Ecologia in Università – presentazione ciclo d’incontri

Negli ultimi anni l’ecologismo è tornato ad essere uno dei temi politici più rilevanti e attuali.

Il Climate Strike dell’ottobre 2019, dove milioni di persone sono scese in piazza in centinaia di paesi per chiedere giustizia climatica (qui il nostro contributo alla giornata) , può essere considerata come un punto politico di svolta. Quel giorno durante la più grande manifestazione globale di sempre, giovani e non hanno dimostrato di fare sul serio. La lotta ecologica non più essere letta dietro le lenti dell’opposizione tra bisogni materialisti e post materialisti, il disastro è qui con noi, nella sua spietata concretezza, iscritto nella materialità dell’esistente.

Tuttavia quello sciopero riproduttivo ha chiarito un altro punto: la lotta ecologista non solo è e sarà inevitabilmente presente ed intersecata con tutte le lotte – anticapitaliste, antimilitariste, femministe, antirazziste, sul diritto alla città e così via – ma non è più delegabile.

Mezzo secolo di accordi, protocolli, conferenze internazionali non sono serviti a niente. Tutti i governi si sono rivelati per quello che sono: il comitato di interessi di chi ha messo a profitto il mondo. Tutti i governi hanno represso nel sangue le sollevazioni per fermare lo sterminio. Dal G8 di Genova, alla Val Susa; dalla foresta Hamby in Germania alla Patagonia Mapuche, centinaia di attivist* ecologist*, indigen*, anticapitalist* uccis*, incarcerat*, perseguit* dagli stati, che intanto continuano a dare il placet per la devastazione riempiendosi la bocca di greenwashing.

I cambiamenti ambientali, climatici e non, dovuti all’impatto insostenibile del capitalismo estrattivista, e del suo principale artificio – l’umano – non possono essere più ignorati. Semplificando potremmo immaginare questo prodotto declinato nella sua forma storicamente più distruttiva: il maschio bianco ricco colonizzatore.
Il venir meno di questo pilastro ha portato l’umano – maschio bianco ricco colonizzatore – nella situazione storicamente vissuta dai non-bianchi, non-maschi, poveri, non-umani, colonizzati, di chi l’apocalisse, la distruzione di mondi, lo sterminio e l’ecocidio l’ha vissuto più volte e continua a viverlo quotidianamente.

Negli anni ’70, quando il club di Roma presentato il report sui limiti dello sviluppo, è venuta meno l’ideologia capitalista dello sviluppo senza limiti. Allo stesso tempo è stato dato ufficialmente all’occidente il campanello d’allarme su ciò che sta accadendo, che ha fatto ingresso nel sociale un nuovo orizzonte del possibile: l’estinzione. Questo ha principalmente due conseguenze di enorme portata. Il primo è che la crisi ecologica è di portata sistemica. Il venir meno di un modello di crescita economica costante, di una crescita di popolazione costante, di un dominio sempre più molecolare del mondo umano e non ha messo in luce come non mai l’incompatibilità del capitalismo con la vita. Tuttavia il se il novecento ci ha insegnato qualcosa è che annunciare la crisi del capitalismo non significa la sua superazione. Il capitale si ripiega sulle sue contraddizioni, le incorpora creando nuovi strumenti di dominio. Come sottolineano Wainwright e Mann in Leviatano Climatico*, il dispositivo emergenziale del cambiamento climatico può diventare un dispositivo di potere e controllo. La crisi climatica è quindi un terreno di conflitto politico: la degenerata tendenza del capitalismo al fascismo, contro l’autonomia, l’autogestione, la cura.

Il secondo è che l’estinzione, l’apocalisse, la crisi sono concetti incorporati in tutte le generazioni nate dopo gli anni 90’. È il nostro hummus esistenziale, sia per il sapere di non avere il benessere di chi ci ha preceduto, che per la consapevolezza dei disastri che verranno, cui il Covid 19 è una manifestazione. Tuttavia, come scritto in un libro francese: “non c’è una «crisi» da cui bisognerebbe uscire. C’è una guerra che bisogna vincere”. L’apocalisse è in corso, c’è già stata. Agisce continuamente distruggendo le sincronie, i ritmi dei viventi e non che abitano questo mondo. Anche i nostri. Trovare un linguaggio politico capace di andare oltre l’orizzonte dell’apocalisse è la sfida che dobbiamo cogliere.

Il nostro tempo ha causato quella che molti hanno definito una crisi epistemica. Le categorie del pensiero occidentale, le scienze formatesi dopo l’illuminismo, frutto dell’imperialismo bianco, sono attraversate da una tensione implosiva. Da un lato è attraversato da spinte conservatrici: il riduzionismo biologista, l’eugenetica molecolare, le politiche conservazioniste ed i progetti di eco-ingegneria e de-estinzione. Dall’altro da una spinta critica conseguenza dell’impossibilità di leggere il mondo attuale con le categorie preesistenti: le opposizioni tra natura e cultura, umano e non umano, civile e selvaggio, materiale e immateriale, vita e non vita. In questa crisi si apre lo spazio per un nuovo pensiero, per delle nuove forme di conoscenza da costruire. La conoscenza è un terreno di lotta.

La pandemia che stiamo vivendo ormai viene letta dai più come una sindemia. Il concetto di sindemia tiene in considerazione non solo la malattia (in senso medico ed epidemologico), ma le sue interrelazioni con condizioni ambientali e socioeconomiche. Il virus si propaga per le condizioni di vita che alcuni (volutamente al maschile) hanno imposto al mondo. Il virus sars-2 ci porta ad interrogarci sul diritto alla città, su un modo di vivere migliore, sostenibile, oltre l’opposizione tra urbano e rurale. È possibile creare una lotta per diritto alla vita oltre il diktat “produci-consuma-crepa” delle politiche adottate per il suo contenimento? La vita e le sue condizioni sono un terreno di lotta.

La crisi ecologica ci deve portare a riallacciare i legami con i territori che co-abitiamo. A intrecciare e condividere le lotte con soggetti umani e non. L’esempio delle lotte contro le grandi opere degli ultimi decenni, dalla lotta contro l’estrazione del carbone della foresta Hamby, alla lotta NOTAV, alla lotta contro il gasdotto Tap fino alle battaglie indigene che attraversano i continenti, ci insegnano a trovare una nuova comprensione del fare politica legata alla materialità che vada oltre i bisogni umani, ma che investe i bisogni dei territori, i boschi, le montagne, i mari e di chi li abita. Non volgiamo difendere la natura, siamo la natura che si difende.

In questo scenario di devastazione diffusa, di profonda crisi strutturale degli ecosistemi, di un nulla che avanza e che si profila sempre più come condizione esistenziale delle soggettività che saranno portate a con-vivere e con-morire sul nostro pianeta ci si impone un interrogativo: quale mondo stiamo cercando di salvare e quale mondo vogliamo veder tramontare? Non siamo dispost* a lottare per mantenere lo status quo di un pianeta profondamente ingiusto, costruito sulla cannibalizzazione dell’esistente e sul dominio interno ed esterno alla società. Come recita uno slogan divenuto ormai famoso, “siamo tutt* nella stessa tempesta, non siamo tutt* sulla stessa barca”. Facendo nostra la lezione del “Manifesto Antifuturista Indigeno”, sappiamo che questa Apocalissi climatica, prima di diventare irreversibile, metterà fine non al pianeta in sé ma a un mondo, lasciando un breve spiraglio di tempo in cui potremo provare a ricrearne uno diverso, collaborando alla costruzione di nicchie ecologiche e simbiontiche in grado di passare attraverso il Capitalocene nel modo meno disastroso possibile. Ogni distruzione comporta sempre la possibilità creativa e rivoluzionaria di imporre un nuovo paradigma. Come le piante pirofile, che fioriscono e germogliano solo dopo aver bruciato, intendiamo prepararci ad attraversare l’abisso per poter ricostruire sulle ceneri di questo pianeta.

Per riuscire in questa impresa, riprendendo la domanda che un rivoluzionario si fece oltre un secolo fa: che fare?
Come sottrarci dal potere e dai suoi dispositivi, come interrompere la mercificazione del mondo, come creare un’autonomia delle interrelazioni ecologiche che abitano il mondo?

Per iniziare a rispondere a queste domande, vi invitiamo al ciclo di autoformazioni “Ecologie in Università”, dove per tutto il mese di novembre ne parleremo con attivist*, ricercatrici e ricercatori. In questo ciclo di incontri vorremo iniziare a parlarne insieme di queste tematiche, provando a creare narrazioni oltre sia l’idea soffocante dell’apocalisse che quella suprematista, imperialista e occidento-centrica dell’Antropocene.

Per rimanere aggiornato segui la pagina Facebook Ecologie in Università (https://www.facebook.com/EcoInUni/photos/a.120734869807994/126599915888156)

 

* Climate Leviathan: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1467-8330.2012.01018.x?casa_token=AbVrGuU8hoYAAAAA%3A0rPxmmNUBbScm5HlnInYu6KpNahfS9NplmPLqzvD9ANV068_OOxTMYN7dLzRGY4txDBXS2C9KULVeAEH

Dalla padella alla brace: nuovo studentato alle Albere.

L’articolo a seguire da considerarsi come la continuazione di un lavoro di inchiesta effettuato nel 2017 [1]. Senza aver letto il primo, la comprensione del secondo è incompleta. Per cui scivoleremo velocemente su alcune questioni (al cui approfondimento rimandiamo all’articolo del 2017) per rallentare e soffermarci su altre. Infine cercheremo di delineare delle linee di ragionamento e dei possibili sviluppi futuri che il tramaccio Albere potrebbe assumere.

Tutti i link ai vari materiali sono in fondo all’articolo.

Buona lettura.

Come a Mordor dopo anni di calma piatta, qualcosa torna a farsi udire dalle Albere. Rumori e presagi risuonano fra i placidi specchi d’acqua che dimidiano le vie del (non) quartiere. No, non è il mormorio del cadavere di Renzo Piano, ma il fruscio del danaro contante.

Sono passati 7 anni dall’inaugurazione flop dell’ottobre 2013 e sembra che le cose inizino a muoversi. La situazione di base è questa:

-esercizi commerciali/uffici:    venduti 46/50

-appartamenti:                        venduti 180/300

NB: venduto non vuol dire che dentro ci viva qualcuno, o che qualcuno paghi l’affitto di quell’appartamento, ma solo che il lotto non è più di proprietà del fondo Clesio[2].

 

Guardando ai dati la situazione sembra veramente nera: se in 7 anni le agenzie immobiliari che si occupavano del quartiere sono state in grado di avanzare 120 abitativi invenduti, vuol dire che qualcosa non va.

E infatti le Albere partiva già dalla nascita come un quartiere mal pensato per la città di Trento. Se l’idea di costruire la via degli affari poteva funzionare -e infatti sia ITAS[3] che ISA [4], due fra le principali finanziatrici del fondo costruttore del quartiere, hanno stabilito le loro sedi alle Albere- questa era incompatibile con la l’apertura di una zona di pregio per l’abitativo. Di fatto l’esigenza di un quartiere residenziale esclusivo non è mai stata avvertita dai trentini ricchi, i quali hanno sempre preferito costruirsi casa nelle colline che circondano la città piuttosto che in centro (ora il mercato immobiliare in collina sembra essersi saturato e questo potrebbe portare a dei risvolti interessanti per quanto riguarda la ricerca di una zona residenziale alternativa).

Insomma: vengono costruiti 300 appartamenti di lusso in una città in cui i pochi a poterseli permettere preferiscono vivere da un’altra parte, per di più in un quartiere pensato più per aggregare sedi di banche e agenzie di investimenti che forme di vita. Il fatto che ci sia il parco dove giocare a frisbee d’estate non basta a far tornare i conti.

A prova di questo, nel 2014 vi è il cambio di progetto effettuato nei confronti del (inutile) Centro Congressi, divenuto Biblioteca Universitaria Centrale, per cercare di tamponare le perdite di un quartiere pensato male e privo di veri servizi. Tutto, ovviamente, gentilmente offerto con i soldi di noi studenti.

Ora che abbiamo inquadrato la situazione passiamo agli aggiornamenti…

 

Qualche settimana fa il Fondo Immobiliare Clesio (partecipato da Isa, Fondazione Caritro, Dolomiti Energia, Itas e da altri soci con quote minori), proprietario del quartiere Le Albere, ha approvato il nuovo piano per il quinquiennio 2020-2025, in cui vengono stabilite la proroga del fondo stesso e un accordo con le banche creditrici per ridiscutere l’esposizione debitoria (totale dei debiti di un’azienda) che ammonta a circa 150 milioni di euro. L’accordo ruota intorno all’applicazione di sconti sulle future vendite di appartamenti. Lo stesso fondo Clesio, precedentemente gestito dalla società italiana Castello Sgr, è passato agli investitori americani della Oaktree Capital, un passaggio da non sottovalutare, in quanto si tratta del primo caso in cui un investitore d’oltreoceano decide di acquisire fondi immobiliari a Trento.

A questo proposito in una recente intervista [5] Francesco Danieli e Roberto Pedroncelli titolari di Ceda e Dolomiti Immobiliare, le due agenzie intitolate della vendità e dell’affitto degli immobili delle Albere, hanno dichiarato come siano in arrivo delle linee finanziarie pronte a coprire fino all’ 80% delle spese d’acquisto e degli sconti sulla vendita fino al 25% finanziate dal fondo Clesio: una vera e propria svendita immobiliare.

Insomma, la verità che trapela attraverso le dichiarazioni è più o meno questa: sono passati 7 anni e ci sono ancora 150 milioni di euro di debito, per cui si punta ad estinguere l’obbligazione il prima possibile. In particolare quello a cui si punta è la vendita in blocco di intere palazzine, in modo da accelerare i tempi e rendere il quartiere maggiormente appetibile anche ad una maggiore varietà di acquirenti rispetto a quella che ci si aspettava sette anni fa. Non importa più quindi la coerenza col progetto iniziale (che già di suo era catastrofico), ma la vendita disorganica e a tutti i costi degli immobili rimasti.

Abbiamo tentennato per 7 anni, ora le Albere si riempiono, punto. Questo è il messaggio che deve passare.

Difatti, sono sempre Danieli e Pedroncelli a comunicare l’arrivo di uno studentato privato in zona Albere; sorgerà adiacente alla BUC nel blocco “i”e sarà composto da ben 52 alloggi, appena consegnati alla società milanese DoveVivo (peraltro appartenente per il 5% ad ISA). Gli alloggi saranno destinati alla formula del co-living che -se ci riferiamo ad un’utenza universitaria- è sostanzialmente un modo smart per dire coinquilinanza e giustificare così canoni di locazione esorbitanti [6]. Infatti, come sottolineano Danieli e Pedroncelli, il costo in camera singola varierà fra i 430 e 450 euro al mese a seconda della metratura, ben superiore alla media cittadina. Dati i presupposti, DoveVivo si inserisce in perfetta continuità con la tendenza che la situazione abitativa ha preso in città.

Ora proviamo a conoscere chi abbia accettato la sfida di aprire uno studentato in un quartiere fantasma. DoveVivo è una società milanese nata nel 2007 che si occupa di co-living, capirne il funzionamento è un po’ complesso, ma in buona approssimazione svolge più o meno le stesse funzioni di un agenzia immobiliare, con un maggior orientamento all’affitto, spesso anche a breve termine.

È la società più grande in Europa per il co-living: ossia quella forma di condivisione di un’abitazione basata più sui servizi messi in comune che sulla necessità di dividere l’affitto per assicurarsi un tetto sopra la testa. Per semplificare il co-living punta ad accomunare sotto lo stesso tetto persone con le stesse esigenze (di vita, lavorative etc…) e personalizzare i servizi messi a disposizione dall’immobile su queste esigenze. La società tende a mettere sotto lo stesso tetto persone con un lavoro simile, con orari ed esigenze simili. Ad esempio: in una determinata casa la società inserisce solo persone che lavorano in smartworking e come servizio comune installa un wi-fi molto potente. Per studenti universitari non vi è quindi una differenza sostanziale fra co-living e le forme di coinquilinanza a cui siamo abituati, tranne -chiaramente- il costo a posto letto; una tendenza potrebbe semmai essere quella di accomunare studenti della stessa facoltà o dello stesso anno, ma apparte ciò cambia veramente poco.

In un’intervista di due settimane fa al giornale trentino Danieli commenta la scelta della consegna dei 52 alloggi a DoveVivo[5]:

Abbiamo appena consegnato 52 alloggi a DoveVivo. Ma attenzione alloggi per gli studenti, in una logica commerciale, non significa virare rispetto agli obiettivi di vendita; il progetto rientra nella costruzione di un quartiere di pregio che prevede anche spazi giovani. La scelta dello studentato è stata fatta più di un anno fa, poco dopo è stata affidata la gestione degli affitti a DoveVivo, società milanese già diffusa in otto città italiane. Ci sono già diverse prenotazioni e nel complesso 150-200 studenti circa potranno approfittare di questa opportunità”

Dalle parole di Danieli emergono 2 questioni abbastanza importanti da sottolineare: la prima è che gli alloggi universitari sono solo in consegna a DoveVivo e che all’occorrenza possono essere ritirati alla società per essere destinati alla vendita, la scelta dello studentato rappresenta quindi una semplice toppa al problema dell’invenduto. La seconda questione è che la scelta di cambiare look al quartiere per renderlo più appetibile agli investitori è stata effettuata relativamente di recente, ma esprime comunque una continuità per quanto riguarda la fascia sociale a cui le Albere si rivolgono: i ricchi e, ora, i loro rampolli.

DoveVivo conta 1500 appartamenti in varie città italiane, per lo più tratta con universitari fuorisede, i quali costituiscono una vera e propria miniera d’oro per le casse della società. Altro fattore da tenere in considerazione è che DoveVivo, a differenza di altri studentati privati (come il trentino Nest), gestisce le sue strutture in maniera molto più fluida rispetto all’affitto tradizionale, introducendo la possibilità di effettuare affitti brevi o soggiorni di poche notti, non a caso la società ha in previsione l’apertura di uno Student Hotel a Torino per il 2023 [6]. In queste tipologie di studentati è frequente, ad esempio, sospendere il contratto agli studenti durante i periodi di pausa dall’università, per affittare la casa ai turisti in visita alla città. Questo avviene nelle principali città d’Italia già da qualche anno, redendo gli studentati universitari degli hotel e contribuendo ad intensificare le dinamiche di gentrificazione e di innalzamento dei canoni di locazione complessivi di varie zone cittadine.

Per approfondimento su Student Hotel rimandiamo ad un interessante articolo, link in fondo alla pagina. dateci una letta, merita  [7].

Ora con i presupposti prima elencati, immaginiamo che non ci sia l’emergenza coronavirus a trattenere i fuorisede dal prendere casa a Trento. Sappiamo che il numero di studenti iscritti ad unitn previsto per il 2022 dovrebbe aggirarsi intorno ai 20.000, rispetto ai 18.000 attuali, quindi ci si aspettano 2000 studenti in più. Chiunque abbia un po’ di familiarità con la città conosce il dramma del dover trovare casa e del vivere il capoluogo tridentino: la vita costa tantissimo, le case per studenti scarseggiano e gli affitti costano sempre di più. Bene. Ora immaginiamo di mettere sulla piazza 150 posti letto a 430 euro, come in progetto alle Albere, in una città dove il costo degli affitti stava già inflazionando da qualche anno di per sé. Ebbene con i flussi di studenti previsti per il prossimo anno, studentati come quelli di DoveVivo non fanno altro che aggravare la situazione, contribuendo ad innalzare il costo complessivo degli affitti, vista l’elevata domanda e la scarsità dell’offerta immobiliare oggi disponibile.

I lavori per la costruzione dello studentato da 200 posti dell’Opera Universitaria (l’ente di untin per il diritto allo studio) nell’area ex Italcementi a Piedicastello sono appena iniziati, quindi prima di vedere tamponata l’emergenza affitti con la disponibilità di posti a prezzo calmierato, passerà molto tempo date le tempistiche pachidermiche che Università e Provincia sono solite presentare in queste situazioni.

Da questi passaggi emerge come a Trento inizi a prefigurarsi un effettivo scollamento fra università e gestione dei servizi rilasciati agli studenti dell’ateneo. Per spiegarsi meglio: se prima vi era solo l’Opera Universitaria o qualche altra appendice dell’ateneo a gestire palestre, sale prove, studentati, mense e sale studio, ora iniziano ad inserirsi anche dei soggetti privati a colmare i vuoti lasciati da provincia e ateneo (leggi: settore pubblico). Lo studentato alle Albere ne è l’esempio. Proviamo ad immaginare cosa accadrà per quanto riguarda i posti in aula studio con l’aumento di studenti previsto per i prossimi anni: le biblioteche del CLA, BUC, Lettere, Archeologica, Giuri sono già piene adesso. Con una situazione del genere l’apertura di sale studio private con abbonamento mensile potrebbe costituire una ghiotta opportunità per gli imprenditori della speculazione, per i compari sciacalli di DoveVivo e tutta quella schiera di società che lucrano sull’assenza di servizi forniti a studenti fuorisede e precari.

Quindi, vista la situazione affitti che ci si presenterà di fronte fra un anno e la crisi economica imminente dovuta al covid, vorremmo chiedere al caro rettore, alla provincia e agli alti papaveri dell’ateneo, perché invece che spendervi in discorsi strappa lacrime sulla difficoltà della situazione attuale e sulla vicinanza che sentite coi poveri studentelli quarantenati, non andate in comune o da chi di dovere e finalmente imponete una vera calmierazione per il prezzo degli affitti in modo da limitare i meccanismi di speculazione?

 

Torneremo sulla vicenda e ci faremo sentire

 

 

PER MAGGIORI INFO

[1] https://curtrento.noblogs.org/post/2017/11/06/conoscere-per-capire-dossier-sulle-albere/

[2] Il Fondo immobiliare Clesio è partecipato da Isa, Fondazione Caritro, Dolomiti Energia, Itas e da altri soci con quote minori

[3] Istituto Atesino di Sviluppo, facente parte della galassia di Intesa San Paolo, considerato il “braccio finanziario della curia trentina”.

[4] Istituto Trentino Alto-Adige per Assicurazioni, è una società mutua assicuratrice.

[5] https://www.giornaletrentino.it/economia/albere-basta-fake-news-oltre-met%C3%A0-%C3%A8-gi%C3%A0-venduta-1.2446240

[6] https://www.dovevivo.it/it/news_eventi/dicono_di_noi/dovevivo-portera-student-hotel-ex-manifattura-rosi/

[7] https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/07/student-hotel/

Ianeselli! Fatti uno champagnone!

Mercoledì 30 settembre, una di notte, 66cl nello zaino. Me ne vado sbronzo con una dozzina di comparx per le vie del centro. A na certa si decide di ammazzare la serata al bar dei giuristi: il Gatto Gordo. Ammazzare nel senso di ammazzare noi e le nostre finanze visti i prezzi slow food dell’alcool trentino, ma vabbè per una volta va così. Insomma, arriviamo in sto posto e manco farlo apposta ci si presenta in tutto il suo grottesco splendore la solita scena di vita trentina. In poche parole: ci sta sto vecchio residente – con due borse della spesa (perché?) – incazzato come no scorpione per il casino proveniente dalla via del Gatto Gordo, che sta per prendersi a stecche col barista del suddetto bar. E poi vabè solito cerchio di studenti sbronzi intorno a caldeggiare il massacro e a prendere per il culo sto tipo con le vene fuori dal collo. Vabè arrivan gli sbirri, la gente se ne va, il vecchio per poco non finisce in caserma e bon, tutti a dormire.

la scena soprastante è letteralmente esemplare di come a Trento non si riesca a trovare una quadra per quanto riguarda la socialità studentesca e l’abitare il centro città.

Giovedì 8 ottobre, il neo eletto sindaco Franco Ianeselli, fresco fresco di una campagna elettorale dove, fra imbarazzanti via crucis della sicurezza (vedi chiusura negozi etnici in piazza della Portela), leccate di culo a Renzi, e sermoni tanto sentimentali quanto vaghi sulla bellezza del vivere in una città aperta e giovane, firma un’ ordinanza in cui vieta la vendita di alcolici nella zona di piazza Santa Maria Maddalena (per gli under 60: la Scaletta).

Piatto ricco mi ci ficco, il buon questore piazza una decina di volanti -fisse in piazzetta e luci blu accese- a sorvegliare la zona (letteralmente più volanti che persone, vedi foto). Gestione dell’ordine pubblico in piena continuità con il presidio permanente in piazza della Portela di qualche mese fa contro la situazione di “degrado” causata dai negozi etnici.

Le motivazioni reali di tali misure sono le solite: in Scaletta c’è un casino della madonna e i residenti si lamentano. Il fatto che i contagi siano in aumento non è altro che un pretesto per far cessare una buona volta la movida in piazzetta conservatorio.

Il fatto che una giunta di centro sinistra attui delle misure draconiane, in tema di ordine pubblico -che potrebbero tranquillamente rientrare nel programma elettorale di Fratelli d’Italia- stupisce solo le associazioni studentesche ben pensanti.

Sappiamo come stanno le cose a Trento: gli studenti modello devono studiare, andare al supermercato, pagar gli affitti e bere gin tonic da 8 euro in Largo Carducci (via letteralmente a 100m dalla Scaletta, mai toccata dalle ordinanze, piena zeppa di fighetti). Gli studenti insomma fanno comodo fin quando portan soldi (si stima che intorno al 40% del bilancio cittadino sia dovuto alla presenza dell’università), poi quando iniziano a costituirsi parte della vita cittadina vengono bollati come au(n)tori supremi del degrado.

Altro fattoda notare è come la questura ne esca con le mani pulite, quando nella realtà dei fatti, se la firma dell’ordinanza spetta al sindaco, la scelta nella gestione della piazza è decisa dal questore. Cioè che la decisione di mettere un numero spropositato -e inutile- di volanti per dare la parvenza di un qualche controllo sulla situazione è decisa dalla questura. Tradotto: di merda ce n’è per tutti, anche per il caro questore oltre che per il sindaco.

 

Comunque sia andiamo avanti…

Alla luce degli avvenimenti delle ultime settimane occorre fermarsi e riflettere per cercare di vederci chiaro: a ben vedere, la colpa di tutto questo delirio non è né degli studenti né dei residenti. È ovvio che gli uni han voglia di far festa e gli altri han voglia di dormire, il problema è che continuando a bollare uno dei due attori come colpevole della guerra in corso (irrispettoso del quieto vivere o vecchio reazionario bastardo) , ci si continua a mordere la coda. Questo sfocia nella pretesa ideale che una delle due parti si auto regoli: nel falso appello su facebook a responsabilizzarsi. Che ovviamente è impossibile e quindi via di ordinanze. Aggiungi il covid e il piano è completo.

La vera colpa invece è di chi progetta la vita cittadina, della giunta comunale e affini. Il problema è che a Trento di riuscire ad integrare la vita studentesca con quella cittadina non è mai importato un cazzo a nessuno, la confusione genera mostri. Gli unici tentativi sono stati la costruzione delle Albere, un quartiere fantasma costosissimo (da costruire e da vivere), e del Sanbàpolis, uno studentato nel bel mezzo del nulla.

 

A Trento non c’è un posto accessibile (e vivibile) dove gli studenti possano trovarsi senza ledere alla voglia di dormire dei residenti, da questo nasce la guerra dei mondi. Trento quest’anno ha superato Bolzano come città più costosa d’Italia: è chiaro che gli studenti si concentrano dove l’alcool costa meno o si bevono i birroni del supermercato in piazzetta. Cosa dovrebbero fare? Delapidare le loro (dei loro genitori) finanze a forza di birre artigianali da 6 euro?

In assenza di un’alternativa desiderabile la movida si scompone e si riforma in un’altra parte della città -come avvenuto per la zona di Santa Maria Maggiore qualche anno fa- e così all’infinito, fino a che le secchiate d’acqua dalla finestra non diventeranno calderoni d’olio bollente.

“Fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”: cosiderazioni su test d’ingresso e pedigree accademico.

Nel corso delle scorse settimane nei vari consigli di dipartimento dell’ateneo si è discussa la sostituzione dei test d’ ingresso alla laurea triennale con delle “modalità di valutazione sostitutive”, come quella approvata di fresco dal dipartimento di Sociologia e poi estesa a tutti i dipartimenti dell’area umanistico-letteraria.

La selezione delle nuove matricole sarà effettuata in base ai loro voti in pagella ottenuti alla fine del quarto anno di scuola superiore.

Su quanto sia classista questa decisione non ci dilungheremo a lungo: è comprovato da una pluralità di studi che gli studenti provenienti da contesti familiari “difficili o umili” (perché dire poveri è degradante) abbiano voti più bassi di coloro che provengono da famiglie benestanti o ricche.

Oppure il fatto che vengano fatte delle pericolose distinzioni fra scuole di serie A e di serie B: a parità di voto, chi ammettiamo lo studente di agraria o il liceale?

Crediamo che ognuno dei lettori possa trarre svariati esempi dalla sua esperienza personale riguardo a ciò che è stato appena detto, come anche avere memoria di figli di medici e professori -letteralmente ignoranti come le foche- spinti avanti a forza, classe dopo classe, con valutazioni gonfiate solo per la propria ascendenza familiare. E poi dicono che i figli degli operai non sono invogliati a studiare.

 

La scuola italiana e l’università, nulla di nuovo sotto il sole, riproducono le “diseguaglianze sociali”. Tuttavia l’analisi dei dati OCSE sulla mobilità sociale e l’università li lasciamo a udu e figc, non perché non siano importanti, ma perché vorremmo concentrarci su ben altro…

Per come è stata presa, quella di qualche giorno fa, sembra una decisione cieca e puramente ingiusta. Nessuno studente medio avrebbe mai potuto aspettarsi, che i suoi voti di quarta potessero influenzarne l’ammissione all’università. Inoltre dopo svariati esempi in giro per l’Italia di esami (scritti) svolti online, nessuno avrebbe mai pensato che lo svolgimento di un test d’ingresso potesse rappresentare un insormontabile problema tecnico, tanto da dover annullare i test d’ingresso in favore di altre modalità di selezione.

Oppure per semplificare:

Se la scuola che faccio mi fa schifo (e quindi vado male), non vuol dire che non abbia intenzione di iscrivermi all’università in linea con quelle che sono le mie passioni”.

Saremo anche “i soliti rivoltosi scansafatiche”, ma il concetto soprastante non ci pare tanto astruso e delirante da non essere condivisibile dai più.

Insomma: da qualunque parte la si prenda emerge il pensiero che si poteva fare altrimenti (e meglio).

Purtroppo, se possiamo attribuire la cecità di alcune scelte, in campo sociale o economico, alla stupidità della classe politica tridentina, non ci è possibile fare altrettanto con un collegio di professori universitari, i quali hanno sicuramente qualche neurone in più di Fugatti & Co e pensano prima di agire.

Insomma, questa scelta ci puzza e ci sembra fosse serbata da tempo dai vari amministratori dell’ateneo, infatti è perfettamente in linea con l’idea di “Università dell’Eccellenza” che viene portata avanti in quel di Trento: il set è quello di un ateneo piccolo, che punta sulla qualità della didattica, sui servizi allo studente e ad aggregare le migliori menti d’Europa.

Vediamo inoltre che per inseguire tale modello di didattico venga naturale pretendere una specie di pedigree dagli studenti dell’ateneo, non basta più avere una buona media di libretto, ma è necessario avere un buon curriculum, essere stati sempre meritevoli, essersi impegnati anche quando si era in quarta superiore.

Non è una svista che questo approccio sia classista e grossolano: è stato messo in atto anche nel dipartimento di Sociologia, non crediamo che i luminari che presiedono le cattedre di Via Verdi possano essere tanto sbadati da non accorgersi dell’ingiustizia che questo modello produce. Infatti solo 4 professori si sono astenuti dal votare a favore: triste (ed ennesimo) esempio di come il corpo docente sia totalmente piegato alle volontà del cda di unitn.

Ci teniamo a ripeterlo, le scelte che vengono prese all’interno di un ateneo non sono mai casuali.

 

Non stiamo dicendo che è sbagliato riconoscere il valore dei meritevoli, tanto meno vogliamo entrare nel discorso del merito caro alla sinistra (craxiana), ma stiamo mettendo in discussione la base di equità su cui viene costruita l’ammissione ai corsi di laurea.

Il fatto che siamo l’Università italiana che fornisce più servizi e agevolazioni ai suoi studenti, (“e ce credo a Trento so pieni de sordi”) passa in secondo piano rispetto alla necessità di dare a tutti l’opportunità di accedere a tali servizi e non solo “a chi è già bravo”.

Sono anni che la validità dei test di ingresso viene messa in discussione per via della loro inefficacia nell’appiattire le disuguaglianze dovute alla formazione superiore, la scelta dell’Università di Trento invece che muoversi in direzione opposta, tende ad acuire tali disuguaglianze. Un esempio di meritocrazia calvinista, che alimenta l’immagine di Università-Fabbrica (di crediti) a cui ci siamo abituati. Gli zuccherosi discorsi sul “lato umano delle cose” o “sull’educare ad essere liberi” stanno a marcire in un merdoso sgabuzzino insieme ai resti di un’istruzione pubblica mutilata.

Poi c’è la motivazione fornita dai professori alle rappresentanze studentesche (quasi a sancirne l’impotenza sulle decisioni di peso): il voto delle superiori è il fattore più predittivo per la carriera universitaria. Tutto assolutamente vero. Ricordate l’esame delle scuole medie? Un elenco di voti abbinata ad una voce piccolapiccola. Da 6 a 7 professionale, 8 tecnico, 9/10 liceo. Ricordate il professore dalla faccia spenta che ogni giorno vi ripeteva che non avreste combinato nulla nella vita perché non avete studiato lo stramaledetto di teorema di lavoisier? La faccia degradata di sistema basato su competività, scoraggiamento e selezione.

Come disse uno studioso di cibernetica: “E’ il vincolo che crea la rottura della simmetria dell’ugualmente possibile, è la rottura della simmetria che crea la premessa dell’ordine”.  E’ il modello cibernetico dell’università neoliberale: lo studente è un numero di matricola, la cui carriera è ampiamente prevedibile e monitorabile tramite un insieme di dati, dai voti delle elementari a quante volte accede sulla piattaforma della didattica online, passando per la sua partecipazione ai forum. Questi dati formano un profilo pronto a finire sulla scrivania di qualche addetto alle risorse umane che selezionerà i più diligenti.

Poi ogni tanto ci capita di udire qualche commento paternalista sull’incapacità dei giovani di accettare le delusioni. Tradotto: pur vivendo in un mondo di disuguaglianze orribili e crescenti, veniamo bombardati dalla nascita con pillole di cieca speranza sul fatto che diventeremo tutti persone di successo, come tali dividiamo l’università in “corsi fuffa” e “corso di studio investimento”, ci laureiamo pieni di speranze e ci ritroviamo nel mondo della precarietà giovanile, con uno stipendio pari o poco superiore a quello dei nostri genitori. E a quel punto qualche domanda ce la facciamo.

E allora che fare? Sentirsi in colpa ad essere così mediocri?

 

C’è un’altra cosa che ci sentiamo di dire, anche se la questione è molto scivolosa: cosa vuol dire formare l’eccellenza? È una questione meramente tecnica legata alla qualità della didattica e dei servizi, della connessione col mondo lavorativo, della formazione di persone eccellenti? O è qualcosa di più, legato all’ umanità nel prendere le decisioni, all’empatia con cui ci rapportiamo agli altri, alla capacità di vedere e comprendere i problemi del mondo e osservare con lenti nuove, più vere, le ingiustizie che ci circondano? Noi non crediamo che il modello attuale di Università sia questo, anzi, questa ricerca del pedigree, dell’assenza di peccato che spacciamo per eccellenza, sembra restituirci un calco arido di ciò che già ci circonda, ossia di una società dove coloro che eccellono sono tali poiché arrampicatisi su un cumulo di cadaveri. Essere il capo, non è figo.

Solo i migliori, i più diligenti ce la fanno, credito dopo credito, esame dopo esame arriviamo alla laurea senza aver imparato un cazzo da tutti quei valori e quelle frasi di un 68 pacificato con cui vengono tappezzate le bacheche universitarie. Siamo solo, estremamente e stancamente, competenti, con una tinteggiatura di pseudo-creatività per sembrare smart.

Quantificare e calcolare in modo feticista gli attributi umani, come diceva Walter Benjamin passeggiando in maniera splendidamente improduttiva per le strade di Parigi: “accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere”.

In questa forma essere diligenti, pacati ed austeri, in una parola: calvinisti. Diciamocelo è una miseria.

Ed è con estrema liberazione e piacere che questi casi ci sentiamo di dire: “fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”

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Nota a margine…

per farvi un’idea di cosa intendiamo per “frasi di un 68 pacificato con cui vengono          tappezzate le bacheche universitarie.” fatevi un giro al dipartimento di sociologia di Trento e guardatevi intorno…

 

 

Ora, Sempre…

“Le Marie antoniette che volevano il fascista come scimmietta in gabbia da mostrare al popolino per distrarlo, sono rimaste sopraffatte e ampiamente superate dal loro stesso giocattolo, dal mostro che hanno creato. In questo senso, gli sproloqui allarmati e liberali perdono tutta la loro ragion d’essere. il fascismo non è il contrario della democrazia ma ne è l’intimo complemento. i cosidetti giovani sovranisti non sono che l’espressione ultima e compiuta, di una torsione esplicitamente autoritaria della macchina statale, tutto a vantaggio del libero mercato”

(Aurora dice…)

 

Se ci guardiamo intorno è facile farsi prendere dallo sconforto, dalla volontà di lasciar perdere, o ancor più di ritirarsi ad uno stoico snobismo verso le classi che 40 anni fa riempivano le nostre fila. Tuttavia lo sappiamo e lo dobbiamo tenere bene a mente: qui ci vogliono distruggere. Padroni, politici e fascisti bramano la nostra messa a tacere forse più di quanto noi bramiamo la loro. Il revisionismo storico non è contingente, ma organico, il suo obiettivo è chiaro. E noialtri? Abbiamo un’idea del nostro obiettivo? di chi sono i nostri nemici, i nostri oppressori? Per far fronte ad un fascismo istituzionale e diffuso, solubilizzato all’interno del senso comune, abbiamo bisogno di farci noi stessi organizzati, obiettivi. Per questo abbiamo deciso di chiederci chi è l’oppressore che oggi siamo destinati a combattere: porsi le domande giuste può portare a traguardi ben lontani dal nostro orizzonte.

Ce lo siamo chiesti per ricordare ancora a noi stessi quei motivi che ci spingono a rifiutare ciò che ci circonda, quell’inquietudine che non ci permettere di guardare fino alla fine un telegiornale per la rabbia che c’assale. Quelle verità etiche che sentiamo dentro e che sono in assoluto disaccordo con l’esistente: come gli ideali della Resistenza. L’odio per i prepotenti e non l’esaltazione della forza, la ribellione di chi non ce la fa più contrapposta ad una vita di soprusi, la cura degli altri piuttosto che l’indifferenza, il “si parte e si torna insieme” invece della competizione. Tutto ciò è totalmente incompatibile col mondo di merda che ci troviamo a vivere ogni giorno e contro cui lottiamo. Perchè in fondo, ciò che si dice è vero, noi lottiamo contro il mondo ma anche contro noi stessi, contro quella parte di barbarie quotidiana che si è incarnata in noi e che riproduciamo nei nostri modi di vita. 

Lottiamo, come ci è solito fare, ognuno secondo le proprie modalità, insistentemente, a volte disorganizzati e stanchi, rifiutando, calpestando il terreno in cui vorrebbero tumularci. Determinati sì, a volte con rabbia, eppure ne siamo certi, mai mossi da odio, ma da amore. 

Nell’estate del 1944 l’area di confine tra le province di Belluno, Bolzano e Trento fu contraddistinta da un’intensa attività partigiana.  e, soprattutto, la sicurezza dei cantieri che di lì a poco avrebbero avviato i poderosi lavori di costruzione della Blaue linie. L’offensiva partigiana fu presto perseguita delle autorità militari nazifasciste: dall’agosto all’ottobre 1944, si susseguì una serie di operazioni antipartigiane volte a reprimere l’insorgenza dei «ribelli» e a riportare sotto Le azioni di guerriglia, con attacchi, imboscate e sabotaggi, intraprese dai partigiani delle formazioni veneto-trentine misero in crisi il sistema di comunicazione tedesco. Dopo aver colpito una prima volta il Battaglione Gherlenda (Brigata Garibaldi Gramsci) in settembre, le forze tedesche e gli uomini del Secondo Battaglione CST (Corpo di sicurezza del Trentino) guidati dal capitano delle SS Karl Julius Hegenbart condussero, tra l’8 e il 12 ottobre 1944, un altro rastrellamento. All’operazione parteciparono non meno di 500 uomini. In tutta l’area, furono rastrellate circa 140 persone, poi arruolate nei cantieri della Todt di Pergine e Trento. Durante l’azione, i militari catturarono Clorinda Menguzzato, partigiana di 18 anni conosciuta con il nome di battaglia Veglia. La giovane fu seviziata, violentata dai militi del CST  e uccisa, il suo corpo abbandonato lungo la strada in direzione di Pieve Tesino l’11 ottobre, come monito per tutta la cittadinanza. 

Qualche mese dopo, nel febbraio 1945, venne uccisa dai Nazisti una compagna di Veglia della Brigata Garibaldi Gramsci, Ancilla Marighetto. La partigiana Trentina conosciuta come Ora, anche lei di 18 anni, venne fucilata brutalmente dai nazifascisti , insieme ai suoi compagni e alle sue compagne, presso Castel Tesino.  Ora, insieme al resto del gruppo, venne catturata durante un agguato delle truppe naziste capitanate da Hegenbart, e uccisa, dopo essere stata torturata nel castello del Buonconsiglio, poiché aveva risposto con il silenzio alle domande del capitano sull’organizzazione delle truppe partigiane. 

Ora e Veglia pagarono con la vita il loro coraggio, il loro non voler abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. 

Il loro carnefice Karl Julius Hegenbart  venne condannato all’ergastolo, senza tuttavia scontare nemmeno un giorno della sua pena in quanto non fu mai estradato dall’Austria, dove morì nel 1990, al termine di un’esistenza vissuta nel segno della vigliaccheria.  

 

Abbiamo deciso di raccontare i sacrifici di Ora e Veglia perchè la loro è la storia di due giovanissime donne che decisero di parteggiare per la causa della resistenza, perchè credevano in un modo migliore. Perché con il loro coraggio hanno deciso di non abbassare la testa dinanzi alle barbarie nazifasciste. Perchè hanno deciso di stare dalla parte giusta della storia. 

Ma anche perché i loro carnefici sono rimasti impuniti per i crimini efferati  dei quali si sono macchiati. Perché da una parte la Repubblica Italiana istituiva la festa della liberazione e portava avanti la memoria di una resistenza deconfluttualizzata nelle sue istanze più radicali e pacificata, dall’altra ha perseguito i partigiani e le partigiane compagni e compagne di Ora e Veglia. Mentre veniva concessa l’amnistia per chi massacrava civili inermi che non si erano voluti piegare all’oppressione fascista, venivano reinserite negli ambienti di potere le elite economiche complici del fascismo. Mentre con il codice penale fascista veniva perseguit* chi lottava per l’uguaglianza, venivano riciclati  i “camerati” per compiere stragi contro le rivendicazioni studentesche e operaie.

E oggi ci troviamo a dover sentire da politicanti, pseudogiornalisti e pseudostorici, che valgono meno di un capello di chi combatteva per la libertà, attuare un revisionismo storico che mette sullo stesso piano gli oppressi e gli oppressori. Dobbiamo sorbirci il teatrino della celebrazione delle vittime delle foibe, in cui cameratini di casapound, protetti dai loro amici della polizia, provano a riabilitarsi e uscire dalle fogne in cui la storia gli aveva confinati. Ancor più abietto (e perdente) è l’utilizzo strumentale, da parte della sinistra, di un antifascismo da salotto, tenuto buono come spauracchio contro i sovranisti brutti e cattivi e da sbandierare in campagna elettorale o durante le commemorazioni istituzionali.

Questo avviene perché la memoria della Resistenza e degli ideali che animavano partigiane e partigiani fanno ancora paura ai padroni e ai governanti. La potenza del popolo insorto, costruita con pazienza, tenacia e tempismo storico, che si libera degli oppressori va ricordata e studiata. Ma non per celebrarla come un feticcio museale, ma per decidere da che parte stare, per essere ogni giorno partigiani. Per vivificarla come vivi sono i legami, le emozioni, i rapporti nelle lotte di resistenza. 

E quindi viva la Resistenza e viva i partigiani e le partigiane. Che ci liberi quello stesso vento dai fascisti e dai liberali che gli fanno da portieri. Dai servi e dai padroni. Che liberi la vita.

Ora e sempre.

 

CURinQuarantena#3 – Colpevoli Ovunque

…Riflessioni di un compagno su covid e vicinato…

 

20 Marzo 2020

Allora, vediamo di mettere in ordine le idee finchè c’ ho ancora il crimine addosso. Dunque…

Vivo in un remoto paesino di montagna della Val Belluna, per capirsi una di quelle gemme incastonate nel verde delle Prealpi, dove ogni vecchia casa è accostata ad un fienile, i rumori del bosco ti accompagnano prima di coricarti e il cemento ancora non strangola il sole. Per capirsi, uno di quegli abitati che mezzo secolo fa contava 200 persone e ora non arriva a 50, dove i campi di granturco lasciano pian piano spazio ai vigneti tossici, che qualche magnate trevisano del prosecco decide di piantare e farcire di pesticidi, comprando la terra di qualche vecchietto mezzo morto. Il classico frutto dello spopolamento della montagna: a fare il contadino ti spacchi la schiena “par do schei” e quindi vai a lavorare in fabbrica (giustamente). Il comune tagli i fondi al trasporto pubblico, le botteghe e le osterie chiudono, vivere quassù diventa scomodo e il paese inizia a dissanguarsi.                                                                                        Fra le vecchie case nel bel mezzo de paese, ve n’è una in particolare, ormai mezza in rovina, che attirava spesso la mia attenzione di bambino. Sulla canna fumaria infatti vi è incisa una scritta, ripassata a caratteri rossi nella malta, che recita: “1855 anno del colera”. Emblematico.                                                                                                     Da qualche giorno infine, a turbare la tranquillità amena del caseggiato, sono le sirene e gli alto-parlanti della polizia locale, ad echeggiare fra le viuzze intimando alla gente di rimanere in casa.

Tutto questo preambolo sostanzialmente non serve a un cazzo al fine del discorso. Era solo per dire che mi piace il posto dove vivo e ora che la quarantena mi stringe in casa ho molto più tempo per apprezzarlo. Andiamo avanti…

A differenza dell’annoiato e bolso poltronaro che è il sottoscritto, i genitori si discostano nettamente dalla suddetta prole, la gente lì definirebbe “dei tipi sportivi”, cioè che vanno a correre e in bicicletta un tot di volte a settimana: è il loro modo di mantenere l’equilibrio psicofisico.

Arrivando al dunque: col coronavirus a seminare il panico, nell’ultima settimana abbiamo assistito ad una sempre maggior insistenza, nei discorsi dei politicanti/esperti/opinionisti vari, nell’invitare la gente ad evitare il più possibile i contatti ravvicinati fra le persone, sacrosanto visto la pericolosità della patologia e la precarietà del sistema sanitario in questi giorni.

Nel senso che se incontri una persona malata (untore) e questa ti passa il virus e poi tu lo passi a tua volta è un casino, quindi meglio evitare di accalcarsi alle porte dei supermercati. Ossia che perché il virus si diffonda questo deve passare da una persona all’altra e per farlo devono esserci più soggetti a distanza ridotta. Nel senso che la diffusione dell’epidemia di per sé non c’entra un cazzo con lo #stareacasa, ma con gli atteggiamenti (ir)responsabili che i singoli mettono in atto, cioè l’accalcarsi alle porte del supermercato e il frequentare ambienti ristretti. Vabè sta di fatto che la gente è scema, quindi è normale che lo Stato cerchi di dare un messaggio semplice, chiaro e difficilmente fraintendibile, optando per la riduzione del danno, insomma #staiacasa.

E fin qui mi sta bene, il problema tuttavia inizia a presentarsi quando l’hashtag di cui sopra, inizia ad essere assunto come dogma, senza passare per il buonsenso, appiattendo la molteplicità delle situazioni al rigore univoco dell’ordinanza. Detto in parole povere: non importa a nessuno che tu stia andando a correre in piena campagna dove non incontrerai anima viva, resti comunque un trasgressore che mette a repentaglio la vita di tutti, DEVI STARE A CASA, anche se il precedente ragionamento manca di un filo logico.E vabè di leggi assurde ce ne sono tante, la novità che emerge con forza è un’altra: ossia che il giudizio delle trasgressioni, che formalmente è delegato alle autorità giudiziarie e alle forze dell’ordine, viene collettivizzato per diventare un giudizio diffuso, poichè la tua azione mette a rischio l’intera comunità. Chi fa jogging viene criminalizzato (da tutti) solo per il fatto di uscire di casa, non importa che eviti i luoghi affollati o utilizzi dei DPI.

Cioè che la colpa della catastrofe è di chi va a correre, non di chi ha tagliato i fondi alla sanità pubblica, esternalizzato a privati i servizi essenziai, ridotto i posti letto negli ospedali e ora continua a mandare la gente a lavorare nonostante il pericolo contagi: tipo mio padre che salda in fabbrica 8 ore al giorno, incazzato agro col mondo, che torna a casa, per sfogarsi va a fare un giro in bicicletta e gli fanno pure la multa.

 

Con queste parole non intendo assolutamente minimizzare la gravità della situazione o negare l’importanza dello “stare a casa” come metodo di contenimento dell’epidemia: di sicuro non andrei a trovare mia nonna dopo aver leccato tutte le maniglie dello Spallanzani (semi-cit). Come di sicuro non è mia intenzione sminuire il dolore di chi in questo momento sta soffrendo. Quello che vorrei invece mettere in luce è l’effetto che questo clima di tensione inizia a produrre negli individui.

 

Insomma: la mia vicina di casa ha fatto un post su Facebook, delirante, in cui condivideva la sua personale gioia nel vedere denunciati i trasgressori delle ordinanze restrittive e con un tono fra il sognante e il maligno si augurava di poter denunciare (delazione) lei stessa alle autorità coloro che “vanno a correre in beffa ai decreti e all’interesse di tutti”.

Peccato il post sia stato cancellato prima che io potessi screenshottarlo

In seguito a questo episodio ho pensato 3 cose:

  • Che è meglio che i miei non si facciano più vedere in short e scarpe da ginnastica
  • Che la mia vicina sta fuori
  • Che il coronavirus è risultato essere un mezzo di orizzontalizzazione del conflitto, ancor più efficace del razzismo diffuso.

Non basta il fatto che la forzatura del covid abbia portato lo Stato a munirsi di dispositivi di controllo (sociale) sempre più invasivi (ad esempio il monitoraggio degli spostamenti attraverso il GPS dei cellulari), il clima di tensione è ben completato dagli sguardi e dai sospetti delle persone che ti stanno intorno. In mezzo a tutto sto casino, a coloro che attribuiscono alcune delle colpe della situazione attuale ai potenti e ai politicanti (verticalizzando il conflitto), viene risposto, nel migliore dei casi, che ora non è il momento di creare divisioni inutili, poiché adesso è il momento di stringersi tutti assieme attorno al Tricolore e affrontare la tempesta. Da una parte quindi vi è la riconciliazione con lo Stato, dall’altra l’individuazione del nemico interno. La colpa viene addossata a coloro che escono di casa, solo per il fatto di farlo e non per l’effettiva possibilità che le loro azioni costituiscano un pericolo effettivo.

In questo modo il conflitto esplode in orizzontale -tutti contro tutti- e con maggiore intensità rispetto ad altre modalità di esplosione come quelle che caratterizzano le dinamiche razziste e xenofobe.

E così, fra un inno nazionale e l’altro, la situazione nelle fabbriche e nelle carceri passa in sordina. Da qua a due settimane son morte quasi 15 persone nelle galere, morte nel senso di ammazzate a suon di manganello e poi imbottite di barbiturici per mascherarne l’uccisione, son tante e non se ne parla già più. Confindustria continua a mandare la gente in fabbrica anche in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna che sono le regioni più colpite dal covid. Un sacco di lavoratori a chiamata hanno già perso un posto di lavoro che probabilmente non riotterranno. Gli affitti van pagati, ma il danaro scarseggia.

Il problema non è più sapere se sia effettivamente più pericoloso lavorare mezza giornata in mezzo a 200 persone o andare a correre al parco da soli, ma il fatto che porsi tale domanda sia considerato inutile o non pertinente, poiché tutto viene appiattito all’osservanza del decreto restrittivo. La legge è la legge.

Mi chiedo cosa accadrebbe se questa impostazione venisse mantenuta anche ad emergenza finita, quando dovremo tutti lavorare come le bestie per far ripartire l’Italia e guai a chi fiata pretendendo di andar in pensione a 67 anni. Staremo ancora a cantare l’inno nazionale mentre assembliamo occhiali, con ritmi più incalzanti e stipendi più bassi? Chi giudicherà il nostro approccio al lavoro, il padrone o sarà collettivizzato fra i colleghi? Ce la prenderemo (ancora) fra di noi o pretenderemo gli scalpi di chi negli ultimi 30 anni ha macellato il corpo sociale?

Mi chiedo se quando torneremo alla nostra quotidianità ritorneremo anche alla “normalità”, o presenteremo delle riserve nell’ approcciarci ad altri per paura che possano “attaccarci qualcosa”. Chissà se questo periodo di quarantena in cui, per forza di cose, siamo ripiegati su noi stessi ad una dimensione individuale, (chi più chi meno) avrà dei risvolti sui nostri comportamenti futuri. Ultimamente capita di sentire molte riflessioni, legate al coronavirus, sull’idea di morte nella società occidentale e sulla nostra visione antropocentrica, chissà se a virus debellato avremo un rapporto più sereno con la morte o ci spaventerà ancora di più?

 

Forse dovremmo prestare attenzione anche alla lettura di questi aspetti: più interiori (un po’ alla libro cuore se vogliamo), ma che potrebbero restituirci un mondo diverso da come l’abbiamo conosciuto prima che la porta di casa scivolasse alle nostre spalle.

Se già ci viene raccomandato di prepararci ad un periodo di recessione, ai fini della comprensione di tale periodo, sarebbe bene ricordare che la crisi non è mai solo economica, ma anche esistenziale e metafisica.  E a chi nella crisi si muove, sta il compito di darne un’interpretazione, tale per cui, quando calerà la mannaia delle conseguenze, questa non ricada sui soliti sfigati, ma sulle teste di coloro che se lo meritano.

(foto -fatta col telefono- della scritta a cui accennavo… lo so no se capis gnint!)