Cronache di una tragedia annunciata

pubblichiamo delle interessanti riflessioni di un fuorisede a Trento ai tempi della pandemia.

Mi sono trasferito a Trento durante una pandemia globale che sta mettendo in ginocchio milioni di persone, frantumando progetti e psiche già duramente provate dalle strutture e oppressioni di questo maledetto tardocapitalismo. Ho incontrato ciò che migliaia di studenti fuorisede hanno conosciuto prima di me e che continueranno a conoscere per molto tempo: affitti folli, padroni di casa di merda, supermercati con prezzi ben oltre la mia portata e strade con più sbirri che panchine. Non basta, ho conosciuto quella particolare tendenza trentina a voler aumentare il numero di studenti a dismisura ma soltanto a lezione, con la speranza che cessino di esistere oltre la loro partecipazione accademica e non si facciano vedere per le strade per esempio volendo uscire la sera. Non intendo certo riprodurre il trito e ritrito luogo comune della guerra tra residenti e studenti, mi annoia abbastanza, ma credo che quanto detto da un’amica, cioè “qui a Trento non hanno ancora capito come spremere del tutto il portafoglio di noi fuorisede lasciandoci ammassare in luoghi di aggregazione a prezzi più bassi”, basti per riassumere la situazione generale. A cui si aggiunge la già citata stramaledetta pandemia che rende il tutto ancora più pesante e difficile. O forse no. Il coronavirus ha un pregio, il pregio di tutte le crisi incontrollabili: mettere a nudo le contraddizioni e costringere a pensarci, a darci un peso. Se non ci fosse la quarantena, il coprifuoco, il lockdown, l* poch* compagn* conosciut* in queste brevi settimane che scompaiono perché il sistema di tracciamento dei contatti dei positivi l* risucchia in una spirale di ansie e tamponi, forse la domanda “che ci fai a Trento?” avrebbe un significato diverso. Un anno fa avrei potuto arrampicarmi sui vetri, giustificare la mia presenza in questa città per le lezioni, il contatto con le persone, la (poca) vita universitaria. Ora tutto questo non esiste più. Le lezioni si seguono da casa e, a conti fatti, ci si rende conto che cambia poco, che la conoscenza verticale continua a franarti addosso anche se adesso puoi togliere audio e video e mandare a fare in culo i professori quando fanno la solita sparata maschilista o discriminatoria. E anche tutto il resto, come possiamo vedere facendo un giro davanti a una scaletta ormai svuotata (non ho fatto in tempo a provare lo champagnone, mannaggia al capitalismo), non si trova più. Dunque, perché sono a Trento? Per un’entità che nella mia mente si presenta astratta ma in realtà è tremendamente tangibile, materiale e prepotente: l’Università. Ottima risposta, ma quale università? Vale la pena approfondire meglio questo aspetto, tanto non abbiamo più nulla da fare oltre a qualche timido aperitivo, almeno finché ce lo fanno fare. L’ateneo tridentino è infatti primo nella classifica MIUR degli atenei di media dimensione italiani. Qualità dell’insegnamento alle stelle, strutture futuristiche, professor* disponibili. Per carità, forse in alcuni casi fortunati le aspettative verranno soddisfatte, ma per quanto riguarda la maggioranza siamo qui perché ci vendono, e a caro prezzo, un’idea di università che non esiste e la promessa di un futuro che manca. Ti raccontano che non si tratta del solito parcheggio per studenti che serve a non farci accorgere che non ci stanno lasciando nulla su sto pianeta, che dovremo fare la fame fino a quarant’anni per morire di cancro o climate change ai cinquanta. Il covid mi costringe a fare i conti con questo, sono uno studente fuorisede che studia in un’università che riproduce uno schema meritocratico-competitivo e oppressivo profondamente capitalistico come tutte le altre. Sono solo un po’ più privilegiato rispetto a chi studia in un ateneo di serie B, posso succhiare qualche ridicola goccia in più di un benessere negato alla maggioranza di cui faccio parte. Si, ho delle agevolazioni da studente, più di quelle che avevo nell’ateneo dove ho fatto la triennale. Ma a parte questo sono solo un piccolo ingranaggio in una catena di montaggio culturale, pago per esserlo, fatico per raggiungere uno status sociale classista di laureato che non mi porterà nulla se non forse uno sfruttamento leggermente meno peggiore di chi non è tanto privilegiato come me da potersi permettere di studiare. E mi rendo conto più di prima che io sono un numero di matricola, lo sono sempre stato e lo sarò fino alla laurea, questa università provvederà a mettermi dei numeri in trentesimi da associare a dei codici di esami finchè continuerò a pagarla regolarmente e mi vomiterà fuori inerme, catapultandomi dentro a una società profondamente ingiusta e disinteressata alla mia sorte. Fermiamoci un secondo. Tutto questo lo sappiamo già, chiunque abbia mai partecipato a un’assemblea universitaria ma anche liceale avrà già sentito gli slogan, condivisibili e legittimi come tutti gli slogan del resto, del tipo “no alla scuola dei padroni”. C’è qualcosa di diverso questa volta. Qualcosa che va più a fondo, che parte dalla didattica a distanza e arriva in un punto di indefinito malessere e rabbia. Perché diciamocelo, la didattica a distanza funziona fottutamente bene. Funziona nell’ottica di un’università fabbrica di cfu, è il tipico riciclo del capitalismo che trova il modo di salvarsi il culo a ogni fottuta crisi che provoca. Ecco la novità, ecco cosa non funziona: davanti a una crisi sanitaria profonda che comporta disastri psicologici ed economici per tutt* noi, l’università ha trovato il modo di andare avanti senza mettere in discussione nessuna delle sue strutture, nessuna delle sue finalità. L’università sta andando avanti senza noi, nonostante noi, questa volta in maniera più plateale del solito. Quando guardo i riquadri vuoti e neri di quell* che dovrebbero essere l* compagn* di corso, mi rendo conto che in questo schema, è possibile un’università senza studenti. Non solo è possibile, è auspicabile per il capitale. Qualsiasi spazio lasciato all’ultima ruota del carro della struttura accademica è scomparso. Non parlo solo di spazi fisici ma anche virtuali, solidali, organizzativi e politici. Resta una struttura svuotata, che almeno prima fingeva di voler essere riempita con le nostre idee e i nostri corpi, ora non più. Non c’è una comunità studentesca, non ci sono l* studenti, siamo gettati davanti alla nostra fragilità fisica come mai prima nella nostra vita e nonostante questo, nonostante questa mancanza violenta, questo vuoto incolmabile, l’università va avanti. Perché perdere mesi di lezione non si può, bisogna restare competitiv* e formare nuove vittime del mercato del lavoro in fretta. Non è servita una fottuta pandemia per mettere un freno all’università neoliberista, ad aprire la possibilità di una ridefinizione di cosa debba essere per noi questo luogo. E se il luogo che si professa come tempio del sapere e della discussione (tante belle parole) non è in grado di rimettersi in discussione, allora abbiamo un problema che va ben oltre le tasse, ben oltre i saperi liberi e accessibili, ben oltre gli spazi fisici in cui studiare.

Il covid congela tutto, congela questo mondo accademico in cui prima mi muovevo liberamente e mi toglie quelle distrazioni che mi facevano distogliere lo sguardo da questa verità: ci hanno intortato per anni e continuano ancora dicendoci che lo studio serve ad emanciparsi. Forse avrebbero dovuto insegnarci a disertare le strutture della conoscenza istituzionalizzata e neoliberista e ad assaltarne i palazzi. Ma lo stiamo imparando da sol*.

Ora so cosa ci faccio a Trento durante una pandemia globale: a Trento mi arrabbio. O forse sono sempre stato arrabbiato e Trento me lo fa ricordare.

Affitti: Tavolata in Provincia. fra chi ingrassa e chi non ha da mangiare.

brevi considerazioni sul tavolo aperto in Provincia fra le rappresentanze studentesche, l’Opera Universitaria e proprietari di immobili.

 

“Senza studenti fuorisede Trento perderebbe 40 milioni di euro in 4 mesi”.
Questa la ragione del tavolo di discussione convocato per l’emergenza affitti che ha visto la partecipazione provincia, sindacati, rettore e rappresentanze studentesche.

Paradossale che si inizi a parlare della situazione abitativa di studenti e studentesse solo quando iniziano a mancare i soldi nelle tasche di provincia, bar e palazzinari. Mentre sono anni che ci troviamo a denunciare una situazione che è da tempo insostenibile, con molt* student* che hanno dovuto abbandonare gli studi a causa del caro affitti o accettare i lavori più di merda per avere la possibilità di studiare. Per inseguire la promessa, puntualmente tradita, di poter fare un lavoro decente.

L’emergenza degli affitti è stata accelerata prima con l’arrivo di Airbnb a Trento, per poi esplodere durante la pandemia, con centinaia e centinaia di contratti d’affitto disdetti, come tutt* avranno notato dal ripetersi di annunci di stanze libere da subito. La provincia e l’università, dopo aver ignorato per mesi (e anni) il problema decidono di impegnarsi in un tavolo durato sessanta minuti. Come si è iniziato a parlare di regolarizzazione degli stranieri quando i latifondisti agricoli si sono accorti che senza migranti a spaccarsi la schiena nei campi per pochi spicci non ci va nessuno (se non sotto ricatto, vedi gli appelli a costringere a lavorare gratis disoccupati e recettori del reddito di cittadinanza), allo stesso modo si parla dell’emergenza affitti quando ci si è accorti che bar e palazzinari campano grazie agli student* fuorisede. E se con i migranti si propone come soluzione un permesso di soggiorno con la data di scadenza (a cottimo praticamente, tornando al discorso sul ricatto), per gli studenti si propone un bonus una tantum, pronto a finire nelle tasche, già abbastanza profonde, di chi affitta intere palazzine. Ennesimo esempio di come gli studenti universitari siano visti come mera carne da speculazione immobiliare: fanno comodo finchè c’è da pagare l’affitto, poi quando escono la sera per evitare che facciano casino, chiudiamo tutti i bar alle 23.

E pensare che c’è chi esulta per l’esito di quella che si può definire poco più di una chiacchierata. Così finita l’emergenza tutto tornerà alla normalità: palazzinari che perdono poco o nulla, affitti sempre più cari a causa dell’aumento della domanda dovuta all’apertura della facoltà di medicina,  studenti e studentesse – e le loro famiglie – impoverite dalla crisi, con, in aggiunta, l’impossibilità di trovare il lavoretto sporco, magari a nero, che ci permetteva di pagare una stanza doppia o tripla.

La questione abitativa era già un’emergenza prima del covid. Un bonus una tantum serve solo a parare il culo ai multiproprietari che da anni campano speculando sul diritto allo studio. Qui si tratta di reinventare l’abitare in città, calmierando i prezzi degli affitti mettendo un prezzo massimale nel contratto per studenti, è necessario aumentare il numero delle borse di studio – drammaticamente ridotto con il passaggio dall’ICEF all’ISEE di tre anni fa, è necessario porre fine alla speculazione sistematica sulle spalle di noi student*. Consapevoli del fatto che non sarà la provincia a cambiare questa situazione, visti i recenti tagli all’università, né un rettorato che ha sempre ignorato il problema, probabilmente ben contento della “selezione di qualità” – per non dire classista – che privilegia i “figli di” a discapito chi non può più permettersi di studiare fuori.

Con affitti e costo della vita che aumentano, ed istituzioni che pensano solo a difendere gli interessi di chi da questa situazione ci ha già mangiato abbastanza, non resta che rimboccarsi le maniche, organizzarci, difenderci da un attacco, fatto di silenziosa gentrification, che va avanti da troppi anni.

“Fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”: cosiderazioni su test d’ingresso e pedigree accademico.

Nel corso delle scorse settimane nei vari consigli di dipartimento dell’ateneo si è discussa la sostituzione dei test d’ ingresso alla laurea triennale con delle “modalità di valutazione sostitutive”, come quella approvata di fresco dal dipartimento di Sociologia e poi estesa a tutti i dipartimenti dell’area umanistico-letteraria.

La selezione delle nuove matricole sarà effettuata in base ai loro voti in pagella ottenuti alla fine del quarto anno di scuola superiore.

Su quanto sia classista questa decisione non ci dilungheremo a lungo: è comprovato da una pluralità di studi che gli studenti provenienti da contesti familiari “difficili o umili” (perché dire poveri è degradante) abbiano voti più bassi di coloro che provengono da famiglie benestanti o ricche.

Oppure il fatto che vengano fatte delle pericolose distinzioni fra scuole di serie A e di serie B: a parità di voto, chi ammettiamo lo studente di agraria o il liceale?

Crediamo che ognuno dei lettori possa trarre svariati esempi dalla sua esperienza personale riguardo a ciò che è stato appena detto, come anche avere memoria di figli di medici e professori -letteralmente ignoranti come le foche- spinti avanti a forza, classe dopo classe, con valutazioni gonfiate solo per la propria ascendenza familiare. E poi dicono che i figli degli operai non sono invogliati a studiare.

 

La scuola italiana e l’università, nulla di nuovo sotto il sole, riproducono le “diseguaglianze sociali”. Tuttavia l’analisi dei dati OCSE sulla mobilità sociale e l’università li lasciamo a udu e figc, non perché non siano importanti, ma perché vorremmo concentrarci su ben altro…

Per come è stata presa, quella di qualche giorno fa, sembra una decisione cieca e puramente ingiusta. Nessuno studente medio avrebbe mai potuto aspettarsi, che i suoi voti di quarta potessero influenzarne l’ammissione all’università. Inoltre dopo svariati esempi in giro per l’Italia di esami (scritti) svolti online, nessuno avrebbe mai pensato che lo svolgimento di un test d’ingresso potesse rappresentare un insormontabile problema tecnico, tanto da dover annullare i test d’ingresso in favore di altre modalità di selezione.

Oppure per semplificare:

Se la scuola che faccio mi fa schifo (e quindi vado male), non vuol dire che non abbia intenzione di iscrivermi all’università in linea con quelle che sono le mie passioni”.

Saremo anche “i soliti rivoltosi scansafatiche”, ma il concetto soprastante non ci pare tanto astruso e delirante da non essere condivisibile dai più.

Insomma: da qualunque parte la si prenda emerge il pensiero che si poteva fare altrimenti (e meglio).

Purtroppo, se possiamo attribuire la cecità di alcune scelte, in campo sociale o economico, alla stupidità della classe politica tridentina, non ci è possibile fare altrettanto con un collegio di professori universitari, i quali hanno sicuramente qualche neurone in più di Fugatti & Co e pensano prima di agire.

Insomma, questa scelta ci puzza e ci sembra fosse serbata da tempo dai vari amministratori dell’ateneo, infatti è perfettamente in linea con l’idea di “Università dell’Eccellenza” che viene portata avanti in quel di Trento: il set è quello di un ateneo piccolo, che punta sulla qualità della didattica, sui servizi allo studente e ad aggregare le migliori menti d’Europa.

Vediamo inoltre che per inseguire tale modello di didattico venga naturale pretendere una specie di pedigree dagli studenti dell’ateneo, non basta più avere una buona media di libretto, ma è necessario avere un buon curriculum, essere stati sempre meritevoli, essersi impegnati anche quando si era in quarta superiore.

Non è una svista che questo approccio sia classista e grossolano: è stato messo in atto anche nel dipartimento di Sociologia, non crediamo che i luminari che presiedono le cattedre di Via Verdi possano essere tanto sbadati da non accorgersi dell’ingiustizia che questo modello produce. Infatti solo 4 professori si sono astenuti dal votare a favore: triste (ed ennesimo) esempio di come il corpo docente sia totalmente piegato alle volontà del cda di unitn.

Ci teniamo a ripeterlo, le scelte che vengono prese all’interno di un ateneo non sono mai casuali.

 

Non stiamo dicendo che è sbagliato riconoscere il valore dei meritevoli, tanto meno vogliamo entrare nel discorso del merito caro alla sinistra (craxiana), ma stiamo mettendo in discussione la base di equità su cui viene costruita l’ammissione ai corsi di laurea.

Il fatto che siamo l’Università italiana che fornisce più servizi e agevolazioni ai suoi studenti, (“e ce credo a Trento so pieni de sordi”) passa in secondo piano rispetto alla necessità di dare a tutti l’opportunità di accedere a tali servizi e non solo “a chi è già bravo”.

Sono anni che la validità dei test di ingresso viene messa in discussione per via della loro inefficacia nell’appiattire le disuguaglianze dovute alla formazione superiore, la scelta dell’Università di Trento invece che muoversi in direzione opposta, tende ad acuire tali disuguaglianze. Un esempio di meritocrazia calvinista, che alimenta l’immagine di Università-Fabbrica (di crediti) a cui ci siamo abituati. Gli zuccherosi discorsi sul “lato umano delle cose” o “sull’educare ad essere liberi” stanno a marcire in un merdoso sgabuzzino insieme ai resti di un’istruzione pubblica mutilata.

Poi c’è la motivazione fornita dai professori alle rappresentanze studentesche (quasi a sancirne l’impotenza sulle decisioni di peso): il voto delle superiori è il fattore più predittivo per la carriera universitaria. Tutto assolutamente vero. Ricordate l’esame delle scuole medie? Un elenco di voti abbinata ad una voce piccolapiccola. Da 6 a 7 professionale, 8 tecnico, 9/10 liceo. Ricordate il professore dalla faccia spenta che ogni giorno vi ripeteva che non avreste combinato nulla nella vita perché non avete studiato lo stramaledetto di teorema di lavoisier? La faccia degradata di sistema basato su competività, scoraggiamento e selezione.

Come disse uno studioso di cibernetica: “E’ il vincolo che crea la rottura della simmetria dell’ugualmente possibile, è la rottura della simmetria che crea la premessa dell’ordine”.  E’ il modello cibernetico dell’università neoliberale: lo studente è un numero di matricola, la cui carriera è ampiamente prevedibile e monitorabile tramite un insieme di dati, dai voti delle elementari a quante volte accede sulla piattaforma della didattica online, passando per la sua partecipazione ai forum. Questi dati formano un profilo pronto a finire sulla scrivania di qualche addetto alle risorse umane che selezionerà i più diligenti.

Poi ogni tanto ci capita di udire qualche commento paternalista sull’incapacità dei giovani di accettare le delusioni. Tradotto: pur vivendo in un mondo di disuguaglianze orribili e crescenti, veniamo bombardati dalla nascita con pillole di cieca speranza sul fatto che diventeremo tutti persone di successo, come tali dividiamo l’università in “corsi fuffa” e “corso di studio investimento”, ci laureiamo pieni di speranze e ci ritroviamo nel mondo della precarietà giovanile, con uno stipendio pari o poco superiore a quello dei nostri genitori. E a quel punto qualche domanda ce la facciamo.

E allora che fare? Sentirsi in colpa ad essere così mediocri?

 

C’è un’altra cosa che ci sentiamo di dire, anche se la questione è molto scivolosa: cosa vuol dire formare l’eccellenza? È una questione meramente tecnica legata alla qualità della didattica e dei servizi, della connessione col mondo lavorativo, della formazione di persone eccellenti? O è qualcosa di più, legato all’ umanità nel prendere le decisioni, all’empatia con cui ci rapportiamo agli altri, alla capacità di vedere e comprendere i problemi del mondo e osservare con lenti nuove, più vere, le ingiustizie che ci circondano? Noi non crediamo che il modello attuale di Università sia questo, anzi, questa ricerca del pedigree, dell’assenza di peccato che spacciamo per eccellenza, sembra restituirci un calco arido di ciò che già ci circonda, ossia di una società dove coloro che eccellono sono tali poiché arrampicatisi su un cumulo di cadaveri. Essere il capo, non è figo.

Solo i migliori, i più diligenti ce la fanno, credito dopo credito, esame dopo esame arriviamo alla laurea senza aver imparato un cazzo da tutti quei valori e quelle frasi di un 68 pacificato con cui vengono tappezzate le bacheche universitarie. Siamo solo, estremamente e stancamente, competenti, con una tinteggiatura di pseudo-creatività per sembrare smart.

Quantificare e calcolare in modo feticista gli attributi umani, come diceva Walter Benjamin passeggiando in maniera splendidamente improduttiva per le strade di Parigi: “accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere”.

In questa forma essere diligenti, pacati ed austeri, in una parola: calvinisti. Diciamocelo è una miseria.

Ed è con estrema liberazione e piacere che questi casi ci sentiamo di dire: “fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”

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Nota a margine…

per farvi un’idea di cosa intendiamo per “frasi di un 68 pacificato con cui vengono          tappezzate le bacheche universitarie.” fatevi un giro al dipartimento di sociologia di Trento e guardatevi intorno…

 

 

Ora, Sempre…

“Le Marie antoniette che volevano il fascista come scimmietta in gabbia da mostrare al popolino per distrarlo, sono rimaste sopraffatte e ampiamente superate dal loro stesso giocattolo, dal mostro che hanno creato. In questo senso, gli sproloqui allarmati e liberali perdono tutta la loro ragion d’essere. il fascismo non è il contrario della democrazia ma ne è l’intimo complemento. i cosidetti giovani sovranisti non sono che l’espressione ultima e compiuta, di una torsione esplicitamente autoritaria della macchina statale, tutto a vantaggio del libero mercato”

(Aurora dice…)

 

Se ci guardiamo intorno è facile farsi prendere dallo sconforto, dalla volontà di lasciar perdere, o ancor più di ritirarsi ad uno stoico snobismo verso le classi che 40 anni fa riempivano le nostre fila. Tuttavia lo sappiamo e lo dobbiamo tenere bene a mente: qui ci vogliono distruggere. Padroni, politici e fascisti bramano la nostra messa a tacere forse più di quanto noi bramiamo la loro. Il revisionismo storico non è contingente, ma organico, il suo obiettivo è chiaro. E noialtri? Abbiamo un’idea del nostro obiettivo? di chi sono i nostri nemici, i nostri oppressori? Per far fronte ad un fascismo istituzionale e diffuso, solubilizzato all’interno del senso comune, abbiamo bisogno di farci noi stessi organizzati, obiettivi. Per questo abbiamo deciso di chiederci chi è l’oppressore che oggi siamo destinati a combattere: porsi le domande giuste può portare a traguardi ben lontani dal nostro orizzonte.

Ce lo siamo chiesti per ricordare ancora a noi stessi quei motivi che ci spingono a rifiutare ciò che ci circonda, quell’inquietudine che non ci permettere di guardare fino alla fine un telegiornale per la rabbia che c’assale. Quelle verità etiche che sentiamo dentro e che sono in assoluto disaccordo con l’esistente: come gli ideali della Resistenza. L’odio per i prepotenti e non l’esaltazione della forza, la ribellione di chi non ce la fa più contrapposta ad una vita di soprusi, la cura degli altri piuttosto che l’indifferenza, il “si parte e si torna insieme” invece della competizione. Tutto ciò è totalmente incompatibile col mondo di merda che ci troviamo a vivere ogni giorno e contro cui lottiamo. Perchè in fondo, ciò che si dice è vero, noi lottiamo contro il mondo ma anche contro noi stessi, contro quella parte di barbarie quotidiana che si è incarnata in noi e che riproduciamo nei nostri modi di vita. 

Lottiamo, come ci è solito fare, ognuno secondo le proprie modalità, insistentemente, a volte disorganizzati e stanchi, rifiutando, calpestando il terreno in cui vorrebbero tumularci. Determinati sì, a volte con rabbia, eppure ne siamo certi, mai mossi da odio, ma da amore. 

Nell’estate del 1944 l’area di confine tra le province di Belluno, Bolzano e Trento fu contraddistinta da un’intensa attività partigiana.  e, soprattutto, la sicurezza dei cantieri che di lì a poco avrebbero avviato i poderosi lavori di costruzione della Blaue linie. L’offensiva partigiana fu presto perseguita delle autorità militari nazifasciste: dall’agosto all’ottobre 1944, si susseguì una serie di operazioni antipartigiane volte a reprimere l’insorgenza dei «ribelli» e a riportare sotto Le azioni di guerriglia, con attacchi, imboscate e sabotaggi, intraprese dai partigiani delle formazioni veneto-trentine misero in crisi il sistema di comunicazione tedesco. Dopo aver colpito una prima volta il Battaglione Gherlenda (Brigata Garibaldi Gramsci) in settembre, le forze tedesche e gli uomini del Secondo Battaglione CST (Corpo di sicurezza del Trentino) guidati dal capitano delle SS Karl Julius Hegenbart condussero, tra l’8 e il 12 ottobre 1944, un altro rastrellamento. All’operazione parteciparono non meno di 500 uomini. In tutta l’area, furono rastrellate circa 140 persone, poi arruolate nei cantieri della Todt di Pergine e Trento. Durante l’azione, i militari catturarono Clorinda Menguzzato, partigiana di 18 anni conosciuta con il nome di battaglia Veglia. La giovane fu seviziata, violentata dai militi del CST  e uccisa, il suo corpo abbandonato lungo la strada in direzione di Pieve Tesino l’11 ottobre, come monito per tutta la cittadinanza. 

Qualche mese dopo, nel febbraio 1945, venne uccisa dai Nazisti una compagna di Veglia della Brigata Garibaldi Gramsci, Ancilla Marighetto. La partigiana Trentina conosciuta come Ora, anche lei di 18 anni, venne fucilata brutalmente dai nazifascisti , insieme ai suoi compagni e alle sue compagne, presso Castel Tesino.  Ora, insieme al resto del gruppo, venne catturata durante un agguato delle truppe naziste capitanate da Hegenbart, e uccisa, dopo essere stata torturata nel castello del Buonconsiglio, poiché aveva risposto con il silenzio alle domande del capitano sull’organizzazione delle truppe partigiane. 

Ora e Veglia pagarono con la vita il loro coraggio, il loro non voler abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. 

Il loro carnefice Karl Julius Hegenbart  venne condannato all’ergastolo, senza tuttavia scontare nemmeno un giorno della sua pena in quanto non fu mai estradato dall’Austria, dove morì nel 1990, al termine di un’esistenza vissuta nel segno della vigliaccheria.  

 

Abbiamo deciso di raccontare i sacrifici di Ora e Veglia perchè la loro è la storia di due giovanissime donne che decisero di parteggiare per la causa della resistenza, perchè credevano in un modo migliore. Perché con il loro coraggio hanno deciso di non abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. Perchè hanno deciso di stare dalla parte giusta della storia. 

Ma anche perché i loro carnefici sono rimasti impuniti per i crimini efferati  dei quali si sono macchiati. Perché da una parte la Repubblica Italiana istituiva la festa della liberazione e portava avanti la memoria di una resistenza deconfluttualizzata nelle sue istanze più radicali e pacificata, dall’altra ha perseguito i partigiani e le partigiane compagni e compagne di Ora e Veglia. Mentre veniva concessa l’amnistia per chi massacrava civili inermi che non si erano voluti piegare all’oppressione fascista, venivano reinserite negli ambienti di potere le elite economiche complici del fascismo. Mentre con il codice penale fascista veniva perseguit* chi lottava per l’uguaglianza, venivano riciclati  i “camerati” per compiere stragi contro le rivendicazioni studentesche e operaie.

E oggi ci troviamo a dover sentire da politicanti, pseudogiornalisti e pseudostorici, che valgono meno di un capello di chi combatteva per la libertà, attuare un revisionismo storico che mette sullo stesso piano gli oppressi e gli oppressori. Dobbiamo sorbirci il teatrino della celebrazione delle vittime delle foibe, in cui cameratini di casapound, protetti dai loro amici della polizia, provano a riabilitarsi e uscire dalle fogne in cui la storia gli aveva confinati. Ancor più abietto (e perdente) è l’utilizzo strumentale, da parte della sinistra, di un antifascismo da salotto, tenuto buono come spauracchio contro i sovranisti brutti e cattivi e da sbandierare in campagna elettorale o durante le commemorazioni istituzionali.

Questo avviene perché la memoria della Resistenza e degli ideali che animavano partigiane e partigiani fanno ancora paura ai padroni e ai governanti. La potenza del popolo insorto, costruita con pazienza, tenacia e tempismo storico, che si libera degli oppressori va ricordata e studiata. Ma non per celebrarla come un feticcio museale, ma per decidere da che parte stare, per essere ogni giorno partigiani. Per vivificarla come vivi sono i legami, le emozioni, i rapporti nelle lotte di resistenza. 

E quindi viva la Resistenza e viva i partigiani e le partigiane. Che ci liberi quello stesso vento dai fascisti e dai liberali che gli fanno da portieri. Dai servi e dai padroni. Che liberi la vita.

Ora e sempre.

 

CURinQuarantena#3 – Colpevoli Ovunque

…Riflessioni di un compagno su covid e vicinato…

 

20 Marzo 2020

Allora, vediamo di mettere in ordine le idee finchè c’ ho ancora il crimine addosso. Dunque…

Vivo in un remoto paesino di montagna della Val Belluna, per capirsi una di quelle gemme incastonate nel verde delle Prealpi, dove ogni vecchia casa è accostata ad un fienile, i rumori del bosco ti accompagnano prima di coricarti e il cemento ancora non strangola il sole. Per capirsi, uno di quegli abitati che mezzo secolo fa contava 200 persone e ora non arriva a 50, dove i campi di granturco lasciano pian piano spazio ai vigneti tossici, che qualche magnate trevisano del prosecco decide di piantare e farcire di pesticidi, comprando la terra di qualche vecchietto mezzo morto. Il classico frutto dello spopolamento della montagna: a fare il contadino ti spacchi la schiena “par do schei” e quindi vai a lavorare in fabbrica (giustamente). Il comune tagli i fondi al trasporto pubblico, le botteghe e le osterie chiudono, vivere quassù diventa scomodo e il paese inizia a dissanguarsi.                                                                                        Fra le vecchie case nel bel mezzo de paese, ve n’è una in particolare, ormai mezza in rovina, che attirava spesso la mia attenzione di bambino. Sulla canna fumaria infatti vi è incisa una scritta, ripassata a caratteri rossi nella malta, che recita: “1855 anno del colera”. Emblematico.                                                                                                     Da qualche giorno infine, a turbare la tranquillità amena del caseggiato, sono le sirene e gli alto-parlanti della polizia locale, ad echeggiare fra le viuzze intimando alla gente di rimanere in casa.

Tutto questo preambolo sostanzialmente non serve a un cazzo al fine del discorso. Era solo per dire che mi piace il posto dove vivo e ora che la quarantena mi stringe in casa ho molto più tempo per apprezzarlo. Andiamo avanti…

A differenza dell’annoiato e bolso poltronaro che è il sottoscritto, i genitori si discostano nettamente dalla suddetta prole, la gente lì definirebbe “dei tipi sportivi”, cioè che vanno a correre e in bicicletta un tot di volte a settimana: è il loro modo di mantenere l’equilibrio psicofisico.

Arrivando al dunque: col coronavirus a seminare il panico, nell’ultima settimana abbiamo assistito ad una sempre maggior insistenza, nei discorsi dei politicanti/esperti/opinionisti vari, nell’invitare la gente ad evitare il più possibile i contatti ravvicinati fra le persone, sacrosanto visto la pericolosità della patologia e la precarietà del sistema sanitario in questi giorni.

Nel senso che se incontri una persona malata (untore) e questa ti passa il virus e poi tu lo passi a tua volta è un casino, quindi meglio evitare di accalcarsi alle porte dei supermercati. Ossia che perché il virus si diffonda questo deve passare da una persona all’altra e per farlo devono esserci più soggetti a distanza ridotta. Nel senso che la diffusione dell’epidemia di per sé non c’entra un cazzo con lo #stareacasa, ma con gli atteggiamenti (ir)responsabili che i singoli mettono in atto, cioè l’accalcarsi alle porte del supermercato e il frequentare ambienti ristretti. Vabè sta di fatto che la gente è scema, quindi è normale che lo Stato cerchi di dare un messaggio semplice, chiaro e difficilmente fraintendibile, optando per la riduzione del danno, insomma #staiacasa.

E fin qui mi sta bene, il problema tuttavia inizia a presentarsi quando l’hashtag di cui sopra, inizia ad essere assunto come dogma, senza passare per il buonsenso, appiattendo la molteplicità delle situazioni al rigore univoco dell’ordinanza. Detto in parole povere: non importa a nessuno che tu stia andando a correre in piena campagna dove non incontrerai anima viva, resti comunque un trasgressore che mette a repentaglio la vita di tutti, DEVI STARE A CASA, anche se il precedente ragionamento manca di un filo logico.E vabè di leggi assurde ce ne sono tante, la novità che emerge con forza è un’altra: ossia che il giudizio delle trasgressioni, che formalmente è delegato alle autorità giudiziarie e alle forze dell’ordine, viene collettivizzato per diventare un giudizio diffuso, poichè la tua azione mette a rischio l’intera comunità. Chi fa jogging viene criminalizzato (da tutti) solo per il fatto di uscire di casa, non importa che eviti i luoghi affollati o utilizzi dei DPI.

Cioè che la colpa della catastrofe è di chi va a correre, non di chi ha tagliato i fondi alla sanità pubblica, esternalizzato a privati i servizi essenziai, ridotto i posti letto negli ospedali e ora continua a mandare la gente a lavorare nonostante il pericolo contagi: tipo mio padre che salda in fabbrica 8 ore al giorno, incazzato agro col mondo, che torna a casa, per sfogarsi va a fare un giro in bicicletta e gli fanno pure la multa.

 

Con queste parole non intendo assolutamente minimizzare la gravità della situazione o negare l’importanza dello “stare a casa” come metodo di contenimento dell’epidemia: di sicuro non andrei a trovare mia nonna dopo aver leccato tutte le maniglie dello Spallanzani (semi-cit). Come di sicuro non è mia intenzione sminuire il dolore di chi in questo momento sta soffrendo. Quello che vorrei invece mettere in luce è l’effetto che questo clima di tensione inizia a produrre negli individui.

 

Insomma: la mia vicina di casa ha fatto un post su Facebook, delirante, in cui condivideva la sua personale gioia nel vedere denunciati i trasgressori delle ordinanze restrittive e con un tono fra il sognante e il maligno si augurava di poter denunciare (delazione) lei stessa alle autorità coloro che “vanno a correre in beffa ai decreti e all’interesse di tutti”.

Peccato il post sia stato cancellato prima che io potessi screenshottarlo

In seguito a questo episodio ho pensato 3 cose:

  • Che è meglio che i miei non si facciano più vedere in short e scarpe da ginnastica
  • Che la mia vicina sta fuori
  • Che il coronavirus è risultato essere un mezzo di orizzontalizzazione del conflitto, ancor più efficace del razzismo diffuso.

Non basta il fatto che la forzatura del covid abbia portato lo Stato a munirsi di dispositivi di controllo (sociale) sempre più invasivi (ad esempio il monitoraggio degli spostamenti attraverso il GPS dei cellulari), il clima di tensione è ben completato dagli sguardi e dai sospetti delle persone che ti stanno intorno. In mezzo a tutto sto casino, a coloro che attribuiscono alcune delle colpe della situazione attuale ai potenti e ai politicanti (verticalizzando il conflitto), viene risposto, nel migliore dei casi, che ora non è il momento di creare divisioni inutili, poiché adesso è il momento di stringersi tutti assieme attorno al Tricolore e affrontare la tempesta. Da una parte quindi vi è la riconciliazione con lo Stato, dall’altra l’individuazione del nemico interno. La colpa viene addossata a coloro che escono di casa, solo per il fatto di farlo e non per l’effettiva possibilità che le loro azioni costituiscano un pericolo effettivo.

In questo modo il conflitto esplode in orizzontale -tutti contro tutti- e con maggiore intensità rispetto ad altre modalità di esplosione come quelle che caratterizzano le dinamiche razziste e xenofobe.

E così, fra un inno nazionale e l’altro, la situazione nelle fabbriche e nelle carceri passa in sordina. Da qua a due settimane son morte quasi 15 persone nelle galere, morte nel senso di ammazzate a suon di manganello e poi imbottite di barbiturici per mascherarne l’uccisione, son tante e non se ne parla già più. Confindustria continua a mandare la gente in fabbrica anche in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna che sono le regioni più colpite dal covid. Un sacco di lavoratori a chiamata hanno già perso un posto di lavoro che probabilmente non riotterranno. Gli affitti van pagati, ma il danaro scarseggia.

Il problema non è più sapere se sia effettivamente più pericoloso lavorare mezza giornata in mezzo a 200 persone o andare a correre al parco da soli, ma il fatto che porsi tale domanda sia considerato inutile o non pertinente, poiché tutto viene appiattito all’osservanza del decreto restrittivo. La legge è la legge.

Mi chiedo cosa accadrebbe se questa impostazione venisse mantenuta anche ad emergenza finita, quando dovremo tutti lavorare come le bestie per far ripartire l’Italia e guai a chi fiata pretendendo di andar in pensione a 67 anni. Staremo ancora a cantare l’inno nazionale mentre assembliamo occhiali, con ritmi più incalzanti e stipendi più bassi? Chi giudicherà il nostro approccio al lavoro, il padrone o sarà collettivizzato fra i colleghi? Ce la prenderemo (ancora) fra di noi o pretenderemo gli scalpi di chi negli ultimi 30 anni ha macellato il corpo sociale?

Mi chiedo se quando torneremo alla nostra quotidianità ritorneremo anche alla “normalità”, o presenteremo delle riserve nell’ approcciarci ad altri per paura che possano “attaccarci qualcosa”. Chissà se questo periodo di quarantena in cui, per forza di cose, siamo ripiegati su noi stessi ad una dimensione individuale, (chi più chi meno) avrà dei risvolti sui nostri comportamenti futuri. Ultimamente capita di sentire molte riflessioni, legate al coronavirus, sull’idea di morte nella società occidentale e sulla nostra visione antropocentrica, chissà se a virus debellato avremo un rapporto più sereno con la morte o ci spaventerà ancora di più?

 

Forse dovremmo prestare attenzione anche alla lettura di questi aspetti: più interiori (un po’ alla libro cuore se vogliamo), ma che potrebbero restituirci un mondo diverso da come l’abbiamo conosciuto prima che la porta di casa scivolasse alle nostre spalle.

Se già ci viene raccomandato di prepararci ad un periodo di recessione, ai fini della comprensione di tale periodo, sarebbe bene ricordare che la crisi non è mai solo economica, ma anche esistenziale e metafisica.  E a chi nella crisi si muove, sta il compito di darne un’interpretazione, tale per cui, quando calerà la mannaia delle conseguenze, questa non ricada sui soliti sfigati, ma sulle teste di coloro che se lo meritano.

(foto -fatta col telefono- della scritta a cui accennavo… lo so no se capis gnint!)

CURinQuarantena#1 – l’irruzione del virus nella storia

 

…riflessioni di un compagno a partire dal covid 19…

L’Irruzione del Virus nella Storia

“I Virus sono briganti proteiformi, organismi capaci di cambiare il mondo

– Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri

 “In un istante le si rivelò nella sua completezza la portata del suo stesso inganno,

 e si domandò atterrita come avesse potuto incubare per tanto tempo

 e con tanta sevizia una simile chimera nel cuore.”

– Gabriel Garcia Marquez, Amore ai Tempi del Colera

La biologa e filosofa Donna Haraway, per descrivere il nostro tempo, ha coniato il termine Chthulucene in opposizione ai soffocanti discorsi antropocentrici dell’Antropocene. Se è vero che l’impatto dell’uomo sulla terra è così devastante da essere pari ad una forza biologica, queste narrazioni riproducono la centralità dell’uomo nel nostro modo di pensare il mondo.  Il Chthulucene invece, è fatto di storie multispecie, in un continuo divenire, quando il cielo non è ancora caduto ed il mondo non è ancora finito. In una temporalità aperta, nella sua precarietà dove gli esseri umani, nonostante ci piace crederlo, non sono gli unici attori rilevanti. Fino a qualche settimana fa avremmo potuto considerare questo distinguo come una sottigliezza in confronto all’apocalisse climatica e alla potenza dell’homo come deus e boia del mondo.  La produzione discorsiva sulla natura come alterità è radicata nella storia del colonialismo, razzismo, sessismo e dominazione di classe di diversi tipi. Esso è alla base dell’episteme moderno che costituisce l’umano come essere allotropico che, accecato dalla luce e dal calore del ritmo produttivo delle macchine, si pone al di fuori della storia e utilizza la natura come misura della propria civiltà. La osserva come fosse il riflesso deformato di sé stesso. La manifestazione più evidente, nella sua drammaticità, è nella storia colonialismo ed il suo farsi biologico tramite la razza. Ma lo stesso ragionamento, nel suo rovescio, lo si trova nell’ambientalismo contemporaneo, nell’idea che dell’umano che deve salvare la natura, come se esso non ne facesse parte. Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende: e se invece che in guerra con il virus, esso fosse l’alleato?

L’inaspettato avvento di Covid-19 nelle trame della storia ci spoglia del privilegio di considerare l’homo sapiens potenza geologica indiscussa, rivelando, nel chiuso delle case, la nostra fragilità. Ci ricorda che siamo mortali, indipendentemente dalla quantità di farmaci e integratori che ingurgitiamo quotidianamente.

Ma sono i sistemi che all’interno dell’inganno, mostrano il fianco alla ferita mortale.

Il Covid-19 non è un caso o una punizione divina. Negli equilibri di un mondo sempre più precario, il virus si pone come antagonista del tardo capitalismo. La pressione di un modello di sviluppo insostenibile sul sistema pianeta genera delle reazioni in direzione opposta. Lo dimostrano i numeri sull’aumento degli spillover (o salti di specie) negli ultimi anni. SARS, Mers, Ebola e Covid-19, quattro nuovi antagonisti in meno di vent’anni. Come spiega una ricerca pubblicata sulla rivista Nature[1], le cause dell’aumento di salti di specie da animale non-umano a umano è da rintracciare nel cambiamento climatico e nel mutamento degli ambienti generato dell’uomo. Deforestazione, urbanizzazione e allevamenti intensivi in primo luogo. Tuttavia, i salti di specie non si possono fermare. Anche se si iniziasse da domani ad attuare strategie massicce di riforestazione, decostruendo e ricostruendo il nostro spazio antropico, i contatti tra le specie aumenterebbero lo stesso[2]. Centinaia di virus alla ricerca di nuovi serbatoi, per proseguire la secolare guerra che ci ha preceduto e ci succederà.

Nell’impossibilità, e mancanza di volontà, di affrontare l’altro che irrompe nella storia con la sua cieca avanzata, privo di considerazione per le nostre costruzioni culturali e sociali, di vita, di morte, di economia; il virus ci mostra e ci racconta nell’immagine del suo negativo: il corpo del mostro sociale infetto.

Il dramma del virus nel discorso egemone è nella negazione della potenza altra, il non accettare l’antagonista. Esso viene negato come altro vivente, e ridotto ad un attributo dell’umano. Non si parla dell’eterna guerra tra virus e animali, ci dicono che siamo in guerra con – e tra – umani in quanto possessori del virus. Una guerra civile. Da qui il panico, terrore, la paura, per quell’agente infiltrato, invisibile, pronto a radicalizzarsi, moltiplicarsi ed esplodere.

Non possiamo o non vogliamo accettare l’alterità, abbiamo bisogno di trasfigurarla in vesti umane: l’untore, immagine riesumata dal medioevo per nutrire l’ampia rassegna delle punizioni per chi infrange i divieti anti-contagio. Dodici anni di carcere per concorso in epidemia. Peccato solo che le nostre gabbie siano troppo larghe per rinchiuderci anche gli organismi acellulari.

Pronti alla guerra ma non all’accettazione del virus in quanto tale: un brigante proteiforme che fugge da serbatoio a serbatoio, pronto per lo sfruttamento di cellule espropriate necessarie per la sua avanzata sui corpi come forza (ri)produttiva.

Dobbiamo difendere la Società!

La reazione dell’olobionte organico è istintiva. Lockdown. Almeno per quello che raccontano. Il vero lockdown rappresenterebbe il collasso reale del sistema, come bloccare il flusso del sangue che gli permette la vita. L’unica via sarebbe l’amputazione di una delle sue parti, isolare, distinguere calcolare, riappropriarsi della possibilità di scegliere chi vive, e chi lasciar morire. Tenere in movimento solo le cellule che ne possano garantire la tenuta: le grandi industrie, la logistica, l’informazione. E mentre Confindustria continua a premere per tenere aperte le aziende, mentre gli anticorpi medici vengo usati come carne nuda ad arrangiarsi nel lazzaretto del sistema sanitario neoliberista, la narrazione sugli eroi e i cavalieri che tengono in vita il corpo-stato risuona come l’inno nazionale sulla via di Caporetto. Si canta, ma con il fucile puntato sulla schiena. Mentre il virus permea nell’epidermide della bestia, esso, impaurito continua a chiudere i confini, in una mischia selvaggia in cui, adesso, non si sa più chi lascia fuori chi e chi rimane chiuso in cosa. La lotta non è tra uomo e virus ma tra due sistemi.  E se un sistema sfrutta e si appropria di corpi per riprodursi, l’altro lo attacca, rivoltando al contrario la stessa strategia, ma sfruttando la sua debolezza: bisogna salvare la società, ad ogni costo. Per questo il virus fa paura, perché è la cospirazione che esplode all’interno del sistema.

Perché in fondo vorremmo essere il nemico, il virus. Vorremmo cambiare così velocemente la nostra corporalità, considerata intrinsecamente e cronicamente malata. Vorremmo non essere così attaccati all’esistenza anche quando rischia di diventare la completa negazione di essa. Rinchiudersi, salvarsi, cercare gli untori. Appena svegli, sentiamo il bisogno di usare compulsivamente il termometro, vedere i bollettini di contagiati, morti, guariti, persi nell’’ansiogena arte del calcolare, misurare, controllare. Accendere il computer: lavarsi le mani cantando due volte happy birthday. MERRY CRISIS AND HAPPY NEW FEAR.

Perché il virus si propaga a causa delle condizioni di vita che ci sono state imposte. Vivere ammassati in megalopoli senza cielo, in città-assemblaggio frammentate, settorializzate a seconda dell’idea di vita che dovrebbero condurre chi le abita. Dai centri storici, ai centri commerciali, dalle industrie ai deserti di cemento delle periferie. Un organismo decomposto, ma connesso a velocità impossibili i cui ritmi adesso si rivoltano contro. Le infrastrutture, che con la loro velocità prima erano il simbolo del potere, adesso sono i veicoli di accelerazione di contagi che prima impossibili. Treni, aerei, metropolitane, supermercati e centri commerciali. Persino l’ospedale, nella sua configurazione moderna come istituzione totale, non può che essere cassa di risonanza per il contagio[3].

Ma non c’è nessun nuovo attacco, nessuna guerra che non era già in corso. Quanti e quante erano soggett* al ricatto di scegliere tra vita e lavoro, quanti e quante frequentavano un’università che offriva nulla se non esami e lezioni. Quanti e quante vivono per strada ed erano già sottopost* a provvedimenti repressivi criminali. Quante strade e piazze erano già vuote per la guerra contro il degrado, quanti e quante cercavano il nemico, se prima nell’immigrato, ora nel vicino di casa che fa jogging. Quanti e quante erano chius* in casa con la sensazione di non riuscire a respirare. La guerra contro la socialità, la vivibilità delle città, il diritto all’abitare, case e spazi che ci appartengono, era in corso da tempo. Il virus rende visibile ciò che prima, ai più, era nascosto. E la nostra guerra era e sarà il disgusto per le vite che vogliono farci vivere. E la combatteremo mostrando con orgoglio le ferite che lascia il passaggio dello stato di emergenza.

Del resto, l’esercizio del potere moderno è caratterizzato dalla rottura dei confini tra ciò che è biologico e ciò che è politico. Il biopotere si nutre del conatus, il vivere ad ogni costo, ottimizzando, misurando ed economicizzando la vita. D’altronde, si dirà, come si piò visualizzare amichevolmente la morte? “La battaglia non è l’unica via per indicare il processo della vita mortale”, dice Haraway, “le persone che affrontano le conseguenze, spesso mortali, del virus HiV, hanno ribadito che loro vivono con l’AIDS, piuttosto che accettare lo statuto di vittime, o di progionier* di guerra”[4]. È l’idea militaristica dell’infezione che apre gli scenari più inquietanti. E la sua decostruzione la via d’uscita.

Il primo scenario è la gestione dell’emergenza, e delle emergenze che verranno, all’interno dello stesso paradigma: controllo e militarizzazione. D’altra parte, la gestione dell’epidemia da parte dei paesi ultraliberali (UK in primis) è quella di non bloccare la macchina produttiva, con Boris Johnson che parla “di prepararsi a perdere i propri cari” espellendo già da adesso quei “cari” del corpo dell’organismo sociale. Donald Trump prova ad acquistare il brevetto di un vaccino di un’azienda tedesca chiedendo l’esclusiva per gli USA. Le meraviglie del capitalismo.

E le misure di lockdown di altri paesi, come l’Italia, per quanto potranno protrarsi nel tempo?

L’azienda DiaSorin, qualche settimana fa, ha brevettato un test diagnostico per il coronavirus che restituisce gli esiti in un’ora. E se per molti può apparire come uno strumento per salvaguardare la salute della popolazione, esso rischia di essere un nuovo strumento del (bio)potere. Come sostiene Michael Foucault in storia della sessualità, nella modernità il diritto sovrano di uccidere non poteva essere mantenuto se non minimizzando i crimini in sé e amplificando la mostruosità dei criminali: “uno ha il diritto di uccidere chi rappresenta un tipo di pericolo biologico per gli altri” (p.138). È in “nome della cura che avvengono i più grandi massacri”. Muoversi tra gli interstizi lasciati vuoti da stato e mercato sarà l’unica via possibile per fuggire da un leviatano sempre più aggressivo.

Il secondo scenario che si affaccia sugli orizzonti delle nostre finestre di quarantena è quella rizomatica espressa da Deleuze e Guattari in mille piani: l’involuzione. Essa non va confusa con la regressione, ma è una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei. L’involuzione è creatrice, non procreatrice: se regredire è andare verso il meno differenziato, involvere è formare un blocco che segue la propria linea, che diviene-altro seguendo le linee più astratte e tortuose di varie dimensioni e direzioni spezzate. Divenire rizoma significa annullare i confini tra natura e culture, abbandonare il verticalismo gerarchico delle strutture di pensiero occidentale in favore di un’orizzontalità libera, da esplorare in tutte le dimensioni possibili, senza preclusioni. Significa rivedere in maniera radicale il come viviamo, gli spazi in cui viviamo creando alleanze meticce e simbiosi transpecie. Seguendo non la nostra linea, ma la propria linea, quella di tutt*. Iniziare a vedere la natura come topos, un luogo, uno spazio in cui si condensano temi condivisi. Creare autonomia, tessere nuovi rapporti partendo dalla ricostruzione di comunità sulle necessità. Creare orti e mercati di quartiere, socializzare le tecniche, un patrimonio condiviso che troppo spesso è stato silenziato. Rompere le relazioni basate sull’estrattivismo, ricreare lo spazio urbano come spazio “improduttivo”, riappropriandosi di quelle conoscenze legate ai luoghi. E ripartire da lì.

La natura è, strettamente, un luogo comune[5].

R.D.

[1] https://www.nature.com/articles/nature06536

 

[2] https://www.iltascabile.com/scienze/spillover-coronavirus/

[3] https://www.fanpage.it/attualita/coronavirus-lallarme-di-ilaria-capua-in-lombardia-sta-succedendo-qualcosa-che-non-si-spiega/

[4] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri, p.24

[5] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri