Festival della Famiglia a Sociologia: sui fatti del 29/11

Il 28 novembre a Trento è iniziato il Festival della Famiglia che, arrivato all’undicesima edizione, si è contraddistinto, soprattutto negli ultimi anni, come cavallo di troia per il mondo dei pro-vita, o meglio anti-scelta, family day e della destra ultracattolica. Un festival che dietro alla celebrazione delle politiche di incentivo alla natalità, promosse dalla Provincia Autonoma di Trento, ha sempre nascosto – più o meno velatamente – discorsi misogini e contro la comunità LGBTQIA+. Tra questi non possiamo dimenticare la partecipazione dell’ex ministro della famiglia, e attuale presidente della camera Lorenzo Fontana, e del senatore leghista Simone Pillon, la quale è sempre stata duramente contestata dalle realtà di movimento trentine.

 

 

Martedì 29 novembre, il Festival della Famiglia è entrato per la prima volta nell’Università di Trento, nel dipartimento di Sociologia, ospitando – cosa che, purtroppo, non ci sorprende più – esponenti politici e associazioni della destra-cattolica e legate ai movimenti pro-vita.

Appena saputo dell’organizzazione del convegno, moltissimə studentə, ricercatorə e dottorandə di tutta l’università hanno iniziato a organizzarsi spontaneamente per contestarlo con un messaggio chiaro: “Fuori pro-vita, razzisti e sessisti dalle università”.
Così, a seguito di un diffuso e capillare passaparola, un centinaio di studentə si sono riunitə spontaneamente nell’atrio in contemporanea allo svolgimento della conferenza, in modo da poter far sentire la propria voce contro i presupposti sessisti, razzisti, anti abortisti e queer fobici che stanno alla base di questo Festival.

La conferenza di ieri ha portato direttamente all’interno del dipartimento delle dubbie personalità a discutere della “crisi demografica del popolo italiano”, utilizzando strumentalmente la cornice di Sociologia e la presenza della prof. Agnese Vitali – professoressa del dipartimento ed esperta di demografia – per dare una parvenza di scientificità alle idee reazionarie dei 5 relatori . Tra questi ricordiamo lo statistico Roberto Volpi, sostenitore della superiorità della coppia eterosessuale e del concetto di sostituzione etnica, autore del libro “Gli ultimi italiani: come si estingue un popolo”; Alfredo Caltabiano, presidente dell’associazione Famiglie Numerose, sostenitore dell’”italia del terzo figlio”; il giornalista di Famiglia Cristiana, Alberto Laggia, che più volte si è esposto a favore dei movimenti pro-vita. E tra i saluti istituzionali l’Assessora Rosolen e l’Assessora Segnana, pioniere della difesa dei bambini dalla famigerata “teoria gender” e vicine alle idee del family day, con annesso antiabortismo. Quest’ultime, forse per “motivi di ordine pubblico”, non si sono presentate al convegno.

 

Appena ritrovatesi in atrio interno, a pochi passi dall’aula della conferenza, lə studentə si sono espressə con interventi contrari alle idee promosse dal festival, sviscerando le retoriche intrinsecamente retrograde e violente di concetti come quello di famiglia tradizionale o di crisi demografica del “popolo italiano”. I diversi interventi hanno decostruito i diversi aspetti di questo tipo di retoriche, così come la necessità di rompere i modelli cis-etero-patriarcali che stanno alla base del concetto di famiglia (al singolare) tradizionale.

 

L’organizzazione della conferenza all’interno del dipartimento dimostra ancora una volta l’inferenza della Provincia a trazione leghista all’interno dell’Ateneo trentino, minando la supposta indipendenza che questo dovrebbe avere. Ma non ci sorprende che le mani di chi risiede nel palazzo di piazza Dante arrivino dove vogliono. Follow the money. Ricordiamo inoltre come l’assessora leghista Segnana si sia sempre contraddistinta nel promulgare le sue illuminanti posizioni: come l’opposizione alla presunta Teoria Gender che indottrina i poveri pargoli trentini, oppure l’abolizione per sua mano dei corsi all’educazione all’identità di genere nelle scuole, così come il suo coinvolgimento e sostegno al mondo antiabortista ultracattolico.

L’organizzazione del convegno da parte della PAT a sociologia fa ancora più sorridere per il fatto che sia stato organizzato pochi giorni dopo la conferenza Gender R-evolution, che ha visto centinaia di ricercatorə e attivistə confluire a sociologia e che ha generato tanta indignazione dagli amici di lunga data della Lega, con la paranoica “protesta” (non sappiamo nemmeno come definirla) di Casapound. La PAT e il rettorato, hanno così calpestato la dignità e il lavoro dellə moltə ricercatorə  che si impegnano quotidianamente per combattere questo tipo di idee tossiche, presenti nel mondo politico come nell’accademia.
Inoltre si è sottolineato come il festival della famiglia sia stato patrocinato dall’ordine degli assistenti sociali trentini, a dimostrazione della “neutralità” del suddetto ordine.

Gli interventi sono continuati decostruendo la narrazione della crisi demografica fatta propria dal festival. Infatti, come dimostrano i lavori del relatore Roberto Volpi, tutta la conferenza si è basata su dei presupposti razzisti e paranoici riguardo la presunta scomparsa del “popolo italiano”. Questo si traduce in una propaganda nazionalista e anti-migratoria, nonchè in un confinamento delle donne al ruolo di madri gestanti e nell’oggettificazione del loro corpo come sforna figli per la nazione. Questa narrazione sulla crisi demografica nasconde dietro di sè le problematiche più ampie e profonde di questa situazione, come le disuguaglianze economiche e di genere (vedi gender gap, generation gap), come l’assenza di un vero sistema di welfare, non solo per le famiglie, ma per tutte le persone impoverite da 40 anni di politiche classiste liberali.
L’elefante nella stanza, mai citato nel corso della conferenza, è quello della crisi ecologica e climatica, la cui causa risiede proprio nell’idea di crescita continua, economica, produttiva, e infine anche demografica, in quanto il capitalismo vede i corpi delle donne come fonte ri-produttiva di forza lavoro.

Interessante far notare come nel corso della protesta abbiamo riscontrato la solidarietà, sia dellə lavoratorə dell’università (docenti, dottorandə, personale di segreteria) sia di chi lavorava ai banchetti della conferenza, mostrando ancora più fortemente come la PAT e il Rettorato, imponendo questo evento, abbiano calpestato il pensiero e la pubblica decenza dei più.

Nel corso della protesta le lavoratrici dei banchetti hanno abbandonato le loro postazioni, lasciando i gadget della conferenza a nostra completa disposizione. Così la copia di famiglia cristiana, le borse di tela del festival, gli opuscoli della PAT, da mero materiale di propaganda sono divenuti oggetti a disposizione della creatività dei più: fogli su cui disegnare, aeroplanini di carta, coriandoli, palle da lanciare, in un meraviglioso momento di liberazione creatrice.

 

Se inizialmente la porta dell’aula kessler era stata chiusa per non permettere l’entrata allə contestatorə, successivamente è arrivato l’invito dei relatori del convegno a farci parlare dentro l’aula, cosa che è accaduta verso la fine della conferenza, dove alcunə  (non tuttə se la son sentita di sentire le baggianate dei relatori né di legittimare la loro presenza) sono entratə – riempiendo lì sì, effettivamente, l’aula – per fare un intervento al microfono.

Il nostro intervento ha riscosso molto successo tra la platea, nonostante ancora prima che avessimo la possibilità di parlare siamo statə interrottə più volte dai relatori. Tra questi c’è stato chi mentre parlavamo leggeva il giornale per poi andarsene subito dopo, chi, messo davanti a posizioni espresse in passato, ha negato tenacemente le proprie posizioni (quando basta una veloce ricerca su internet per capire le idee di questa gente) e chi si è infervorato di rabbia blaterando e urlando frasi senza senso logico.

Martedì eravamo marea. Non ci fermeremo finchè la nostra Università sarà veramente uno spazio di sapere critico e libero, in cui creare spazi di rottura e non il contenitore per la promulgazione di idee e dello status quo; finchè la promozione di studi di genere e politiche di inclusione smetterà di essere una bella copertina, sotto cui celare la vera natura reazionaria dell’Ateneo. Martedì si è dato un segnale forte a chi pensa che lə studentə accettino passivamente che la loro università diventi una passere   lla per leghisti, ultracattolici, razzisti, pro-vita e fascisti di ogni genere.

 

Doveva essere una triste conferenza, l’abbiamo trasformata in un’insurrezione gioiosa.

 

Collettivo Universitario Refresh

 

 

Nei CPR si muore, e noi sappiamo chi è stato

Il 18 gennaio 2020 giunge la notizia che un migrante detenuto nel CPR di Gradisca è morto mentre era ricoverato in ospedale a causa di una rissa. Nei giorni seguenti sono arrivate le testimonianze degli altri detenuti, secondo le quali le lesioni che avrebbero portato alla morte del ragazzo sarebbero state inflitte dalle guardie del centro. Il tutto parte da una cosa piccola piccola come il telefono, V. non lo trova più e inizia a lamentarsi con le guardie, che non lo ascoltano e lo riportano nella sua cella. Lui per protesta si colpisce da solo con una mazza di ferro allo stomaco. Viene portato in infermeria, ma quando torna le lesioni sono evidenti e, di certo, non dipendono dal colpo che si è autoinflitto. Nei due giorni successivi sta visibilmente male, chiede aiuto, ma nessuno gli presta soccorso. Allora comincia a ribellarsi, gridando per attirare l’attenzione dei poliziotti, ma quando arrivano scoppia una rissa con il compagno di cella, che lui credeva stesse collaborando con le guardie. Loro intervengono per separarli, lo picchiano ancora, lo bloccano a terra e gli mettono le manette, e lo trascinano fuori dalla cella, quasi fosse un pezzo di carne.

Nessuno ha più notizie, V. non torna più in cella, e poco dopo si scopre che è morto, origliando delle conversazioni.

È chiaro chi siano i responsabili di questa morte, è chiaro come il fatto che fosse un migrante non sia una casualità, è chiaro come la polizia ancora una volta abbia abusato del proprio potere. Nei CPR le violenze e gli abusi sono all’ordine del giorno, i CPR sono centri di detenzione e non serve a nulla chiamarli Centri di permanenza per il rimpatrio, perché noi sappiamo bene cosa rappresentano in realtà. Sono la diretta rappresentazione di anni di politiche securitarie, in cui i migranti sono visti come un rischio o un pericolo da cui proteggersi. La morte di questo ragazzo è un chiaro segnale, purtroppo uno dei tanti, di come la politica internazionale, ma soprattutto quella italiana, stiamo prendendo una deriva sempre più razzista e discriminatoria nei confronti di chi viene identificato come diverso.

La detenzione dei migranti con l’unica finalità del rimpatrio e senza che abbiano effettivamente compiuto un qualche reato, è una pratica lesiva dei diritti umani e della libertà individuale di fronte a cui non è più possibile rimanere in silenzio. Così come i continui atti di violenza e gli abusi di potere in divisa non possono più essere ignorati o nascosti sotto il tappeto, utilizzando la scusa del tragico incidente o del “era una persona problematica”. L’Italia si conferma un paese in cui se sei straniero vieni discriminato, vieni rinchiuso in una cella, vivi in centri di accoglienza senza alcuna dignità e, “se necessario”, ucciso. L’Italia si conferma il paese in cui se hai una divisa puoi sentirti libero di usare violenza, di privare chiunque della propria libertà e dignità, di picchiare, abusare e utilizzare metodi disumani, e rimarrai impunito, nonché elogiato per il servizio reso alla comunità.

A noi però le divise non sono mai piaciute e ci siamo sempre schierati dalla parte di chi lotta per la propria libertà, per questo esprimiamo tutta la nostra vicinanza alla moglie e alla famiglia del migrante ucciso e ribadiamo a gran voce che i CPR e tutti i centri di detenzione dei migranti debbano essere chiusi immediatamente!!

A Idy Diene per non dimenticare

Il 5 marzo 2018 sul ponte di Firenze veniva ammazzato a colpi di pistola Idy Diene.
Un anno fa scrivevamo questo testo che vi consigliamo di rileggere.
In un anno tante cose sono cambiate, il percorso antirazzista, passo dopo passo è cresciuto e si è reso protagonista diverse volte attraverso inchieste, assemblee, presentazioni e manifestazioni.
Purtroppo non è abbastanza e dobbiamo continuare a impegnarci per costruire un mondo diverso da quello in cui ci troviamo a vivere.
A Idy, a Soumayla, a Prince e a tutt* le vittime dell’ ignoranza violenta razzista e discriminatoria.

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Alle donne del mondo: trasformiamo il XXI secolo nell’era della libertà delle donne!

Dalle montagne del Kurdistan, nelle terre dove la società si è sviluppata con la guida delle donne, vi salutiamo con la nostra grande libertà, passione, ambizione e lotta indissolubile. Dai quartieri del Rojava alle foreste del Sud America, dalle strade europee alle pianure dell’Africa, dalle valli del Medio Oriente alle piazze del Nord America, dalle montagne dell’Asia agli altipiani australiani; con il nostro amore che non conosce confini e con i nostri sentimenti più rivoluzionari, abbracciamo tutte le donne che rafforzano la lotta per la libertà e l’uguaglianza.
In occasione dell’8 marzo 2018, Giornata internazionale della lotta per le donne, commemoriamo tutte le donne che hanno dato la vita nella ricerca della libertà, nella resistenza contro la schiavitù, lo sfruttamento e l’occupazione. Da Rosa Luxemburg a Sakine Cansız, da Kittur Rani Chennamma a Berta Caceres, da Ella Baker a Henan da Raqqa, da Djamila Bouhired, alla palestinese Sana’a Mehaidli a Nadia Anjuman, siamo sempre grate alle immortali guerriere della lotta di liberazione delle donne. La loro luce squarcia l’oscurità che ci è stata imposta. Sul sentiero che hanno illuminato davanti a noi, marciamo verso la libertà. Insieme a loro, commemoriamo tutte le donne
che sono state assassinate nel corso di un regime patriarcale di cinquemila anni, attraverso ogni sorta di violenza maschile, guerre, terrore di Stato, occupazioni coloniali, poteri mascherati religiosamente, bande di uomini, mariti e cosiddetti amanti.
È il loro ricordo che spinge la nostra incrollabile determinazione a porre fine al femminicidio, la più antica guerra del mondo.

Care donne, compagne, sorelle,
siamo nel bel mezzo di un processo di trasformazione epocale. Il sistema patriarcale, coetaneo della civiltà statalista, sta attraversando una profonda crisi strutturale. Come donne, dobbiamo diagnosticare questa crisi sistemica con le sue cause e conseguenze, stabilire analisi forti e sviluppare prospettive che accelerino la nostra lotta. Perché, se la crisi strutturale del sistema costituisce una grande minaccia per le donne di tutto il mondo, offre anche opportunità per affermare la libertà delle donne. Opportunità che forse si presenta solo una volta ogni secolo.
Possiamo trasformare il 21° secolo nell’era della liberazione delle donne! E non è un sogno o un’utopia. È una realtà. Ma affinché si realizzi dobbiamo creare un programma di liberazione delle donne per il XXI secolo.
Per questo, dobbiamo prima di tutto cogliere pienamente, nella loro interezza, le contraddizioni e le caratteristiche fondamentali dell’epoca in cui viviamo. Quali possibilità e quali rischi queste contraddizioni e caratteristiche costituiscono dal punto di vista della liberazione delle donne? Che tipo di responsabilità dobbiamo assumere in questo senso, come organizzazioni e movimenti globali delle donne?
Nel XXI secolo il sistema mondiale è entrato in una profonda crisi, tanto che si parla di “nuovo ordine del mondo”.
Cercando di riorganizzarsi per uscire dalla crisi, la modernità capitalista per prima cosa tentò di applicare questo nuovo ordine in Medio Oriente sotto il nome di “Grande progetto per il Medio Oriente”. Ebbene, denominiamo il processo iniziato con gli interventi in Afghanistan e in Iraq, proseguito con la primavera araba in Nord Africa e intensificato negli ultimi anni in Siria, Iraq e Kurdistan, “terza guerra mondiale”. Mentre i regimi dello Stato-nazione in Medio Oriente, creati dagli Stati occidentali cento anni fa per riprodurre il caos e la crisi in modo permanente, cercano di
proteggere lo status quo, le potenze straniere tentano di dividere nuovamente la regione.
Nominare l’attuale periodo in Medio Oriente “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali. Oltre a ciò, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalista in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale. Il sistema mondiale contemporaneo o la modernità capitalista non è un fenomeno degli ultimi 500 anni. Il suo seme ha messo radici nella forma del primo Stato risalente a 5000 anni fa in Mesopotamia e da allora ha
subìto diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi.
Per questo motivo, difendere la Soluzione Confederale Democratica come “terza via” contro lo status quo-ismo degli stati regionali e l’interventismo riprogettato delle potenze straniere, costituisce una responsabilità fondamentale per tutte e tutti noi, e supera i confini della Siria e del Medio Oriente. Il sistema di autonomia democratica che si sta attualmente costruendo con la leadership delle donne nel Rojava e nel Nord della Siria, in tali condizioni di guerra e resistenza, è l’unico modello risolutivo che ha il potenziale per porre fine alle crisi, al caos, alle contraddizioni e ai conflitti che si sono sistematicamente riprodotti nella regione durante il secolo scorso. Non solo gli
Stati-nazione che sono stati creati insieme ai confini disegnati artificialmente dopo la prima guerra mondiale non riflettono la composizione etnica, culturale, religiosa e sociale della regione, ma hanno anche mirato a far saltare in aria la nostra millenaria cultura della vita comune. Oggi, nel Nord della Siria, per la prima volta viene costruito un sistema basato sulla partecipazione paritaria e libera delle donne, sul pluralismo etnico e religioso e sulla democrazia partecipativa. Come alternativa democratica, questo modello pone una soluzione ai problemi obsoleti del Medio Oriente, contro i regimi maschili, sessisti, monistici, nazionalisti, settari, che sono stati alimentati dal sistema globale per decenni.
Questo è il motivo per cui lo Stato turco, che ha il secondo più grande esercito nella NATO, ha lanciato con tutta la sua forza un’operazione contro il Rojava, ad Afrin, nel Nord della Siria, il 20 gennaio 2018. Questo è anche il motivo per cui potenze straniere come USA, Russia e UE non stanno ostacolando gli attacchi militari ad Afrin. Perché in Afrin si costruisce un modello di società democratica che mette al centro la liberazione delle donne. La resistenza di Afrin rappresenta la rivolta delle donne contro la vita capitalista della modernità. Le città e i villaggi circostanti ad Afrin
resistono al fascismo, alla misoginia, allo sradicamento dei valori culturali e all’inimicizia tra i popoli. Ed è chiaro che non è solo lo Stato turco e gli alleati delle bande islamiste reclutati che si scontrano con le unità di difesa femminile e popolare di Afrin: in un piccolo pezzo di geografia come Afrin, due sistemi mondiali, due ideologie, due progetti futuri si stanno battendo. Mentre unoè basato sulla liberazione, l’ecologia e il pluralismo delle donne, l’altro è fatto di misoginia, potere maschile, monismo, dominio e sfruttamento. Uno brilla con tutti i colori della vita, mentre l’altro rappresenta l’oscurità. Pertanto, è di vitale importanza e significativo per le donne del mondo
rivendicare e difendere la crescente resistenza contro il fascismo ad Afrin. Poiché ciò che è sotto attacco e che viene difeso, sono valori universali della libertà delle donne. In questa occasione, come KJK, salutiamo e ci congratuliamo con le/i combattenti per la libertà, che assumono la guida della resistenza ad Afrin, e con il popolo di Afrin che difende eroicamente le sue terre dagli invasori. Le donne e l’unità vinceranno. Il fascismo perderà.
Il processo rivoluzionario in Rojava e nel Nord della Siria mostra questa verità a tutte e tutti noi: le vere rivoluzioni devono essere rivoluzioni femminili. I tentativi rivoluzionari che non si basano sulla liberazione delle donne non hanno possibilità di successo. La ragione fondamentale dell’incapacità dei movimenti socialisti e rivoluzionari del ventesimo secolo di realizzare obiettivi desiderati nonostante i loro innumerevoli sacrifici, dedizione e programmi, è il fatto che non hanno messo la liberazione delle donne al centro delle loro lotte. La questione delle donne non è un problema secondario, bensì è alla base di tutte le altre questioni. Le donne sono la prima classe
oppressa, asservita, sfruttata, colonizzata e dominata. Tutte le altre forme di sfruttamento iniziano dopo lo sfruttamento delle donne. Per questo motivo, condurre una lotta efficace contro il sistema egemonico sarà possibile solo nel quadro di una forte ideologia e programma di liberazione, in cui l’organizzazione autonoma e separata delle donne gioca un ruolo attivo. La nostra esperienza di lotta
ideologica e pratica trentennale come Movimento per la libertà delle donne del Kurdistan ci mostra questo.

Care donne, care compagne,
il seme del sistema globale basato sulla modernità capitalista si trova in Medio Oriente, in particolare in Mesopotamia. È in questa regione che l’attuale crisi sistemica si mostra direttamente,così com’è. Ma poiché la crisi del sistema mondiale patriarcale-capitalista ha una qualità globale, non esiste terra risparmiata dal sentire questa crisi, nessun lago, montagna o fiume lasciato intatto,nessuna società che non sia stata influenzata dai tentativi di dominio. Tuttavia, quelle più colpite dalla crisi sono le donne. E ciò è direttamente connesso al carattere sessista della modernità capitalista. Il sistema sta cercando di superare la crisi sfruttando e abusando delle donne in modo
ideologico e materiale ancora più forte, e così cerca di garantire la sua esistenza.
Contro le affermazioni comuni, il liberalismo, come una delle ideologie fondamentali dello Statonazione, non ha portato alcun contributo positivo alla liberazione e all’uguaglianza delle donne. Al contrario, è proprio in quest’epoca liberale che il sessismo è stato rafforzato e usato come elemento ideologico. È una grande bugia che il liberalismo libera le donne. La mercificazione della donna, in
tutto il suo corpo, personalità e anima, costituisce la forma più pericolosa di schiavitù.
In questo contesto, la modernità capitalista costituisce il più alto stadio del sistema patriarcale. In nessun punto della storia della civilizzazione le donne sono state soggette allo sfruttamento tanto quanto lo sono state nell’era della modernità capitalista. Dalla prospettiva delle donne, esiste una colonizzazione che è aumentata di mille volte nella sua profondità e nei suoi scopi. Il sessismo nella società dello stato-nazione mentre assegna all’uomo il massimo potere ha trasformato la società
nella colonia più inferiore attraverso la figura della donna. In questa dimensione, nella storia della civilizzazione in generale e nella modernità capitalista in particolare, la donna è nella posizione di essere la più vecchia e la più nuova nazione colonizzata. Dalla prospettiva del sistema egemonico una ragione per quest’insostenibile crisi è la colonizzazione delle donne.
Le donne e la liberazione delle donne costituisce il fondamentale potere che si oppone al sistema patriarcale e capitalista mondiale. Al cuore di tutte le forme di potere, di egemonia, di sfruttamento, di saccheggio, di schiavitù, di violenza, e di oppressione che il sistema stesso crea in sé si basa sulla dominazione della donna. La schiavitù e la proprietà imposte sulle donne passo dopo passo si diffondono complessivamente nell’intera società. Questo è il motivo per cui la lotta di liberazione delle donne, tra tutte le lotte anti-sistema ha la più grande forza di scuotere dalle fondamenta il
sistema del maschio egemonico. E, di fatto, è questa dinamica che disvela la crisi che il sistema sperimenta. Come donne, dobbiamo vedere chiaramente la forza che possediamo e gli effetti che creiamo. In questo senso, l’aumento massivo della violenza e degli attacchi contro le donne in tutto il mondo è direttamente connesso a questa situazione di crisi e alla relazione tra il sistema mondiale patriarcale capitalista e la liberazione delle donne. Il sistema sessista basato sullo sfruttamento attacca la donna che pone la più grande sfida e pericolo al suo potere. Nei fatti parliamo di una guerra di aggressione sistematica. La forma di questa guerra di aggressione può differire al livello locale ma stiamo essenzialmente di fronte ad un fenomeno universale. Dobbiamo guardare alle connessioni tra gli stupri di gruppo in Asia e la violenza di genere negli Stati Uniti. Con un approccio olistico dobbiamo esaminare le uccisioni delle donne in Latinoamerica, che hanno raggiunto il livello di un massacro, come i rapimenti e la resa in schiavitù di donne e ragazze da bande, mascherate come religiose, in Africa e in Medio Oriente. Dobbiamo analizzare insieme la crescita del fascismo, i regimi misogini e i loro attacchi ai diritti ottenuti dalle donne come risultato delle loro lotte. E dobbiamo essere profondamente consapevoli del fatto che questa guerra, guidata dal sistema patriarcale su scala globale, sta cercando di soffocare la ricerca e le lotte di liberazione
delle donne. Per questo, probabilmente, il sistema maschile dominante non è mai stato così tanto messo sotto pressione nella storia della civilizzazione. Le sue fondamenta non sono mai state scosse fino a questo punto. Analogamente, dalla prospettiva delle donne, le condizioni per assicurare la liberazione non sono mai state così mature. Le possibilità di realizzare la seconda grande rivoluzione delle donne non ha mai raggiunto questo stadio. Questo è il motivo per cui stiamo attraversando un periodo storico. Ci sono dunque grandi opportunità, ma anche i pericoli sono
altrettanto grandi.
Se questo è il caso, cosa dobbiamo fare, se vogliamo confrontare questi pericoli e effettivamente valutare le possibilità per assicurare la liberazione delle donne e attraverso questa la liberazione di
tutta la società? Come possiamo difendere noi stesse dai crescenti attacchi del sistema? In questo caso, l’autodifesa non va intesa in senso passivo. E’ necessaria un’autodifesa attiva. La più grande e la più efficace forma di autodifesa è creare una vita libera e stritolare le vene del sistema dominante maschile. Dobbiamo rendere la nostra vita insostenibile per il sistema, non il contrario. Ma perchè questo possa succedere dobbiamo portare avanti una lotta ad un livello più alto. Su scala globale, la
lotta di liberazione delle donne ha creato un forte fondamento in entrambe le dimensioni teoretica e pratica. Ma ora è il momento di mettersi in marcia.
Come Movimento di Liberazione delle donne del Kurdistan siamo state impegnate in una grande lotta per più di 30 anni per approfondire l’ideologia di liberazione della donna, per rivelare la forza di autodifesa e la coscienza delle donne e per assicurare alle donne una equa e libera partecipazione nell’ambito della politica, per superare il sessismo in tutte le sfere della vita e per accelerare la libertà delle donne. All’interno di questo cammino abbiamo sempre compreso l’enorme importanza e senso di condividere i nostri risultati e conclusioni con tutte le donne del mondo. E ora, con grande entusiasmo, gioia e determinazione per trasformare il 21 secolo nell’era della donna liberata, per portare alla seconda grande rivoluzione delle donne, noi miriamo di essere all’altezza della missione del movimento universale di liberazione delle donne.

Care donne,
è assolutamente essenziale che ci organizziamo ad un livello universale per creare un sistema di donne globale e equo contro il sistema mondiale capitalista sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità e i nostri colori, non c’è nulla che – se non come un mosaico, allora come un artefatto di marmo – il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere. Perché questo possa accadere, dobbiamo sviluppare
alleanze democratiche tra donne. Dobbiamo sviluppare modi, metodi, e prospettive appropriate alle condizioni, secondo le caratteristiche e le necessità del ventunesimo secolo. Essenzialmente, dobbiamo tutte insieme sviluppare per il ventunesimo secolo il programma di liberazione delle donne. Come movimento di liberazione delle donne del Kurdistan noi dobbiamo lo sviluppo della nostra rivoluzione come una rivoluzione di donne al nostro leader Abdullah Ocalan, che 19 anni fa è stato rapito all’interno di una cospirazione della organizzazione di bande maschile e statale chiamata  NATO ed è ancora in ostaggio in Turchia in condizioni di isolamento che non hanno precedente
storico.
È il sistema di analisi di Ocalan, le sue prospettive di liberazione, la sua trasformazione personale, i sui sforzi senza fine per lo sviluppo del movimento per la liberazione della donna che mettono insieme la forza che sta dietro queste dinamiche che ora ispirano persone in tutto il mondo. Il suo essere rinchiuso in una prigione in un’isola negli ultimi 19 anni e il suo completo isolamento dal mondo esterno negli ultimi quasi tre anni sono connessi all’influenza delle sue idee. Però i pensieri non possono essere isolati; gli spiriti liberi non possono essere tenuti in ostaggio. Il seguente estratto dalle prospettive di Ocalan, sviluppato in condizioni di isolamento carcerario, è illuminante sotto la
prospettiva di una lotta universale di liberazione delle donne:
“Senza dubbio, la denuncia della situazione della donna è una dimensione del problema. Ma quello che è più importante riguarda la questione della liberazione. In altre parole, la soluzione del problema ha un’importanza molto più grande. Si dice spesso che il livello di libertà generale della società si può misurare dalla libertà delle donne. È corretto e importante considerare come si possa riempire questa affermazione. La liberazione delle donne e l’uguaglianza non semplicemente
determina la libertà ed uguaglianza della società. Per questo sono necessari la teoria, programmi, organizzazioni, e pianificazione di azioni. Più importante, mostra che non possono esserci politiche democratiche senza le donne e inoltre che, nei fatti, la politica di classe rimarrà inadeguata, e natura e pace non possono essere sviluppate e protette.”

Come movimento di liberazione delle donne curde, in occasione dell’8 marzo 2018, lanciamo un appello alle donne del mondo: mettiamoci assieme e assieme sviluppiamo la necessaria teoria, programmi, organizzazione, e piani di azione per la liberazione della donna. Con la coscienza che solo una lotta organizzata può portarci risultati, aumentiamo l’organizzazione in tutte le sfere della vita. Collettivizziamo le nostre coscienze, forza di analisi, esperienze di lotta, e prospettive per
creare le nostre alleanze democratiche. Non lottiamo le une separate dalle altre – lottiamo assieme.
E, lungo il percorso, trasformiamo il ventunesimo secolo nell’era della liberazione della donna!
Perché questo è esattamente il momento giusto! È il momento per la rivoluzione delle donne!

Afrin è ovunque, e ovunque è resistenza!

Evviva la lotta universale di liberazione delle donne!

Jin, jiyan, azadi! Donne, vita, libertà!

8 marzo 2018

Komalên Jinên Kurdistan (KJK)

Road to Ventimiglia- Giorno 4

  1. Nella nostra ultima sera a Ventimiglia abbiamo distribuito una cinquantina di sacchi a pelo ai migranti che risiedono  nella zona delle gianchette, una zona situata nel centro città lungo il fiume Roja, in cui i migranti risiedono. La zona è all’aperto e l’unico riparo è offerto dalla presenza di un ponte autostradale, dunque diviene necessario fornire loro questo tipo di materiale al fine di ripararsi dal freddo della notte.
    Abbiamo inoltre avuto occasione di parlare con alcuni di loro,la cui maggior parte è composta da sudanesi con una buona conoscenza della lingua inglese. Questo ha reso possibile un contatto diretto senza bisogno della presenza di mediatori. Ci hanno fatto alcune domande, per avere maggiori informazioni sulla loro situazione, sui tempi relativi ad un possibile ottenimento della richiesta di asilo, a cui si è aggiunta la forte speranza di passare il confine con la Francia e di proseguire il proprio viaggio verso l’Europa o, in alcuni casi, la volontà di tornare nel proprio paese di origine. È seguito un confronto sulla difficoltà di attraversare i confini relativa alla chiusura delle frontiere e all’incapacità delle attuali politiche di gestire in maniera efficiente i flussi migratori. I ragazzi infine ci hanno ringraziato per il lavoro che tutt* i solidali svolgono, considerato fondamentale.

Road to Ventimiglia- Giorno 2

Nei primi due giorni a Ventimiglia abbiamo svolto attività di aiuto e supporto materiale nei confronti dei migranti transitanti, prima fra tutte la distribuzione di vestiti. Grazie alle svariate forme di solidarietà concreta riusciamo anche ad interagire e conoscere i migranti, che ci permette di andare oltre al mero aiuto e consegna. Per queste persone Ventimiglia viene considerata solamente come luogo di transito, come molte altre città d’Italia, ma quel dispositivo che è il confine glielo impedisce. Se non sono i rastrellamenti e le deportazioni settimanali ad impedirglielo, spesso lo sono i respingimenti quotidiani da parte della polizia francese. Anche i tragitti che vengono intrapresi spesso sono letali. Il numero delle morti sui binari, in autostrada o sui sentieri infatti continua tragicamente a salire(1).

Molti ragazzi migranti della nostra stessa età intendono attraversare il confine per raggiungere altri paesi europei, con il desiderio e la volontà di poter ricercare un lavoro o semplicemente iscriversi all’università per cominciare o terminare i propri studi, diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti e tutte a prescindere dalla provenienza, dal colore della pelle e della situazione economica. Ciò che però ha smesso di stupirci è il fatto che alcuni migranti, bloccati in Italia ormai da mesi e anni, ci raccontano di aver trascorso lunghi periodi rinchiusi nei vari CIE o Hotspot, senza mai poter contattare un avvocato o telefonare a casa. Si ritrovano quindi stremati dalla cronica mancanza di tutela dei loro diritti, dall’assenza di un sostegno legale e da un sistema di accoglienza che non li riesce ad includere e si mostra come una via senz’uscita in cui rischiano di rimanere bloccati. I rastrellamenti nella città di Ventimiglia continuano a verificarsi in modo massiccio. Il numero di forze dell’ordine presente al confine e nelle zone limitrofe si mantiene ingente. Gli agenti di polizia spesso si mostrano irrequieti e agitati a tal punto da non riuscire ad evitare di urlare ed insultare i migranti anche durante un semplice controllo.
La fortezza Europa si scaglia contro queste persone con il suo volto peggiore. La nostalgia di aver lasciato il proprio paese d’origine, malgrado le guerre, le devastazioni ambientali ed economiche, la violenza dei regimi o dei terroristi, spesso attanaglia chi si ritrova sopravvissuto ad un naufragio per riuscire ad approdare in Europa ed essere trattato come un criminale omicida. Forse è proprio questo l’obiettivo di chi si siede ai G20 per discutere di migrazioni globali: spaventare. Spaventare tutt*, chi fugge e chi dovrebbe accogliere. Provando a farci credere che la diversità sia una minaccia. Ma chi si prende il diritto di dividere il mondo in poveri e ricchi, ammessi e non ammessi, ci legittima a continuare a vedere il mondo in oppressori ed oppressi. E sempre dalla stessa parte ci troverete. Quella che si riprenderà la libertà, a spinta.

FONTI:

(1)

I morti di confine a Ventimiglia