giovani, usa Instagram per comunicare – afferma di essere consapevole che l’ordinanza non è lo strumento risolutivo e che si sta lavorando per trovare soluzione alternative. Queste soluzioni, mai una volta esplicate, richiedono a suo dire più tempo per essere messe in pratica. Immaginiamo che questo abbia a che fare con la delocalizzazione abitativa degli studenti, già in corso, che potrebbe essere velocizzata l’imminente inizio dei lavori per due studentati in periferia.

C’è da dire che se la soluzione alternativa è mandare l* studenti fuori dal centro, così che non rompano ai l* resident*, non è che sia poi così alternativa come soluzione e sicuramente non è un compromesso, ma anzi ci si schiera nettamente da parte de l* resident*, come se solo loro abitassimo la città e noi, fossimo qui come turisti di lunga durata. Il centro deve rimanere una vetrina, la periferia deve essere luogo di esasperazione e anomia.

Il problema, come detto, è sempre lo stesso: appena facciamo un po’ più di rumore non andiamo bene, non solo nel centro storico, ma neanche nelle case o alle Albere – dove i quattro gatti che ci abitano sono comunque capaci di lamentarsi non appena il casino accenna a muoversi da quelle parti. Non andiamo bene se non siamo seduti nei locali a bere cocktail a 8 euro e a mezzanotte tutti a nanna. Andiamo bene finché paghiamo affitti sempre più alti e sempre più scarsi per riempire le tasche di chi, dietro a tutto questo pietoso teatrino, si sfrega ancora una volta le mani.

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

Cronache di una solitaria e ricca Trento sfitta

Sono una studentessa dell’Università di Trento, nata a Napoli. Quando, ormai un anno fa, è iniziata la fine del mondo, ero come molti di voi nel bel mezzo dell’anno universitario. Non avendo più una soluzione abitativa molto agevole nella mia città, scelsi di rimanere nella ridente cittadina di Trento.

Ho passato tre mesi a guardarmi negli occhi con la mia coinquilina e a fare collage con giornali vecchi aspettando la fine di quella che allora sembrava una reclusione impensabile, assurda, eccezionale (che ingenue), valutando infondo che i 240 euro mensili per una doppia che stavamo sborsando a quei furboni dei nostri padroni di casa, di cui 100 in nero per delle bollette mai viste, valessero la pena per una quarantena del genere. Sicuramente stare in una casa universitaria, per certi versi, ha aiutato, ma 240 euro al mese faccio ancora fatica a digerirli.

Pagai anche i mesi estivi, perché qui in trentino i padroni di casa sono molto fiscali – leggi “stronzi”-  e la disdetta se non la dai tre mesi prima ti costa la caparra di un mese intero ( nessuno sconto per le bollette anche se la casa rimane vuota, mi raccomando!).  

Questa rosea esperienza l’ho fatta nell’ elegantissimo serpentone di cristo re, e attualmente i padroni di casa non hanno nemmeno cercato qualcuno che potesse andarci a vivere, né gli è balenata lontanamente l’idea di abbassare un po’ il prezzo. Il compromesso della perfetta mano invisibile che mette d’accordo domanda e offerta è quindi piuttosto un braccio di ferro impari,  in cui i padroni di casa forzano una soglia sotto la quale non si può scendere, e le case rimangono vuote e gli universitari per strada (o nelle città di origine). 

Guardandomi intorno mi venne in mente: quanto spazio sprecato. Cosa fare con tanti immobili vuoti?  Quanto poco amore c’è in questa città per ricchi? Dalle enormi alle piccole strutture, ognuna ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Non per forza pagando un affitto, diciamocelo.   

Comunque.

A settembre dovevo decidere cosa fare: rimanere a Trento, con il rischio che la mia permanenza fosse inutile dato che la didattica poteva diventare interamente a distanza da un momento all’altro – e di fatto, così è stato-, o tornare a Napoli e cercarmi anche lì un posto dove dormire. Così ho scroccato un materasso da amicu per un po’ per capire cosa fare. 

Indovinate? L’orgogliosa città universitaria di Trento, dalla parte dei buoni, con tutti quegli stimabili principi di servizi pubblici, la libera circolazione, le tasse basse, le biblioteche come se piovessero, fa una selezione atroce tra gli studenti, alla radice, di nascosto: non muove un dito affinché il costo della vita non sia vagamente più abbordabile, anzi. E nonostante la facciata, si trova del classismo più ipocrita e crudele, anche detto libero mercato. 

Gli affitti sono rimasti praticamente tutti carissimi, manco fosse chissà quale metropoli. I prezzi delle case non erano più bassi dell’anno precedente, come probabilmente sapete, anzi erano saliti. 

Le singole partivano dai 300 euro, le doppie dai 250 e per riuscire a scendere sotto i 200 ho visto gente dormire in quattro in triple, cose del tipo che ogni sera si giocava alla morra cinese per vedere chi dormisse per terra.

Il salvifico ruolo dell’opera universitaria, inutile a dirsi, non risulta salvifico. I prezzi standard senza borsa di studio non abbassano la media degli affitti, e a tappare i buchi del pubblico si inseriscono aziende private che credono di poter fittare posti letto a 430-450 euro al mese avendo pure la faccia tosta di chiamarli studentati (per ulteriori informazioni è consigliata la lettura dell’articolo nel link a fine pagina).

Il tasto dolente di tutto questo è che in altre città una situazione del genere porterebbe ad una orgogliosa ondata di occupazioni abitative, o almeno di tentativi. Questa città democratica, civile, felice, invece, è sede di una repressione tale da far abortire ogni spirito di iniziativa da basso, che non sia un mercatino bio o  una qualsivoglia attività radical-chic

Morale della favola, mi trovo a Napoli in un monolocale, davanti ad uno schermo a usufruire dei meravigliosi servizi dell’università di Trento, nella quale probabilmente non varrà più la pena di vivere. O magari sarà possibile con metodi diversi. 

 

Riferimenti:

https://curtrento.noblogs.org/post/2020/10/26/dalla-padella-alla-brace-nuovo-studentato-alle-albere/

Cronache di una tragedia annunciata

pubblichiamo delle interessanti riflessioni di un fuorisede a Trento ai tempi della pandemia.

Mi sono trasferito a Trento durante una pandemia globale che sta mettendo in ginocchio milioni di persone, frantumando progetti e psiche già duramente provate dalle strutture e oppressioni di questo maledetto tardocapitalismo. Ho incontrato ciò che migliaia di studenti fuorisede hanno conosciuto prima di me e che continueranno a conoscere per molto tempo: affitti folli, padroni di casa di merda, supermercati con prezzi ben oltre la mia portata e strade con più sbirri che panchine. Non basta, ho conosciuto quella particolare tendenza trentina a voler aumentare il numero di studenti a dismisura ma soltanto a lezione, con la speranza che cessino di esistere oltre la loro partecipazione accademica e non si facciano vedere per le strade per esempio volendo uscire la sera. Non intendo certo riprodurre il trito e ritrito luogo comune della guerra tra residenti e studenti, mi annoia abbastanza, ma credo che quanto detto da un’amica, cioè “qui a Trento non hanno ancora capito come spremere del tutto il portafoglio di noi fuorisede lasciandoci ammassare in luoghi di aggregazione a prezzi più bassi”, basti per riassumere la situazione generale. A cui si aggiunge la già citata stramaledetta pandemia che rende il tutto ancora più pesante e difficile. O forse no. Il coronavirus ha un pregio, il pregio di tutte le crisi incontrollabili: mettere a nudo le contraddizioni e costringere a pensarci, a darci un peso. Se non ci fosse la quarantena, il coprifuoco, il lockdown, l* poch* compagn* conosciut* in queste brevi settimane che scompaiono perché il sistema di tracciamento dei contatti dei positivi l* risucchia in una spirale di ansie e tamponi, forse la domanda “che ci fai a Trento?” avrebbe un significato diverso. Un anno fa avrei potuto arrampicarmi sui vetri, giustificare la mia presenza in questa città per le lezioni, il contatto con le persone, la (poca) vita universitaria. Ora tutto questo non esiste più. Le lezioni si seguono da casa e, a conti fatti, ci si rende conto che cambia poco, che la conoscenza verticale continua a franarti addosso anche se adesso puoi togliere audio e video e mandare a fare in culo i professori quando fanno la solita sparata maschilista o discriminatoria. E anche tutto il resto, come possiamo vedere facendo un giro davanti a una scaletta ormai svuotata (non ho fatto in tempo a provare lo champagnone, mannaggia al capitalismo), non si trova più. Dunque, perché sono a Trento? Per un’entità che nella mia mente si presenta astratta ma in realtà è tremendamente tangibile, materiale e prepotente: l’Università. Ottima risposta, ma quale università? Vale la pena approfondire meglio questo aspetto, tanto non abbiamo più nulla da fare oltre a qualche timido aperitivo, almeno finché ce lo fanno fare. L’ateneo tridentino è infatti primo nella classifica MIUR degli atenei di media dimensione italiani. Qualità dell’insegnamento alle stelle, strutture futuristiche, professor* disponibili. Per carità, forse in alcuni casi fortunati le aspettative verranno soddisfatte, ma per quanto riguarda la maggioranza siamo qui perché ci vendono, e a caro prezzo, un’idea di università che non esiste e la promessa di un futuro che manca. Ti raccontano che non si tratta del solito parcheggio per studenti che serve a non farci accorgere che non ci stanno lasciando nulla su sto pianeta, che dovremo fare la fame fino a quarant’anni per morire di cancro o climate change ai cinquanta. Il covid mi costringe a fare i conti con questo, sono uno studente fuorisede che studia in un’università che riproduce uno schema meritocratico-competitivo e oppressivo profondamente capitalistico come tutte le altre. Sono solo un po’ più privilegiato rispetto a chi studia in un ateneo di serie B, posso succhiare qualche ridicola goccia in più di un benessere negato alla maggioranza di cui faccio parte. Si, ho delle agevolazioni da studente, più di quelle che avevo nell’ateneo dove ho fatto la triennale. Ma a parte questo sono solo un piccolo ingranaggio in una catena di montaggio culturale, pago per esserlo, fatico per raggiungere uno status sociale classista di laureato che non mi porterà nulla se non forse uno sfruttamento leggermente meno peggiore di chi non è tanto privilegiato come me da potersi permettere di studiare. E mi rendo conto più di prima che io sono un numero di matricola, lo sono sempre stato e lo sarò fino alla laurea, questa università provvederà a mettermi dei numeri in trentesimi da associare a dei codici di esami finchè continuerò a pagarla regolarmente e mi vomiterà fuori inerme, catapultandomi dentro a una società profondamente ingiusta e disinteressata alla mia sorte. Fermiamoci un secondo. Tutto questo lo sappiamo già, chiunque abbia mai partecipato a un’assemblea universitaria ma anche liceale avrà già sentito gli slogan, condivisibili e legittimi come tutti gli slogan del resto, del tipo “no alla scuola dei padroni”. C’è qualcosa di diverso questa volta. Qualcosa che va più a fondo, che parte dalla didattica a distanza e arriva in un punto di indefinito malessere e rabbia. Perché diciamocelo, la didattica a distanza funziona fottutamente bene. Funziona nell’ottica di un’università fabbrica di cfu, è il tipico riciclo del capitalismo che trova il modo di salvarsi il culo a ogni fottuta crisi che provoca. Ecco la novità, ecco cosa non funziona: davanti a una crisi sanitaria profonda che comporta disastri psicologici ed economici per tutt* noi, l’università ha trovato il modo di andare avanti senza mettere in discussione nessuna delle sue strutture, nessuna delle sue finalità. L’università sta andando avanti senza noi, nonostante noi, questa volta in maniera più plateale del solito. Quando guardo i riquadri vuoti e neri di quell* che dovrebbero essere l* compagn* di corso, mi rendo conto che in questo schema, è possibile un’università senza studenti. Non solo è possibile, è auspicabile per il capitale. Qualsiasi spazio lasciato all’ultima ruota del carro della struttura accademica è scomparso. Non parlo solo di spazi fisici ma anche virtuali, solidali, organizzativi e politici. Resta una struttura svuotata, che almeno prima fingeva di voler essere riempita con le nostre idee e i nostri corpi, ora non più. Non c’è una comunità studentesca, non ci sono l* studenti, siamo gettati davanti alla nostra fragilità fisica come mai prima nella nostra vita e nonostante questo, nonostante questa mancanza violenta, questo vuoto incolmabile, l’università va avanti. Perché perdere mesi di lezione non si può, bisogna restare competitiv* e formare nuove vittime del mercato del lavoro in fretta. Non è servita una fottuta pandemia per mettere un freno all’università neoliberista, ad aprire la possibilità di una ridefinizione di cosa debba essere per noi questo luogo. E se il luogo che si professa come tempio del sapere e della discussione (tante belle parole) non è in grado di rimettersi in discussione, allora abbiamo un problema che va ben oltre le tasse, ben oltre i saperi liberi e accessibili, ben oltre gli spazi fisici in cui studiare.

Il covid congela tutto, congela questo mondo accademico in cui prima mi muovevo liberamente e mi toglie quelle distrazioni che mi facevano distogliere lo sguardo da questa verità: ci hanno intortato per anni e continuano ancora dicendoci che lo studio serve ad emanciparsi. Forse avrebbero dovuto insegnarci a disertare le strutture della conoscenza istituzionalizzata e neoliberista e ad assaltarne i palazzi. Ma lo stiamo imparando da sol*.

Ora so cosa ci faccio a Trento durante una pandemia globale: a Trento mi arrabbio. O forse sono sempre stato arrabbiato e Trento me lo fa ricordare.