Allarme gender a UniTn? Ma fateci il piacere!

ACCADEMIA LGBT – Università gender con i soldi UE. Alla lobby gay 1,2 milioni di euro”. In questo modo Patrizia Floder Reitter titola un suo articolo apparso il 4 maggio scorso su La Verità, quotidiano di Maurizio Belpietro, e ripreso integralmente da La Voce del Trentino qualche giorno fa.
In questo articolo, il cui titolo lascia poco spazio all’immaginazione circa il contenuto, si parla di come pare essere arrivato il virus del gender all’Università di Trento, il quale rischia di infettare intere generazioni di giovani menti. Nello specifico, messi sotto la lente di ingrandimento sono tre personaggi, la Prof.ssa Barbara Poggio, l’avvocato Alexander Schuster e l’assessora Sara Ferrari. Quella che è definibile come una vera e propria schedatura di tutti i personaggi in realtà riguarda il ruolo che hanno, almeno a detta dell’autrice dell’articolo, attorno e all’interno al Centro Studi interdisciplinari di Genere (CSG) dell’Università di Trento. Ad essere messi in discussione dall’autrice sono due aspetti principali.
Il primo è il contenuto e le tematiche affrontate dai vari seminari organizzati negli anni dal CSG e dai suoi progetti di ricerca. Nell’articolo infatti la Floder Reitter sciorina tutta una serie di titoli di seminari o riporta virgolettati estrapolati da ben più complesse relazioni, imputando a questi la duplice colpa di propagandare messaggi devianti e di avere una ingenua platea di studenti e studentesse presenti in quanto interessati/e al riconoscimento di un tot di CFU. Secondo l’autrice dell’articolo infatti, parlare di omosessualità, bullismo omo-trans fobico, genitorialità omosessuale o di altre maschilità significa che la platea di ascoltatrici e ascoltatori verrà automaticamente “convertita” ad uno stile di vita omosessuale, deviato, non ortodosso e non tradizionale.
Il secondo aspetto ad essere messo in discussione è il finanziamento dei seminari e delle ricerche del CSG, fondi che spesso (e fortunatamente) sono pubblici, siano essi provenienti dall’UE, dalla Provincia o dal Comune. La Floder Reitter infatti considera il finanziamento a tale campo di indagine accademica e del CSG come un finanziamento alle “lobby gay” le quali hanno tutto l’interesse di infilarsi all’interno del sistema della pubblica istruzione per deviare giovani menti.
Questo il senso dell’articolo, vaneggiamento più, vaneggiamento meno.
Chiariamoci: da La Voce del Trentino e da La Verità non ci aspettiamo del giornalismo decente, qualsiasi cosa questo significhi. Ci aspettiamo menzogne travestite da notizie utili alla propaganda politica di qualche destrorso di turno o a veicolare e incrementare un clima generale di bigottismo, intolleranza, odio fra poveri e paura. Ciò detto, la lettura dell’articolo ci spinge a prendere una posizione per due ordini di motivi. In primo luogo, sebbene siamo consapevoli che questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi e aspre critiche che il CSG ha dovuto subire negli ultimi anni e di un clima di terrore generico in Trentino sull’allarme gender, è anche vero che questa notizia va ufficialmente oltre i confini della provincia autonoma e sbarca sul nazionale… per quanto il giornaletto di Belpietro probabilmente avrà una manciata scarsa di lettrici e lettori (o almeno ci auguriamo che sia così). In secondo luogo, le parole della Floder Reitter, per quanto deliranti e visionarie, attaccano in ogni caso la produzione accademica, la professionalità e la disponibilità di professionisti e professioniste del CSG che abbiamo anche avuto modo di incrociare non poco tempo fa, durante lo sciopero dei e dai generi dell’otto marzo. E questo non può starci bene. Perché se è vero che il campo di indagine di genere può non piacere o non interessare, ricamarci dietro arzigogolati discorsi di educazione alla devianza e finanziamento delle lobby gay significa attaccare la ricerca accademica (oltre che essere folgorati, diciamocelo). E non un tipo di ricerca qualunque ma quella che si interroga profondamente sulle dinamiche di genere e spesso prova anche a delineare dei piani per superare pregiudizi e abbattere muri, dentro e fuori l’accademia. Strumenti che possono piacere o meno, possono essere criticati o osannati, ma comunque è un tipo di ricerca dinamica che se è vero che prende dal pubblico, anche in termini economici, è vero anche che si propone di restituire qualcosa di utile alla comunità di riferimento, concependo così anche la ricerca accademica stessa in un altro modo, non come un qualcosa che sta nelle più alte stanze di una torre d’avorio ma come qualcosa che può essere, insieme ad altro, fattore di cambiamento e rinnovamento. Questo fa il CSG e questo fanno molti ricercatori e ricercatrici che lavorano sulle questioni di genere. E questo ci piace. E va difeso, anche dai vaneggiamenti di una “giornalista”.
Inoltre, se non piacciono i finanziamenti pubblici a questo tipo di ricerca inevitabilmente dobbiamo riprendere un discorso che ai/alle neoliberali non piacerà molto. La ricerca DEVE essere pubblica. E basta. Perché peggio che vedere fondi pubblici usati per un tipo di ricerca che qualche mente bigotta stigmatizza, c’è vedere fondi e strumenti pubblici, in combo con grossi nomi di privati, finanziare e fare ricerca su robe seriamente dannose. Le stesse che poi sedicenti esportatori di democrazia o difensori di valori patriottici utilizzano per fare la guerra al primo nemico-costruito di turno, col solo scopo di continuare a far funzionare l’industria della guerra che, quella sì, ingrassa tasche e pance di pochi.

Per quello che vale, ci schieriamo con il CSG e la ricerca di genere, ci schieriamo con chi dentro l’università prova a rivedere il mondo con occhi diversi, provando a disinnescare pezzo dopo pezzo le strutture di potere relazionali, e non, che derivano dal semplice binario maschio/femmina. Ci schieriamo con il CSG perché prima di andare a fare i conti in tasca ad alcuni personaggi che provano ad educare alle diversità, ci piacerebbe che sedicenti “giornalisti/e” alla Floder Reitter andassero a inchiestare e a ficcare il naso lì dove si ricerca e perfezionano gli strumenti di guerra. Infine ci piacerebbe anche che la difesa di una certa parte di accademia, libero pensiero, libera ricerca venissero difesi dall’intera comunità universitaria. Perché, per quanto ci riguarda, una buona università non è fatta di ranking e cerimonie patinate. Una buona università è fatta dal sapere critico. In quanto studenti e studentesse universitarie abbiamo preso una posizione. Lasciamo il passo ad altri e altre.

Sbirri a Sociologia…. e DIANI COSA DICE?

Di questi tempi accadono cose strane al Dipartimento di Sociologia di Trento. E a quanto pare c’entra sempre una divisa. Ma andiamo per gradi.

È lunedì, tardo pomeriggio-prima serata, e nel cortile interno di Sociologia si svolge un aperitivo organizzato da una associazione studentesca. Ad un tratto, spuntano quattro poliziotti in divisa dentro al cortile, guidati da un signore “vestito normale” (anzi, chiamiamolo col suo nome, poliziotto in borghese) che indica loro un ragazzo, uno studente universitario per l’esattezza. A quanto pare, la polizia era stata chiamata poco prima da un ragazzo presente in cortile dicendo loro di aver riconosciuto chi, a suo dire, gli aveva rubato la bicicletta qualche tempo prima, il cui furto aveva denunciato proprio alla polizia. Riconoscimento avvenuto sulla base di un video di sorveglianza di pessima qualità, aggiungiamo. Insomma, gli zelanti poliziotti si presentano quindi a Sociologia, si dirigono dal ragazzo e, tolto lui il telefono, se lo portano via. In volante. Senza una denuncia a suo carico. Senza un pezzo di carta in cui spiegano cosa e perché. Solo con un sospetto in tasca (e il cellulare del ragazzo). Nel silenzio più totale di chi era in cortile e guardava la scena. Anzi, no, il silenzio in effetti non c’era, visto che la festa ha continuato come se nulla fosse, con tanto di musica.
Ma la stranezza non finisce qui. Infatti, la polizia ha messo piede in università senza tante cerimonie, pure portandosi via uno studente, senza poterlo fare. È noto a tutt@ infatti che affinché la polizia possa entrare in università per una qualsivoglia operazione, essa deve ricevere il permesso dal rettore o dal direttore del Dipartimento in questione. Gli zelanti sbirri della nostra storia, una volta arrivati in via Verdi, avrebbero dovuto andare in portineria, spiegare il motivo della loro presenza e chiedere al/alla funzionario/a presente di avvertire il direttore di dipartimento, in questo caso il Prof. Mario Diani. Solo con l’assenso di quest’ultimo avrebbero potuto procedere con “l’operazione”. Chissà… eccesso di zelo, voglia di combattere la criminalità, voglia di fare qualcosa oltre a presidiare Piazza Santa Maria Maggiore… insomma, la comunicazione non è mai stata data, la direzione del Dipartimento non è mai stata allertata, il permesso di entrare in università agli sbirri non è mai arrivato.

Chissà per quale strana formula uno studente o studentessa qualsiasi si trova davanti un iter burocratico infinito per usare uno spazio dell’università, senza il quale le porte delle aule non si aprono fuori lezione, ma degli uomini in divisa possono fottersene degli iter e fare quello che gli pare in uno spazio che DECISAMENTE non appartiene loro. Chissà.

Riteniamo inaccettabile che nella nostra università la polizia entra ed esca, portandosi via anche uno studente, senza che chi di dovere sappia cosa sta succedendo. Soprattutto, riteniamo inaccettabile che la polizia possa entrare così facilmente all’università, senza che nessuno abbia fatto notare loro che sì, diamine, il permesso per mettere piede all’interno di un dipartimento LO DEVONO CHIEDERE.

Ci chiediamo e chiediamo al direttore del Dipartimento di Sociologia, Prof. Mario Diani, se è al corrente di quanto accaduto lunedì scorso all’interno del Dipartimento di cui è direttore. Chiediamo al Prof. Diani dunque di esprimersi sull’argomento e se ritiene normale che la polizia entri all’interno del Dipartimento, senza comunicare niente a nessuno.

Per quanto ci riguarda, lo abbiamo detto più volte nelle scorse settimane e continueremo a dirlo: FUORI GUARDIE E SBIRRI DALL’UNIVERSITA’!

Speriamo che Diani sia dello stesso avviso…

Report incontro col Rettore

Oggi, come Collettivo Universitario Refresh, abbiamo deciso di presentarci in rettorato per ottenere un incontro con il rettore Collini e chiedergli spiegazioni in merito al debito della Provincia nei confronti dell’Ateneo. Come abbiamo appreso anche dai giornali locali infatti la PAT da anni non rispetta il suo ruolo di maggior finanziatore dell’università trentina, come stabilito dal contenuto dell’accordo di Milano e dalla conseguente provincializzazione dell’ateneo. Ciò che più ci premeva capire è come sia possibile che le istituzioni universitarie abbiano potuto accettare il mancato versamento di 200 milioni di euro e abbiano preferito indebitarsi con le banche o andare a toccare i fondi delle borse di merito piuttosto che fare pressioni, chiedendo la restituzione di questi fondi. Ci sorgevano dunque dubbi anche sui fondi utilizzati per finanziare la costruzione della Nuova Biblioteca Centrale alle Albere, sui tagli alle borse di studio e sull’aumento delle tasse universitarie. Per tutti questi motivi quindi oggi ci siamo presentat* in rettorato pretendendo di essere accolt* dal rettore. Vista l’impossibilità del rettore a riceverci sul momento, abbiamo deciso di occupare il cortile per tutta la mattina, provando a creare un momento di discussione e confronto aperto a tutti e tutte, in attesa dell’appuntamento con Collini. Alle 13.00 finalmente siamo riuscit*, grazie alle nostre pressioni, a farci ricevere tutt* nell’ufficio del rettore, al quale abbiamo riportato tutte le nostre perplessità . Siamo riuscit* a rivendicare alcuni diritti per noi fondamentali e a esporre quali sono i problemi che attanagliano la nostra università. Per noi questa giornata è stata solo un primo passo, sicuramente continueremo a tenere monitorata la situazione e continueremo nella nostra mobilitazione. Per continuare a confrontarci su queste tematiche, per noi di primaria importanza, vi invitiamo a partecipare alla nostra assemblea settimanale ogni mercoledì alle 18.00 in atrio di Sociologia.

Note su provincializzazione, conti in rosso e BUC

Una biblioteca è un contenitore e un contenitore deve avere due principali caratteristiche: funzionalità e capienza. Si può abbellire, si può raccontare, si può lucidare, ma rimane un contenitore. Si dà spesso per scontato che tale tipo di manufatto sia tanto più efficiente e funzionale quanto più è centralizzato e dimensionato. La domanda che ci si pone è quindi se per la nuova Biblioteca Universitaria Centrale (BUC) siano valsi questi criteri. La risposta che ci siamo dati è no. Quali criteri sono stati dunque ritenuti importanti? A questo non si può che rispondere tramite ragionamenti e indagini, mancando di risposte dirette da chi ha preso e continua a prendere decisioni al riguardo. La risposta sembra essere: gli interessi economici privati di chi ci ha guadagnato o spera di guadagnarci a discapito dell’interesse pubblico e in particolare di chi, tra il “pubblico”, ha meno potere.
Per capire meglio c’è bisogno di prendere in considerazione la storia del processo che ha portato a cambiare il progetto della biblioteca tra il 2008 e il 2014 in conveniente coincidenza con il passaggio di controllo e finanziamento dell’Università di Trento da Stato a Provincia, la cosiddetta “provincializzazione” o “delega” iniziata nel 2010. Qui cercheremo di dare un veloce sunto per punti salienti.

  • Funzionalità e capienza: come si è arrivati alla BUC

Partiamo dalla funzionalità. Una biblioteca centrale si suppone che per essere funzionale abbia come criterio principale il rendere disponibile libri e spazi di lettura nel modo più facile possibile. Una biblioteca centrale universitaria dunque dovrà essere raggiungibile nel minor tempo possibile da universitari, ovvero vicino ai luoghi dove questi si trovano. La biblioteca di Palazzo Ex Cavazzani (o CIAL) si trova in tale posizione ideale, a 5 minuti a piedi dalle facoltà di Lettere, Sociologia, Giurisprudenza ed Economia, a ridosso della ferrovia Verona-Brennero. Poiché era sottodimensionata rispetto alle esigenze di un’Università in continua espansione, l’ateneo commissiona all’architetto Sandro Botta nel 2008 il progetto di una biblioteca centrale appena oltre la ferrovia, in Piazzale Sanseverino, acquistato con i suoi propri fondi (forniti dallo Stato) nel 2002[1]. Le distanze cambiano di poco, la funzionalità rimane la stessa. Senza spiegazioni precise, il Comune ritarda, prende tempo, rimanda indietro il progetto di Botta. Il processo si incaglia fino al 2013, quando un vertice trilaterale tra l’allora rettrice De Pretis, il sindaco di Trento Andreatta e il vicepresidente della Provincia Pacher, decide per l’abbandono del progetto su Sanseverino e apre allo spostamento nel quartiere Albere, al posto del centro congressi[2]. Nel Consiglio di amministrazione dell’ateneo, la rettrice “alla luce della nuova ipotesi di realizzazione della nuova biblioteca di ateneo nel quartiere ‘Le Albere’ recentemente emersa, propone al consiglio di amministrazione di valutare l’opportunità di richiedere una sospensione della pratica edilizia”[3]. Proposta approvata all’unanimità, compreso l’allora rappresentante degli studenti, facente parte di una coalizione oggi ancora nella maggioranza (si fa per dire, considerando che i votanti sono stati il 21% degli aventi diritto nel 2014 e 31% nel 2016, un successone, secondo la coalizione vincitrice – UDU e UniTin, poco più del 10% ognuno).
Passiamo alla capienza. Il progetto originario di Sandro Botta variava da 1212[4] a 900[5] posti studio. Parte del progetto era il mantenimento dei posti auto del “piazzale Sanseverino”, che sarebbero stati interrati in più piani. La BUC aperta nel quartiere Le Albere viene pubblicizzata con l’altisonante articolo del webmagazine dell’UniTn del 7 ottobre 2014 (non più consultabile, ma in parte reperibile nel testo di De Bertolini) come un successo da addirittura 500 posti[6] poi magicamente corretto in 430[7] (tra la metà e un terzo del progetto originario, per un costo di due terzi rispetto al progetto di Botta). Non solo, i posti auto sono stati sostituiti da scaffali e postazioni interrate in una zona ad alto rischio inondazione del fiume Adige, una possibilità stimata nell’ordine una ogni 30 anni circa, in cui le prime vittime sarebbero i libri stessi, con buona pace della priorità allo studio[8]. Insomma, almeno 500 posti in meno rispetto al progetto precedente, tanto che nel periodo in cui si decise lo spostamento da Sanseverino a le Albere si disse che bisognava far fronte al ridimensionamento tramite futuri progetti nell’area Trento Fiere (tra le altre cose di sale studio e mense) che latitano tutt’ora3.

  • E la Provincia… NON PAGA

Perché latitano? Cercando di non essere proliss@, possiamo dire che gli articoli del Corriere del Trentino delle ultime settimane possono fornirci una sintesi qui riassunta: La Provincia non paga.
Da sei anni a questa parte la provincia ha mancato di pagare la sua parte di pagamenti all’Università, risultando in una mancanza di 200 milioni di euro. Dal 2010, per essere precis@, anno di inizio della delega (o provincializzazione) dallo Stato alla Provincia dell’onere di finanziamento. Cioè da quando buona parte del finanziamento pubblico dell’Ateneo di Trento non deriva più dal Ministero dell’istruzione ma dalla Provincia Autonomia di Trento. I circa trenta milioni l’anno che la PAT deve all’università, come stabilito, non sono arrivati all’Ateneo. Nemmeno un euro. MAI. Il risultato è che l’Università ha campato con gli “spiccioli” del Ministero e ha iniziato ad utilizzare i fondi di cassa, i risparmi, ha persino prosciugato il fondo per le borse per studenti meritevoli e ha persino avviato dei prestiti, l’ammontare dei quali non è dato sapere per ora.
Un fatto gravissimo.
Ancor di più se, ha detta del rettore Collini, a fronte di questo ENORME buco in bilancio, l’unico effetto negativo della provincializzazione dell’ateneo è relativo “ai ritardi circa l’edilizia universitaria”, riferendosi certamente al progetto di Trento Fiere. Dichiarazioni un po’ idiote, certamente miopi e probabilmente non sincere, di comodo, dato i conti in rosso che si ritrova l’università per colpa della Provincia. Solo ora capiamo l’aumento di 800 mila euro delle tasse universitarie: la Provincia non paga, l’università è in rosso e anziché battere i pugni sui tavoli di chi di dovere, si aumentano le tasse agli studenti e alle studentesse.

Veniamo al punto: perché il Collettivo Universitario Refresh ha manifestato la sua contrarietà verso la BUC? Perché la BUC è stata usata per arricchire chi già è ricco. Tutto il processo di costruzione del quartiere Le Albere ha seguito questa istanza e lo spostamento della BUC da Sanseverino a Le Albere è inserito nella stessa logica. Il ridimensionamento della biblioteca (della metà almeno) è stato inserito esclusivamente entro logiche di gentrificazione urbana e speculazione edilizia che vanno ad arricchire le solite famiglie ed imprese della borghesia trentina e della Chiesa Cattolica (che detiene circa il 30% del patrimonio immobiliare della provincia, giusto per ricordarlo) tramite lo strumento numerose volte dimostratosi fallimentare del project financing. Fallimentare dal punto di vista del bene pubblico e del risparmio, ovviamente, visto e considerato che alla fine i soldi pubblici vanno sempre a risolvere i buchi degli investimenti privati.

Perché il Collettivo Universitario Refresh ha occupato il CIAL? Perché è stato chiuso senza motivazioni plausibili per evitare che l’apertura della BUC fosse un fallimento. Anche chi lavora al CIAL fatica a comprendere la riduzione degli orari, spiegabili solo con il fatto che si doveva dimostrare subito il successo della BUC, una biblioteca sottodimensionata, raccontata bene, bella e lucidata a dovere. Questo è il motivo per cui il CUR ha occupato il CIAL: per riappropriarsi di uno spazio universitario produttivo e funzionale, nonostante le sue ridotte capacità.
Il risparmio (di un terzo) tanto declamato da chi quella biblioteca l’ha voluta (e chiamiamoli con il loro nome, UDU e UniTin, che prima hanno votato per tale scelta e ora la giustificano) è servito agli studenti e alle studentesse? Considerato il fatto che per due terzi dei costi si è costruito un contenitore della metà, senza posti auto ed a rischio inondazione: no.
Ma se non è servito a loro, a chi? Questo bisognerebbe chiederlo a chi si è sperticato in sotterfugi a porte chiuse per spostare la BUC, da UDU-UniTin alle imprese e famiglie della borghesia trentina e nazionale. La risposta è facilmente intuibile, ma la lasciamo a voi.

Una biblioteca è un contenitore. Questo contenitore è stato costruito e noi come universitar@ che hanno contribuito alla sua realizzazione, pur senza il nostro consenso, vogliamo farne parte, ma solo alla condizione di non essere usat@ come fotografia per apparire nei begli spot per pubblicizzare un’azienda di lauree che vuole vendersi sul piano nazionale ed internazionale come aggregatore di capitali e di persone di una certa estrazione. Vogliamo un’università per tutt@ quell@ che vogliono studiare, per tutt@ i/le cittadin@ e non cittadin@. Per tutt@ quell@ che vogliono un’università che non fa differenze sul reddito, per tutt@ quelli che vogliono sapere.

[NOTE]

[1] “Il pasticciaccio brutto della biblioteca”, in Questo Trentino, n. 11, novembre 2013.

[2] Ibidem.

[3] L’affare ex michelin, De Bertolini 2016, Altrotrentino Società Cooperativa.

[4] “Il pasticciaccio brutto della biblioteca”, in Questo Trentino, n. 11, novembre 2013.

[5] http://www.questotrentino.it/articolo/14018/il_pasticciaccio_brutto_della_biblioteca.htm.

[6] L’affare ex michelin, De Bertolini 2016, Altrotrentino Società Cooperativa, p. 92.

[7] http://webmagazine.unitn.it/news/ateneo/12202/inaugurata-la-biblioteca-di-ateneo-sette-piani-430-postazioni-e-480mila-volumi.

[8] Parere espresso da architetti presenti alla conferenza di Questo Trentino il 28 novembre 2016 presso la Facoltà di Economia di Trento a cui abiamo partecipato

Il ricatto dell’università

La notizia della studentessa africana che rischia il suo permesso di soggiorno, con annessa carriera universitaria e permanenza in Italia, per aver bluffato ad un esame di inglese parlano chiaramente di almeno due, fra i tanti, tipi di ricatti che in tante e tanti viviamo in quanto studenti e studentesse universitar@.
Il primo riguarda il ricatto che viviamo giornalmente fra le mura dei nostri dipartimenti in quanto borsist@. Vuoi che il tuo diritto allo studio sia garantito?! Allora devi portarmi un tot di crediti a fine anno, entro una certa data. E se, come nel caso in questione, hai avuto una carriera “brillante” in passato, non hai sgarrato, sei sempre stata nei tempi, non importa: ti mancano due insulsi CFU per avere diritto alla seconda rata di una borsa di studio? Ti mancano due insulsi CFU per avere un alloggio con affitto agevolato? Problemi tuoi non certo dell’Opera Universitaria. E se da quella borsa o da quell’alloggio dipende la tua possibilità di continuare a studiare non importa: non si è mai detto che i meccanismi che stanno dietro al diritto allo studio diano peso al lato umano della questione, né tanto meno a quello più propriamente formativo. Perché se così fosse DAVVERO, probabilmente l’anno prossimo non avremmo meno borse di studio grazie al nuovo ISEE. Il secondo aspetto riguarda un secondo tipo di ricatto che alcuni tipi di studenti e studentesse subiscono ulteriormente ogni santo giorno, come se già essere tenut@ sulle spine per una borsa di studio non bastasse. Questa storia infatti ci parla anche di chi si trova in Italia e proviene da un paese non europeo e ci può stare in quanto studente/studentessa. Parliamo del permesso di soggiorno legato a motivi di studio. Anche in questo caso, se non dai un tot di materie questo ti viene negato, non rinnovato e questo significa in soldoni “tornatene pure a casa tua”. Non importa se per anni sei stata impeccabile, ma se sgarri un minimo te ne puoi andare da qui, non sei improvvisamente più la benvenuta.
Entrambi questi aspetti hanno a che vedere con il concetto di ricatto, di infallibilità, di produzione a tutti i costi, di meritocrazia legata alla produzione. Ci parlano entrambi, anche se in maniera non del tutto esaustiva, di come si è trasformata l’università in questi anni e come sta trasformando noi che la viviamo.
Questo è un caso che ci parla di una università che punta alla massima produzione di ogni suo studente, di ogni sua studentessa. Vuoi studiare? Devi farlo in tempi sempre più stretti e per “invogliarti” a farlo ti ricatto con la borsa o l’alloggio che ti do solo a certe condizioni che decido io, sistema-università. In questa storia c’è anche una università che è diventato facile strumento di ricatto per chi vuole vivere in Italia e viene da un paese non europeo. Sono entrambe condizioni che non ti permettono di sgarrare, di guardarti intorno, di prenderti il tempo giusto per capire, per allacciare rapporti veri se non legati alla produzione universitaria, di sperimentare altro nella vita se non studiare per ottenere ciò che già dovrebbe essere un tuo diritto garantito: il diritto di studiare anche se non ne hai le possibilità economiche per farlo. Quando ti formi in questo contesto, quando da un semplice esame non superato non ti giochi solo la laurea ma il permesso di soggiorno, la casa in cui abiti e la borsa con cui vivi, allora certo che ti viene in mente di “bluffare”, anche se di base sei la persona più corretta del mondo. Perché non riuscire non è contemplato. E un esame non dato, una laurea fuori corso sono considerati fallimenti, sintomi di mala volontà, poco impegno. Sei giudicat@ dal numero di esami che dai a fine semestre, non da quanto hai realmente appreso. Checché se ne dica, quindi, questa è una storia che ci parla dei ricatti che siamo costrett@ a subire, di come l’università sia diventato un luogo certamente normativo e di controllo, che valuta le persone in base al peso dei CFU che si portano nel libretto che non in base ad altro. Questa è una storia che parla di un luogo che ci abitua e istiga al non fallimento, che ci porta ad essere cavall@ da corsa, con tanto di paraocchi.
Questa è l’università che viviamo, questa è l’università che vogliamo cambiare.
Oggi più di ieri riteniamo i nostri piccoli spazi conquistati, i nostri piccoli momenti di autoformazione dei momenti e dei luoghi dal valore aggiunto. Ci vogliono inquadrati, ligi ai nostri doveri, brav@ soldatin@ a lezioni, pronti a chinar la testa e a dare esami? Allora noi staremo ancora davanti lettere a fare un pranzo sociale o in atrio interno a sociologia per un momento di autoformazione, perché non siamo operai di una catena di montaggio e perché il vero fallimento per noi è non viverci il nostro tempo e il nostro spazio universitario ora.

E’ tempo di RISCATTO! Assemblea pubblica

Vivere l’università al giorno d’oggi significa un sacco di cose. Significa vivere un contesto in cui vieni giudicato solo in base al numero di CFU registrati nel tuo libretto, dalla media dei tuoi voti, da quanti anni sei fuori corso. Significa vivere in un’università vetrina, che mira a raggiungere i primi posti nelle classifiche, all’efficienza, ma che si dimentica degli studenti e delle studentesse che ogni giorno la attraversano. Significa non avere spazi per la socialità, per il dibattito, per l’aggregazione. Significa anche non lasciare spazio al pensiero critico, alle forme di dissenso e di rivendicazione dal basso. Significa vedere la celere che entra nelle biblioteche o nelle facoltà, come a Bologna e a Roma. Ma non serve andare lontano per vedere esempi di questa situazione critica che sta vivendo il mondo universitario. L’ateneo trentino, con la provincializzazione, con le biblioteche in vetro e bambù, con i tagli alle borse di studio, con un debito da parte della Provincia di 200 milioni, con le aule studio chiuse è un chiaro esempio del fatto che gli studenti e le studentesse universitari della nostra generazione non sono minimamente considerati come parte attiva dei propri atenei. Non possiamo di certo accettare che delle guardie giurate entrino in ogni facoltà della città, soprattutto mentre la Provincia ha un debito di 200 milioni con l’ateneo. Vogliamo che i fondi vengano utilizzati per fornire più aule studio, più borse di studio, per garantire una formazione completa, che incentivi il pensiero critico. Non possiamo stare zitt* di fronte alle speculazioni della Provincia, allo sperpero di denaro, non possiamo accettare le istituzioni politiche all’interno del CDA.

Ci siamo interrogat* e confrontat*, anche partecipando a momenti di confronto a livello nazionale, e siamo giunti alla conclusione che siamo la generazione figlia della crisi, stiamo pagando gli errori che non abbiamo commesso, ma trovandoci di fronte a questo scenario possiamo e dobbiamo essere anche la generazione del riscatto, che si assuma la responsabilità di organizzarsi, di creare dissenso, di provare a cambiare lo stato di cose esistente. Abbiamo una grossa responsabilità e non possiamo tapparci gli occhi e non agire in un momento come questo. Vogliamo e, in qualche modo, dobbiamo trovare il modo di rientrare all’interno delle nostre università, riprendercele dal basso e renderle accessibili e aperte a tutti e tutte.

Per tutti i motivi elencati e per interrogarci su come costruire e ottenere il nostro riscatto vi invitiamo a un’assemblea pubblica il 21 marzo alle 18.00 nell’atrio interno di sociologia. Discutiamo insieme sui problemi dell’università di Trento e capiamo come ripartire da noi stess* per costruire dal basso l’università che vogliamo.