Il triangolo no, non l’avevamo considerato: Ianeselli-Sciortino-Baldo

Giovedì 7 aprile sulla testata del Corriere del Trentino è stato riportato un articolo di Donatello Baldo che tenta infruttuosamente di ricostruire i fatti della mattinata del 5 aprile, giorno in cui, presso il dipartimento di Sociologia, si sono tenuti un presidio e una contro-lezione riguardo la presenza del sindaco Ianeselli e della sua propaganda in università. Infatti, il signor sindaco, invitato dal prof. Brunazzo – e non Brunello, caro Baldo – avrebbe dovuto tenere una lezione che elogiasse lo strumento del dibattito pubblico e dei processi decisionali democratici sul progetto della circonvallazione ferroviaria che interesserà la città di Trento. Tuttavia, come ci è stato confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione” e dalle registrazioni, si è rivelato un becero tentativo di propagandare nuovamente l’opera della circonvallazione presentandola come la panacea di tutti i problemi della città di Trento, e lasciando addirittura dei voltantini a supporto della Grande Opera di RFI.

Alle parole del direttore di Dipartimento Sciortino, che dalla sua finestra – in realtà affacciata sul lato opposto dell’edificio – avrebbe contato solo ventuno persone di cui ben pochi iscritt* all’università, ribadiamo invece una forte e vocale presenza, in particolar modo di student* che sono stati il cuore di questa contro-lezione. Troviamo anche quantomeno ironico che un dipartimento che si vanta così tanto di essere stato al centro dei movimenti del ’68 riempiendo gli spazi universitari con frasi iconiche di questo periodo – vedi aule studio, panchine, ecc – allo stesso tempo gioisca della riduzione ai minimi termini del movimento studentesco e faccia di tutto per eliminare e contrastare quel poco di attività politica che resiste al suo interno. Infatti, puntuale, ritorna lo spettro di Biloslavo sempre usato come strumento per delegittimare il nostro collettivo ancora a 3 anni di distanza, nonostante ormai in università non sia rimasto praticamente nessun* dell* student* presenti quel giorno. Il caro direttore Sciortino afferma anche di essere stato presente alla “lezione” di Brunazzo e Ianeselli, peccatto che a pochi minuti dall’inizio del presidio sia stato visto uscire dalla porta principale dell’edificio e abbia fatto ritorno in facoltà solo alle 11 quando la “lezione” era ormai conclusa e noi ci preparavamo per spostarci nel cortile posteriore. Fatto nuovamente confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione”, riportando che Sciortino è stato in aula i primi dieci minuti e all’arrivo del Sindaco è uscito accennando ad un impegno. Brunazzo e Sciortino non sono nemmeno riusciti a mettersi d’accordo prima di esporsi sulla “lezione”: secondo il direttore infatti la lezione non era aperta a tutt*, mentre Brunazzo ha sostenuto fino al giorno prima che la lezione sarebbe stata riservata all* student* del corso, salvo poi scoprire convenientemente la mattina stessa che in realtà sarebbe stata pubblica e accessibile all* student*, come ci ha riferito lui stesso al termine della lezione (LOL). Questo è lo stesso direttore di dipartimento che qualche mese fa si oppenva alla concessione di un aula per una conferenza organizzata dall* student* utilizzando tra le varie scuse quella dell’assenza di una controparte, esattamente quello che è accaduto martedì e che sta difendendo a spada tratta.

Un’altra critica che ci preme sollevare riguarda le parole di Edoardo Giudici, che esprime solidarietà al sindaco a nome di tutta la comunità studentesca arrogandosi a portavoce della totalità dell* student*, che rappresenta ma non ascolta, e rinforzando ancora l’idea che la “lezione” non avesse lo scopo propagandistico che in realtà ha avuto, come conferma invece la registrazione della lezione che abbiamo potuto ascoltare.

Chiudiamo dicendo che non ci faremo intimorire dalle parole di Sciortino e che non abbiamo paura della repressione che molto probabilmente scatenerà nei nostri confronti (non che non lo facesse già). L’università è uno spazio pubblico, nonostante la pandemia abbia provato a farci dimenticare questo particolare, e abbiamo ogni diritto di incontrarci, auto-organizzarci e manifestare il nostro dissenso.

CUR

 

COMUNICATO SUI FATTI DI MARTEDI’ 5 APRILE

Martedì 5 Aprile il sindaco Ianeselli è stato invitato a tenere una lezione a Sociologia dal professor Brunazzo, per elogiare la buona riuscita del dibattito pubblico sul progetto di circonvallazione ferroviaria che interesserà la città di Trento. A questa lezione è stata proibita la partecipazione a tutta la popolazione salvo all* student* regolarmente iscritti al corso, per questo come Collettivo Universitario abbiamo deciso di indire un presidio esterno alla facoltà e una contro-lezione aperta sia all* student* che hanno partecipato alla “lezione” del sindaco, sia a chiunque fosse interessato a discutere del dibattito pubblico che ha confermato un progetto sempre più criticato dalla popolazione trentina, come dimostrato dall’importante partecipazione al corteo cittadino del 2 Aprile. Per fare ciò abbiamo chiesto aiuto ad alun* membr* del Comitato NOTAV, che hanno seguito tutte le fasi del dibattito da vicino portandone alla luce le varie criticità e smascherando l’uso strumentale del dibattito pubblico che Comune e RFI hanno portato avanti.

Ma andiamo con ordine: il presidio è stato molto partecipato (nonostante i giornali locali che si sono occupati della questione si siano tenuti ben lontani da accennarlo). Al termine della “lezione” del sindaco ci siamo spostati nel cortile posteriore della sede di via Verdi per iniziare la contro-lezione. Quest’ultima è stata addirittura più partecipata del presidio esterno: siamo stat* raggiunt* da una decina di student* che poco prima avevano assistito al monologo di Ianeselli, costretti dall’obbligo di frequenza e da un trentina di student* interessati al tema. Di fatto abbiamo attirato più persone di quelle che hanno ascoltato la propaganda Ianeselliana all’interno. Durante la contro-lezione sono state esposte varie criticità sul dibattito pubblico di Trento che potete trovare qui.
E’ stato sottolineato come lo strumento del dibattito pubblico non sia stato utilizzato in modo adeguato, in quanto non prevedeva nessuna modifica sostanziale al progetto calato dall’alto da RFI (la cui documentazione è stata tenuta nascosta alla popolazione per mesi), né -figuriamoci- la possibilità dell’opzione zero, date le enormi criticità irrisolte dell’opera. Inoltre ci è stato riportato dall* student* cosa è realmente accaduto all’interno dell’aula, ed è su quest’ultima parte vorremo soffermarci maggiormente.
I giornali locali parlano del sindaco, che dopo aver affrontato un dibattito con l* student* sull’utilizzo di questo strumento, si è ritrovato contestato senza motivo all’esterno della facoltà. Questa narrazione contrasta però con quella di chi dentro quell’aula c’era. Infatti, dopo una breve introduzione da parte di Pillon, collegato da remoto in quanto coordinatore del dibattito pubblico, in cui veniva esposta la relazione finale sul caso di Trento, l* student* hanno assistito ad un ora e mezza di propaganda sull’opera. Chi se lo sarebbe mai aspettato dal buon Franco, un sindaco così “attento” al dialogo con la popolazione?

Bhe…. noi che da giorni avevamo qualche dubbio che dietro l’incontro informativo si sarebbe celata una becera propaganda senza contradditorio. Nel periodo che ha separato il presidio dalla contro-lezione abbiamo avuto il piacere di incontrare il one-man-show della mattinata, che non appena ha fatto capolino dalla porta sul retro, tentando di evitare ancora una volta il confronto, è stato incalzato da alcun* nostr* compagn* che l’hanno subito invitato alla contro-lezione e hanno posto varie domande sia a lui che al Professor Brunazzo riguardo all’uscita di tema della lezione e all’esclusione di tutta la componente studentesca dal dibattito. I due compagni di merende hanno sviato le domande più critiche e declinato l’invito: e qui di nuovo la bassezza dei giornali locali, per altro non presenti all’evento, che riportano di una presunta proposta di rinvio dell’incontro da parte del sindaco, mai esistita. In realtà, al sindaco è stato proposto da noi di trovare un’altro momento in cui si potesse discutere della questione, ma ci è stato risposto senza mezzi termini “…con la gente come voi è inutile parlare”. Questa frase ci ha colpit* molto, e sottolinea ancora una volta che Ianeselli non ha nessuna intenzione di dialogare con l* cittadin* riguardo a quest’opera, l’unico obiettivo che si pone è quello di smantellare il fronte che si oppone alla circonvallazione e convincere il resto della popolazione che questo meta-progetto si farà e porterà solo dei benefici. D’altra parte cosa potevamo aspettarci da un istituzione che durante il dibattito pubblico non sedeva tra la popolazione, o quanto meno in zona neutrale, ma stava sul palco a fianco di RFI per dare un netto segnale che il dialogo era già chiuso e che il progetto in ogni modo si sarebbe fatto?

Ci fa ribrezzo che i quotidiani si siano lanciati sulla questione senza essere presenti e, di conseguenza, riportando i fatti in modo confuso, estremamente di parte e scrivendo varie falsità sulla mattina di ieri (ad esempio che i fatti si sarebbero svolti in atrio, alle 18 invece che alle 11 di mattina e accusandoci di aver “ironizzato sull’evento tramite le nostre pagine social”, su quest’ultimo vi sfidiamo a trovarne prova). Ci piacerebbe capire come mai vari* giornalist* sono riuscit* a ricostruire così male quanto accaduto, forse perchè nessun* di loro era presente e che quindi sono stat* invitat* da Ianeselli a scrivere articoli portando la sua versione dei fatti ancora una volta vittimistica e priva di responsabilità politiche?! Probabilmente si, perchè sarebbe stato troppo per il sindaco ammettere di essere stato contestato, ancora un volta, da più di 100 persone all’uscita della facoltà.

Secondo noi anche questa è violenza, come è violenza militarizzare il paese di Mattarello (o qualsiasi zona dove vengano posizionate delle trivelle), è violenza far continuamente sentire la pressione delle forze dell’ordine e della DIGOS a qualsiasi evento organizzato per contestare l’opera, è violenza sventrare un territorio senza informare la popolazione sui rischi idrogeologici, sulla perdita irreversibile di fonti d’acqua, sulla mancata bonifica dell’area del cantiere dell’ex-sloi. E’ violenza calare l’opera dall’alto come è stato fatto fin dal principio. E’ una violenza diversa certo, meno tangibile, ma fare questo senza informare la popolazione in modo adeguato e senza lasciare che si esprima rimane una forma di violenza che arriva direttamente dalle istituzioni. Ci sentiamo di concludere dicendo che uno sputo a confronto di decine di famiglie lasciate per strada e un territorio devastato per sempre in favore del guadagno di pochi è poca cosa, e il nostro sindaco se ne dovrebbe fare una ragione.

CURinQuarantena#1 – l’irruzione del virus nella storia

 

…riflessioni di un compagno a partire dal covid 19…

L’Irruzione del Virus nella Storia

“I Virus sono briganti proteiformi, organismi capaci di cambiare il mondo

– Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri

 “In un istante le si rivelò nella sua completezza la portata del suo stesso inganno,

 e si domandò atterrita come avesse potuto incubare per tanto tempo

 e con tanta sevizia una simile chimera nel cuore.”

– Gabriel Garcia Marquez, Amore ai Tempi del Colera

La biologa e filosofa Donna Haraway, per descrivere il nostro tempo, ha coniato il termine Chthulucene in opposizione ai soffocanti discorsi antropocentrici dell’Antropocene. Se è vero che l’impatto dell’uomo sulla terra è così devastante da essere pari ad una forza biologica, queste narrazioni riproducono la centralità dell’uomo nel nostro modo di pensare il mondo.  Il Chthulucene invece, è fatto di storie multispecie, in un continuo divenire, quando il cielo non è ancora caduto ed il mondo non è ancora finito. In una temporalità aperta, nella sua precarietà dove gli esseri umani, nonostante ci piace crederlo, non sono gli unici attori rilevanti. Fino a qualche settimana fa avremmo potuto considerare questo distinguo come una sottigliezza in confronto all’apocalisse climatica e alla potenza dell’homo come deus e boia del mondo.  La produzione discorsiva sulla natura come alterità è radicata nella storia del colonialismo, razzismo, sessismo e dominazione di classe di diversi tipi. Esso è alla base dell’episteme moderno che costituisce l’umano come essere allotropico che, accecato dalla luce e dal calore del ritmo produttivo delle macchine, si pone al di fuori della storia e utilizza la natura come misura della propria civiltà. La osserva come fosse il riflesso deformato di sé stesso. La manifestazione più evidente, nella sua drammaticità, è nella storia colonialismo ed il suo farsi biologico tramite la razza. Ma lo stesso ragionamento, nel suo rovescio, lo si trova nell’ambientalismo contemporaneo, nell’idea che dell’umano che deve salvare la natura, come se esso non ne facesse parte. Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende: e se invece che in guerra con il virus, esso fosse l’alleato?

L’inaspettato avvento di Covid-19 nelle trame della storia ci spoglia del privilegio di considerare l’homo sapiens potenza geologica indiscussa, rivelando, nel chiuso delle case, la nostra fragilità. Ci ricorda che siamo mortali, indipendentemente dalla quantità di farmaci e integratori che ingurgitiamo quotidianamente.

Ma sono i sistemi che all’interno dell’inganno, mostrano il fianco alla ferita mortale.

Il Covid-19 non è un caso o una punizione divina. Negli equilibri di un mondo sempre più precario, il virus si pone come antagonista del tardo capitalismo. La pressione di un modello di sviluppo insostenibile sul sistema pianeta genera delle reazioni in direzione opposta. Lo dimostrano i numeri sull’aumento degli spillover (o salti di specie) negli ultimi anni. SARS, Mers, Ebola e Covid-19, quattro nuovi antagonisti in meno di vent’anni. Come spiega una ricerca pubblicata sulla rivista Nature[1], le cause dell’aumento di salti di specie da animale non-umano a umano è da rintracciare nel cambiamento climatico e nel mutamento degli ambienti generato dell’uomo. Deforestazione, urbanizzazione e allevamenti intensivi in primo luogo. Tuttavia, i salti di specie non si possono fermare. Anche se si iniziasse da domani ad attuare strategie massicce di riforestazione, decostruendo e ricostruendo il nostro spazio antropico, i contatti tra le specie aumenterebbero lo stesso[2]. Centinaia di virus alla ricerca di nuovi serbatoi, per proseguire la secolare guerra che ci ha preceduto e ci succederà.

Nell’impossibilità, e mancanza di volontà, di affrontare l’altro che irrompe nella storia con la sua cieca avanzata, privo di considerazione per le nostre costruzioni culturali e sociali, di vita, di morte, di economia; il virus ci mostra e ci racconta nell’immagine del suo negativo: il corpo del mostro sociale infetto.

Il dramma del virus nel discorso egemone è nella negazione della potenza altra, il non accettare l’antagonista. Esso viene negato come altro vivente, e ridotto ad un attributo dell’umano. Non si parla dell’eterna guerra tra virus e animali, ci dicono che siamo in guerra con – e tra – umani in quanto possessori del virus. Una guerra civile. Da qui il panico, terrore, la paura, per quell’agente infiltrato, invisibile, pronto a radicalizzarsi, moltiplicarsi ed esplodere.

Non possiamo o non vogliamo accettare l’alterità, abbiamo bisogno di trasfigurarla in vesti umane: l’untore, immagine riesumata dal medioevo per nutrire l’ampia rassegna delle punizioni per chi infrange i divieti anti-contagio. Dodici anni di carcere per concorso in epidemia. Peccato solo che le nostre gabbie siano troppo larghe per rinchiuderci anche gli organismi acellulari.

Pronti alla guerra ma non all’accettazione del virus in quanto tale: un brigante proteiforme che fugge da serbatoio a serbatoio, pronto per lo sfruttamento di cellule espropriate necessarie per la sua avanzata sui corpi come forza (ri)produttiva.

Dobbiamo difendere la Società!

La reazione dell’olobionte organico è istintiva. Lockdown. Almeno per quello che raccontano. Il vero lockdown rappresenterebbe il collasso reale del sistema, come bloccare il flusso del sangue che gli permette la vita. L’unica via sarebbe l’amputazione di una delle sue parti, isolare, distinguere calcolare, riappropriarsi della possibilità di scegliere chi vive, e chi lasciar morire. Tenere in movimento solo le cellule che ne possano garantire la tenuta: le grandi industrie, la logistica, l’informazione. E mentre Confindustria continua a premere per tenere aperte le aziende, mentre gli anticorpi medici vengo usati come carne nuda ad arrangiarsi nel lazzaretto del sistema sanitario neoliberista, la narrazione sugli eroi e i cavalieri che tengono in vita il corpo-stato risuona come l’inno nazionale sulla via di Caporetto. Si canta, ma con il fucile puntato sulla schiena. Mentre il virus permea nell’epidermide della bestia, esso, impaurito continua a chiudere i confini, in una mischia selvaggia in cui, adesso, non si sa più chi lascia fuori chi e chi rimane chiuso in cosa. La lotta non è tra uomo e virus ma tra due sistemi.  E se un sistema sfrutta e si appropria di corpi per riprodursi, l’altro lo attacca, rivoltando al contrario la stessa strategia, ma sfruttando la sua debolezza: bisogna salvare la società, ad ogni costo. Per questo il virus fa paura, perché è la cospirazione che esplode all’interno del sistema.

Perché in fondo vorremmo essere il nemico, il virus. Vorremmo cambiare così velocemente la nostra corporalità, considerata intrinsecamente e cronicamente malata. Vorremmo non essere così attaccati all’esistenza anche quando rischia di diventare la completa negazione di essa. Rinchiudersi, salvarsi, cercare gli untori. Appena svegli, sentiamo il bisogno di usare compulsivamente il termometro, vedere i bollettini di contagiati, morti, guariti, persi nell’’ansiogena arte del calcolare, misurare, controllare. Accendere il computer: lavarsi le mani cantando due volte happy birthday. MERRY CRISIS AND HAPPY NEW FEAR.

Perché il virus si propaga a causa delle condizioni di vita che ci sono state imposte. Vivere ammassati in megalopoli senza cielo, in città-assemblaggio frammentate, settorializzate a seconda dell’idea di vita che dovrebbero condurre chi le abita. Dai centri storici, ai centri commerciali, dalle industrie ai deserti di cemento delle periferie. Un organismo decomposto, ma connesso a velocità impossibili i cui ritmi adesso si rivoltano contro. Le infrastrutture, che con la loro velocità prima erano il simbolo del potere, adesso sono i veicoli di accelerazione di contagi che prima impossibili. Treni, aerei, metropolitane, supermercati e centri commerciali. Persino l’ospedale, nella sua configurazione moderna come istituzione totale, non può che essere cassa di risonanza per il contagio[3].

Ma non c’è nessun nuovo attacco, nessuna guerra che non era già in corso. Quanti e quante erano soggett* al ricatto di scegliere tra vita e lavoro, quanti e quante frequentavano un’università che offriva nulla se non esami e lezioni. Quanti e quante vivono per strada ed erano già sottopost* a provvedimenti repressivi criminali. Quante strade e piazze erano già vuote per la guerra contro il degrado, quanti e quante cercavano il nemico, se prima nell’immigrato, ora nel vicino di casa che fa jogging. Quanti e quante erano chius* in casa con la sensazione di non riuscire a respirare. La guerra contro la socialità, la vivibilità delle città, il diritto all’abitare, case e spazi che ci appartengono, era in corso da tempo. Il virus rende visibile ciò che prima, ai più, era nascosto. E la nostra guerra era e sarà il disgusto per le vite che vogliono farci vivere. E la combatteremo mostrando con orgoglio le ferite che lascia il passaggio dello stato di emergenza.

Del resto, l’esercizio del potere moderno è caratterizzato dalla rottura dei confini tra ciò che è biologico e ciò che è politico. Il biopotere si nutre del conatus, il vivere ad ogni costo, ottimizzando, misurando ed economicizzando la vita. D’altronde, si dirà, come si piò visualizzare amichevolmente la morte? “La battaglia non è l’unica via per indicare il processo della vita mortale”, dice Haraway, “le persone che affrontano le conseguenze, spesso mortali, del virus HiV, hanno ribadito che loro vivono con l’AIDS, piuttosto che accettare lo statuto di vittime, o di progionier* di guerra”[4]. È l’idea militaristica dell’infezione che apre gli scenari più inquietanti. E la sua decostruzione la via d’uscita.

Il primo scenario è la gestione dell’emergenza, e delle emergenze che verranno, all’interno dello stesso paradigma: controllo e militarizzazione. D’altra parte, la gestione dell’epidemia da parte dei paesi ultraliberali (UK in primis) è quella di non bloccare la macchina produttiva, con Boris Johnson che parla “di prepararsi a perdere i propri cari” espellendo già da adesso quei “cari” del corpo dell’organismo sociale. Donald Trump prova ad acquistare il brevetto di un vaccino di un’azienda tedesca chiedendo l’esclusiva per gli USA. Le meraviglie del capitalismo.

E le misure di lockdown di altri paesi, come l’Italia, per quanto potranno protrarsi nel tempo?

L’azienda DiaSorin, qualche settimana fa, ha brevettato un test diagnostico per il coronavirus che restituisce gli esiti in un’ora. E se per molti può apparire come uno strumento per salvaguardare la salute della popolazione, esso rischia di essere un nuovo strumento del (bio)potere. Come sostiene Michael Foucault in storia della sessualità, nella modernità il diritto sovrano di uccidere non poteva essere mantenuto se non minimizzando i crimini in sé e amplificando la mostruosità dei criminali: “uno ha il diritto di uccidere chi rappresenta un tipo di pericolo biologico per gli altri” (p.138). È in “nome della cura che avvengono i più grandi massacri”. Muoversi tra gli interstizi lasciati vuoti da stato e mercato sarà l’unica via possibile per fuggire da un leviatano sempre più aggressivo.

Il secondo scenario che si affaccia sugli orizzonti delle nostre finestre di quarantena è quella rizomatica espressa da Deleuze e Guattari in mille piani: l’involuzione. Essa non va confusa con la regressione, ma è una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei. L’involuzione è creatrice, non procreatrice: se regredire è andare verso il meno differenziato, involvere è formare un blocco che segue la propria linea, che diviene-altro seguendo le linee più astratte e tortuose di varie dimensioni e direzioni spezzate. Divenire rizoma significa annullare i confini tra natura e culture, abbandonare il verticalismo gerarchico delle strutture di pensiero occidentale in favore di un’orizzontalità libera, da esplorare in tutte le dimensioni possibili, senza preclusioni. Significa rivedere in maniera radicale il come viviamo, gli spazi in cui viviamo creando alleanze meticce e simbiosi transpecie. Seguendo non la nostra linea, ma la propria linea, quella di tutt*. Iniziare a vedere la natura come topos, un luogo, uno spazio in cui si condensano temi condivisi. Creare autonomia, tessere nuovi rapporti partendo dalla ricostruzione di comunità sulle necessità. Creare orti e mercati di quartiere, socializzare le tecniche, un patrimonio condiviso che troppo spesso è stato silenziato. Rompere le relazioni basate sull’estrattivismo, ricreare lo spazio urbano come spazio “improduttivo”, riappropriandosi di quelle conoscenze legate ai luoghi. E ripartire da lì.

La natura è, strettamente, un luogo comune[5].

R.D.

[1] https://www.nature.com/articles/nature06536

 

[2] https://www.iltascabile.com/scienze/spillover-coronavirus/

[3] https://www.fanpage.it/attualita/coronavirus-lallarme-di-ilaria-capua-in-lombardia-sta-succedendo-qualcosa-che-non-si-spiega/

[4] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri, p.24

[5] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri

Nei CPR si muore, e noi sappiamo chi è stato

Il 18 gennaio 2020 giunge la notizia che un migrante detenuto nel CPR di Gradisca è morto mentre era ricoverato in ospedale a causa di una rissa. Nei giorni seguenti sono arrivate le testimonianze degli altri detenuti, secondo le quali le lesioni che avrebbero portato alla morte del ragazzo sarebbero state inflitte dalle guardie del centro. Il tutto parte da una cosa piccola piccola come il telefono, V. non lo trova più e inizia a lamentarsi con le guardie, che non lo ascoltano e lo riportano nella sua cella. Lui per protesta si colpisce da solo con una mazza di ferro allo stomaco. Viene portato in infermeria, ma quando torna le lesioni sono evidenti e, di certo, non dipendono dal colpo che si è autoinflitto. Nei due giorni successivi sta visibilmente male, chiede aiuto, ma nessuno gli presta soccorso. Allora comincia a ribellarsi, gridando per attirare l’attenzione dei poliziotti, ma quando arrivano scoppia una rissa con il compagno di cella, che lui credeva stesse collaborando con le guardie. Loro intervengono per separarli, lo picchiano ancora, lo bloccano a terra e gli mettono le manette, e lo trascinano fuori dalla cella, quasi fosse un pezzo di carne.

Nessuno ha più notizie, V. non torna più in cella, e poco dopo si scopre che è morto, origliando delle conversazioni.

È chiaro chi siano i responsabili di questa morte, è chiaro come il fatto che fosse un migrante non sia una casualità, è chiaro come la polizia ancora una volta abbia abusato del proprio potere. Nei CPR le violenze e gli abusi sono all’ordine del giorno, i CPR sono centri di detenzione e non serve a nulla chiamarli Centri di permanenza per il rimpatrio, perché noi sappiamo bene cosa rappresentano in realtà. Sono la diretta rappresentazione di anni di politiche securitarie, in cui i migranti sono visti come un rischio o un pericolo da cui proteggersi. La morte di questo ragazzo è un chiaro segnale, purtroppo uno dei tanti, di come la politica internazionale, ma soprattutto quella italiana, stiamo prendendo una deriva sempre più razzista e discriminatoria nei confronti di chi viene identificato come diverso.

La detenzione dei migranti con l’unica finalità del rimpatrio e senza che abbiano effettivamente compiuto un qualche reato, è una pratica lesiva dei diritti umani e della libertà individuale di fronte a cui non è più possibile rimanere in silenzio. Così come i continui atti di violenza e gli abusi di potere in divisa non possono più essere ignorati o nascosti sotto il tappeto, utilizzando la scusa del tragico incidente o del “era una persona problematica”. L’Italia si conferma un paese in cui se sei straniero vieni discriminato, vieni rinchiuso in una cella, vivi in centri di accoglienza senza alcuna dignità e, “se necessario”, ucciso. L’Italia si conferma il paese in cui se hai una divisa puoi sentirti libero di usare violenza, di privare chiunque della propria libertà e dignità, di picchiare, abusare e utilizzare metodi disumani, e rimarrai impunito, nonché elogiato per il servizio reso alla comunità.

A noi però le divise non sono mai piaciute e ci siamo sempre schierati dalla parte di chi lotta per la propria libertà, per questo esprimiamo tutta la nostra vicinanza alla moglie e alla famiglia del migrante ucciso e ribadiamo a gran voce che i CPR e tutti i centri di detenzione dei migranti debbano essere chiusi immediatamente!!

Zone Rosse nelle Città

PER SOFFIARE SUL FUOCO DELLA GUERRA TRA POVERI, PER SPIANARE LA STRADA AD ABUSI IN DIVISA, PER GETTARE BENZINA SUL FUOCO DELLA PROPAGANDA.

Con una nuova direttiva il Ministro dell’odio, Salvini, sollecita le prefetture delle città italiane a sotituirsi ai sindaci per emanare ordinanze “antidegrado”, istituendo delle zone rosse all’interno del quale sarà possibile potenziare le attività contrasto a fenomeni di “degrado e antisocialità”con stumenti, si legge, “di natura straordinaria, contingibile ed urgente”.
Una storia già sentita, che segue la strada della repressione in nome del “degrado” tracciata da anni dai governi e dalle amministrazioni, anche di centrosinistra, nelle nostre città.
Quali saranno queste zone rosse lo dice la stessa direttiva, che parla di luoghi nel quale “si registrano, di frequente, fenomeni antisociali e di inciviltà lesivi del buon vivere, particolarmente in determinati luoghi caratterizzati dal persistente afflusso di un notevole numero di persone, sovente in condizioni di disagio sociale”, ovvero i luoghi di socialità, i presidi sanitari, i centri storici. In questo modo viene consegnato nelle mani della prefettura un nuovo strumento di repressione, dopo l’istituzione del daspo urbano e del reato di accattonaggio.
In nome della sicurezza e del decoro si distrugge la socialità, si militarizzano le città, si alimenta la guerra fra poveri soffiando sul fuoco della propaganda, si fa un favore a sbirri, ricchi e palazzinari, spianando la strada alla gentrification urbana e alla costituzione delle città vetrina.
Attaccare gli spazi per attaccare le soggettività ribelli, i senzatetto,gli immigrati, i tossicodipendenti.
Una situazione che a Trento conosciamo bene e che alla luce dei fatti accaduti nelle ultime settimane ci inquieta e ci fa rabbia.
Noi continueremo a portare avanti le nostre iniziative per rivendicare spazi di socialità e per rompere la narrazione sul degrado.
Le città sono di chi le vive, è questa la nostra sicurezza.

Per saperne di più

https://www.popoffquotidiano.it/2019/04/18/le-zone-rosse-delluomo-nero-la-nuova-direttiva-di-salvini/

 

https://www.facebook.com/1549246885289776/posts/2301366536744470?sfns=cwmo

 

COME È STATO AMMAZZATO FRANCESCO LORUSSO?

Nell’Italia del marzo 1977, presso l’istituto di anatomia dell’università di Bologna si tiene un’assemblea di Comunione e Liberazione, 400 i presenti. All’entrata dell’aula cinque studenti di medicina riconosciuti come aderenti al movimento vengono malmenati dal servizio d’ordine dei cattolici. Mentre la notizia attraversa la città, la zuffa dilaga. L’intervento di carabinieri e polizia, chiamate dal rettore, è immediato: partono lacrimogeni e gli scontri si spostano verso porta Zamboni. Dopo le violente cariche, nei pressi di via Irnerio, studenti e studentesse vengono bloccat* da una autocolonna di PS e carabinieri ed é a questo punto che un carabiniere spara ripetutamente. Per difendersi, viene lanciata una molotov contro la jeep, causando un principio d’incendio. Poi, in Via Mascarella, una colonna di carabinieri proveniente da Via Irnerio sparano ancora. Chi spara è un carabiniere e lo fa con la fermezza di chi, per amplificare le potenzialità di una buona mira, appoggia il braccio su una macchina mentre punta l’arma. Sotto la vigliaccheria dei colpi puntati alla schiena cade Francesco Lorusso, 25 anni, studente e militante di Lotta Continua. La voce si sparge, seguono ore e giorni di autentica guerriglia per le strade della città. Gli echi degli scontri di Bologna si propagano per tutta Italia e il clima diventa torrido, nella città emiliana e non solo. Con la complicità del sindaco comunista Zangheri i carri armati di Cossiga occupano le vie del centro di Bologna, lasciando il ricordo indelebile di una repressione che vede nel Partito Comunista Italiano il principale alleato della magistratura.
Con la determinazione di chi non intende assuefarsi e arrendersi a una narrazione avvelenata da miopi pagine di ricostruzione storica che dove non ha imbalsamato ha demonizzato, sentiamo oggi più che mai la necessità di promuovere la costruzione di un pensiero critico che parta, oggi come allora, dalle nostre università. La repressione di oggi ci trova sempre preparat* ed insubordinat* perché siamo forti del fatto che abbiamo nella memoria l’esempio e nella lotta la pratica.
11 MARZO BANDIERE ROSSE AL VENTO! UCCIDONO UN COMPAGNO NE NASCONO ALTR* CENTO!