Abitare le contraddizioni – note sullo sciopero generale dell’11/10 e sui movimenti spuri

Di seguito alcune riflessioni sullo sciopero generale indetto dai sindacati conflittuali lunedì 11 Ottobre. Questa giornata ci ha portato a discutere al nostro interno su come muoverci all’interno di una sitiuazione a noi inedita. Ci auguriamo che questo testo possa portare un contributo alla discussione e possa essere un punto di inizio per trovare delle coordinate in questi tempi confusi ma, a nostri dire, cruciali per delineare il futuro campo di conflitto nel quale ci trovaremo a muoverci.
Buona lettura, Cur.

L’8 ottobre insieme ad altre realtà universitarie abbiamo convocato un’assemblea studentesca in vista dello sciopero generale indetto dai sindacati di base. Abbiamo quindi deciso di partecipare con uno spezzone studentesco, consapevoli di poter portare determinati contenuti e tematiche che richiamassero le tematiche lanciate dall@ organizzator@ della piazza quali no green pass, diritto alla salute dei territori, diritto al lavoro, la contrapposizione al TAV e in aggiunta una tematica particolare su cui stiamo lavorando da diverso tempo: la delicata situazione abitativa in città, universitaria e non. Le case sono poche e i prezzi spesso inaccessibili e inaccettabili, e questo ormai è sotto gli occhi di tutt@. La situazione esasperante apre la strada ad un crescendo di soprusi da parte dei proprietari di casa, come segnaliamo da mesi sulla piattaforma Affitto Demmerda Trento. I responsabili di questa situazione, oltre ai padroni di casa di merda e palazzinari, sono provincia, comune e opera universitaria, che hanno attuato negli anni una politica volta a vendere gli appartamenti in favore di costruzione di studentati/dormitori nelle zone periferiche della città.

Arrivat@ in piazza immediatamente ci troviamo di fronte ad una composizione eterogenea. Oltre ai sindacati di base, student@ e lavorator@, una buona fetta dell@ partecipanti è ascrivibile ai percorsi novax/nogreen pass che ogni sabato, da diverse settimane,  si ritrovano in gran numero a protestare per le vie della città.

Il contatto con questa composizione, a primo impatto, ci ha lasciat@ interdett@. In particolare, a nostro avviso, viene lasciato molto spazio ad interventi/comizi spesso dai toni deliranti (con l’exploit di zuckerberg che ruba organi di bambini) a richieste disperate (nei toni e modalità) di colloquio col presidente Fugatti (sigh). Proprio per questo motivo – è tangibile l’irrigidimento di alcune soggettività con cui condividevamo lo spezzone dinanzi a questi interventi – capiamo subito qual è la cosa giusta da fare: lo spezzone si posiziona vicino a realtà a noi familiari, portando i suoi contenuti e intonando cori contro l’opera universitaria e contro le politiche del governo Draghi – Confindustria. Dopo aver attraversato tutta la città di Trento e aver portato azioni di diversa natura, su cui non ci soffermiamo perchè bastano i pennivendoli vari a infamare e travisare la gestione delle piazze, il corteo è terminato all’ingresso della sede di Confindustria. Di fronte a un nutrito spezzone di sbirrume vario, la piazza si dispone rivolta verso quella che viene comunemente identificata come nemico comune: la sede dei padroni e degli industriali. Che sia per il TAV, per lo strumento logistico di ristrutturazione del mondo produttivo post-pandemia (aka green pass), per una sanità pubblica dissanguata o per un’università asservita ai bisogni di multinazionali il corteo si dimostra capace di individuare senza indugi i responsabili. E a noi questo non può che piacere. E ci porta a scrivere poche righe di riflessione su quello che questa esperienza ci ha lasciato, tra dubbi e insicurezze ma anche determinazione nel non lasciar appiattire il dibattito su un piano di “son tutti fascisti e vanno presi a randellate” che ultimamente stiamo vedendo correre sui social ma anche nelle piazze di questi giorni.

 

Abitare le contraddizioni

La sfida che ci pone la nostra epoca è quella di confrontarci con movimenti sempre più spuri e difficilmente inquadrabili nelle tradizionali categorie politiche.

Quarant’anni di neoliberismo hanno portato ad una composizione di classe frammentata.

Le piazze sono diventate imprevedibili (vedi i gilets jaunes), ed eccedono la nostra idea di composizione di classe di “sinistra”–  diciamolo, ormai stanca e sconfitta. Come antagonist@ dobbiamo imparare a non criminalizzare movimenti che nascono spontaneamente da spinte anche emotive e non “militanti”. Anche in queste situazioni infatti si cela un possibile nocciolo pre-insurrezionale che deve essere sviluppato e non represso sul nascere. Questo non vuol dire lasciar correre qualsiasi intervento e posizione, a volte assurde e nazionaliste, ma rimboccarsi le maniche e abitare le contraddizioni, infiltrarsi nelle crepe che vengono aperte da queste piazze e scardinarle. Può spaventare un movimento come quello no green-pass e no-vax: manca una linea politica in piazza e fuori dalla piazza, è caratterizzato da una composizione completamente spuria, con pochi obiettivi e pochi paletti imposti alla partecipazione. La dimostrazione è che allo sciopero dell’11 indetto dai sindacati di base, a Trento ma anche nel resto d’Italia, i no green pass hanno partecipato in massa senza porsi il problema di chi avesse lanciato il corteo. Certo ha fatto piacere vedere marciare migliaia di persone sotto le bandiere del sindacalismo conflittuale, non possiamo negarlo è stato un bello spettacolo, ma non dobbiamo mentirci: questo è stato possibile solamente perchè merde nazionaliste non sono state fatte entrare nel corteo, tranne pochi e silenziosi casi isolati. Le rivendicazioni del corteo erano limitate, specifiche, ma allo stesso tempo semplici e facilmente condivisibili: chi non sarebbe d’accordo di fronte allo slogan “giù le mani dal lavoro?”. Questa semplificazione del problema e la facilità nell’aver individuato nello stato, qualsiasi cosa potesse significare questa parola per le singole soggettività presenti nel corteo, ha posto le basi per un movimento di massa.

Rifiutiamo la superficialità con cui una parte de* compagn* affronta questa questione, la realtà nuda e cruda che ci sono migliaia di persone incazzate contro stato e padroni anche per motivazioni dubbie e confuse. Un tempo “il movimento” sapeva misurare e criticare gli strumenti mediatici dei padroni, a noi sembra imbarazzante l’equivalenza novax/no green pass = fascisti.

Piuttosto di scervellarsi nel trovare una posizione coerente “di sinistra” per inquadrare la situazione dovremmo invertire il nostro ragionamento: cosa sposta gli equilibri di forza a nostro favore in questo nuovo contesto potenzialmente esplosivo?

Il piano discorsivo mainstream, attualmente, sembra esserci tremendamente a sfavore. Il vaccino ed il green pass, con la conseguente demonizzazione di ogni opinione critica nei confronti di queste misure, sono attualmente i simulacri dietro il quale, scaricando la responsabilità sull’individuo, avanzano politiche reazionarie e contro-insurrezionali del governo. E questo è stato chiaro fin da subito con la fine delle misure che hanno accompagnato l’emergenza pandemica: le quarantene che non vengono più considerate dall’inps come equivalenti alla malattia o, sul piano universitario, il blocco della didattica a distanza laddove poteva essere uno strumento utile per l@ meno abbienti (con la conseguente saturazione dell’offerta immobiliare delle città produttive e/o universitarie). Queste misure si accompagnano ad altre misure infami: la sospensione lavorativa dell@ non vaccinat@, la fine del blocco degli sfratti e dei licenziamenti. La colpa viene scaricata sull@ singol@ colpevole di non aderire alla campagna vaccinale – simulacro della salvezza – piuttosto che sui veri responsabili. Come scrivevamo fin dall’inizio della pandemia “il virus si propaga per le condizioni di vita che ci sono state imposte”: lavorare, spostarsi, vivere in massa in luoghi sovraffollati e insalubri con una sanità ridotta a macerie da anni di neoliberismo. E i discorsi su sanità e cura dei territori, del “torneremo ad abbracciarci” (cap.1 del libro cuore delle conferenze di Conte durante il lockdown) vengono lasciati in un polveroso scaffale ad ammuffire.
Rifiutare il green pass come strumento retorico e logistico per riorganizzare il mondo produttivo post pandemia diventa a questo punto cruciale.

La contrapposizione tra libertà individuale (di vaccinarsi) vs responsabilità collettiva (anche qui di vaccinarsi) sembra ricalcare la tiritera sulla responsabilità del singolo con il quale il governo ci ha tenuto al guinzaglio per più di un anno. Questo non può essere il nostro piano di azione, i responsabili ce li abbiamo davanti e, mentre discutiamo sul nulla, questi si fanno delle grosse risate. Dobbiamo sfuggire alla categorizzazioni di governo e media. Noi siamo (vaccinat@ e non) gli/le sfruttat*, l@ disoccupat@, l@ precar@, l@ senza-futuro. E proprio per questo dobbiamo diventare ingovernabili, sfruttare e ragionare con altre persone che per diverse motivazioni vogliono interrompere la catena di comando e oppressione dello stato. Cacciare i fascisti dalle piazze, cacciare i padroni dai palazzi in cui si godono lo spettacolo; dobbiamo essere presenti in queste piazze, capire come spostare gli equilibri, come portare l’odio verso il vaccino in sè all’odio verso la gestione capitalistica di una pandemia capitalistica che non ci ha lasciato il tempo di piangere l@ nostr@ mort@ che già ha creato un nuovo strumento di controllo e oppressione. Non sono l@ no vax o no green pass ad aver tenute aperte le fabbriche, non sono stat@ le no vax e no green pass ad aver gestito il rapporto con gli ecosistemi in maniera deleteria e aver favorito lo sviluppo e la propagazione a livello mondiale di una pandemia, non sono l@ no vax o no green pass a sfrattarti, a darti un salario da fame e a farti perdere il lavoro. La solidarietà di classe è l’antidoto al virus retorico del governo Draghi-confindustria.

Per questo motivo in quelle piazze noi dobbiamo esserci, diventare la piazza, creare anticorpi alle presenze neofasciste e neonaziste, incanalare la rabbia anti sistema vero i veri produttori della nostra miseria, trovare nelle teorie complottiste meno strampalate i semi di una possibilità rivoluzionaria, isolare la minoranza rumorosa e inconciliabile con i nostri punti di vista dalla piazza. Come movimento dobbiamo imparare a prendere coscienza che quelle categorie, quel modo di fare politica a cui siamo abituat@ è finito da un pezzo e, car@ compagn@, sembra che siamo l@ unic@ a non essercene accort@. Siamo di fronte ad un bivio: continuare a trascinare avanti fino allo sfinimento le modalità a cui siamo abituat@, farci i nostri eventi e cortei in cui facciamo le foto studiate per sembrare una folla ma alla fine siamo sempre l@ solit@ quattro gatt@, oppure mollare gli ormeggi e navigare in mari inesplorati. Non sappiamo ancora dove ci porteranno queste piazze, ma questo abbiamo e su questo dobbiamo lavorare. Dobbiamo immergere le mani nella merda e nel fango, chi non se la sente torni nei salotti della sinistra a guardare con disprezzo classista una massa di lavorator@ sporc@ e ignorant@ che non sono in grado di prendersi una laurea magistrale per capire come gira il mondo. Noi, da parte nostra, la scelta l’abbiamo compiuta: per richiamare una parola ormai cara nel nostro immaginario, INSORGIAMO.

 

Ianesellik! Il sindaco della notte colpisce ancora!

E bene, ci risiamo.

Appena gli studenti tornano in città il caro sindaco Ianeselli risponde con una nuova ordinanza per combattere la tanto temuta movida. Infatti, fino al 1° novembre 2021, nell’area di Santa Maria Maddalena – la Scaletta – dalle 22:30 alle 5 non si potranno consumare bevande, sì, non alcolici ma proprio bevande, né tanto meno averne di chiuse, tranne se non si è seduti ai tavoli dei due locali lì presenti.

Il problema è sempre lo stesso da anni ed anni: l* student* vanno bene finché sono seduti ai tavolini a 100 metri dalla zona dell’ordinanza a bere cocktail a botte di 8 euro, ma diventano fonte di degrado se bevono delle birrette portate da casa. Quindi, “l* resident*”, altra figura immaginifica dietro il quale spesso si nascondono comitati antidegrado (aka vecchi di forza italia e rigurgiti nazi/fascitoidi) si lamentano con il sindaco. Il sindacalaro, neanche a dirlo, spara un’altra bella ordinanza “per contrastare l’abuso di alcol e fenomeni di degrado”.

La giustificazione è anche questa sempre la stessa, cioè che l* resident* hanno il diritto di dormire. E nessuno lo vuole mettere in dubbio, per quanto personalmente non capisco perché quell* che abitano sopra i locali dove i cocktail costano 8 euro non abbiano lo stesso diritto, ma vabbè.

Comunque non sarà certamente una politica repressiva – a colpi di multe da 89 a 534 euro – a risolvere il problema e né è consapevole lo stesso Iasenelli, che però appare piuttosto confuso. Quando gli viene chiesto cosa succederà dopo il 1° novembre, la sua risposta è che l’ordinanza si può prolungare. E sì, la scorsa primavera era stato formato un tavolo di discussione, per cercare di trovare una soluzione tra student* e resident*, ma se l* resident* pretendo che l* student* non si svaghino – per altro dopo anni di quarantene e coprifuochi – mi sembra piuttosto logico pensare che il compromesso non si possa in alcun modo trovare.

Oltre, al disturbo del loro povero sonno, l* resident* si lamentano per le condizioni per cui la zona di Santa Maria Maddalena viene ritrovata la mattina – si parla di bici rotte, rifiuti abbandonati e pipì un po’ qui e un po’ lì – ma anche in questo caso, cosa ci si può aspettare da una piazzetta in cui ci sono forse 400 student* con le vesciche piene, due bagni (dei bar) e due cestini?

Sempre il caro sindaco dice anche che durante quest’estate dei passi in avanti sono stati fatti, perché si è de-localizzata la minacciosa movida nei parchi e che questo modello potrebbe essere ancora utilizzato. Anche quella che era stata definita la “sindaca della notte”, che no, purtroppo non è vestita da supereroe per combattere la sua acerrima nemica – la Movida – in una post su Instagram – perché, guarda un po’, lei sì che è vicina ai giovani, usa Instagram per comunicare – afferma di essere consapevole che l’ordinanza non è lo strumento risolutivo e che si sta lavorando per trovare soluzione alternative. Queste soluzioni, mai una volta esplicate, richiedono a suo dire più tempo per essere messe in pratica. Immaginiamo che questo abbia a che fare con la delocalizzazione abitativa degli studenti, già in corso, che potrebbe essere velocizzata l’imminente inizio dei lavori per due studentati in periferia.

C’è da dire che se la soluzione alternativa è mandare l* studenti fuori dal centro, così che non rompano ai l* resident*, non è che sia poi così alternativa come soluzione e sicuramente non è un compromesso, ma anzi ci si schiera nettamente da parte de l* resident*, come se solo loro abitassimo la città e noi, fossimo qui come turisti di lunga durata. Il centro deve rimanere una vetrina, la periferia deve essere luogo di esasperazione e anomia.

Il problema, come detto, è sempre lo stesso: appena facciamo un po’ più di rumore non andiamo bene, non solo nel centro storico, ma neanche nelle case o alle Albere – dove i quattro gatti che ci abitano sono comunque capaci di lamentarsi non appena il casino accenna a muoversi da quelle parti. Non andiamo bene se non siamo seduti nei locali a bere cocktail a 8 euro e a mezzanotte tutti a nanna. Andiamo bene finché paghiamo affitti sempre più alti e sempre più scarsi per riempire le tasche di chi, dietro a tutto questo pietoso teatrino, si sfrega ancora una volta le mani.

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

Cronache di una solitaria e ricca Trento sfitta

Sono una studentessa dell’Università di Trento, nata a Napoli. Quando, ormai un anno fa, è iniziata la fine del mondo, ero come molti di voi nel bel mezzo dell’anno universitario. Non avendo più una soluzione abitativa molto agevole nella mia città, scelsi di rimanere nella ridente cittadina di Trento.

Ho passato tre mesi a guardarmi negli occhi con la mia coinquilina e a fare collage con giornali vecchi aspettando la fine di quella che allora sembrava una reclusione impensabile, assurda, eccezionale (che ingenue), valutando infondo che i 240 euro mensili per una doppia che stavamo sborsando a quei furboni dei nostri padroni di casa, di cui 100 in nero per delle bollette mai viste, valessero la pena per una quarantena del genere. Sicuramente stare in una casa universitaria, per certi versi, ha aiutato, ma 240 euro al mese faccio ancora fatica a digerirli.

Pagai anche i mesi estivi, perché qui in trentino i padroni di casa sono molto fiscali – leggi “stronzi”-  e la disdetta se non la dai tre mesi prima ti costa la caparra di un mese intero ( nessuno sconto per le bollette anche se la casa rimane vuota, mi raccomando!).  

Questa rosea esperienza l’ho fatta nell’ elegantissimo serpentone di cristo re, e attualmente i padroni di casa non hanno nemmeno cercato qualcuno che potesse andarci a vivere, né gli è balenata lontanamente l’idea di abbassare un po’ il prezzo. Il compromesso della perfetta mano invisibile che mette d’accordo domanda e offerta è quindi piuttosto un braccio di ferro impari,  in cui i padroni di casa forzano una soglia sotto la quale non si può scendere, e le case rimangono vuote e gli universitari per strada (o nelle città di origine). 

Guardandomi intorno mi venne in mente: quanto spazio sprecato. Cosa fare con tanti immobili vuoti?  Quanto poco amore c’è in questa città per ricchi? Dalle enormi alle piccole strutture, ognuna ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Non per forza pagando un affitto, diciamocelo.   

Comunque.

A settembre dovevo decidere cosa fare: rimanere a Trento, con il rischio che la mia permanenza fosse inutile dato che la didattica poteva diventare interamente a distanza da un momento all’altro – e di fatto, così è stato-, o tornare a Napoli e cercarmi anche lì un posto dove dormire. Così ho scroccato un materasso da amicu per un po’ per capire cosa fare. 

Indovinate? L’orgogliosa città universitaria di Trento, dalla parte dei buoni, con tutti quegli stimabili principi di servizi pubblici, la libera circolazione, le tasse basse, le biblioteche come se piovessero, fa una selezione atroce tra gli studenti, alla radice, di nascosto: non muove un dito affinché il costo della vita non sia vagamente più abbordabile, anzi. E nonostante la facciata, si trova del classismo più ipocrita e crudele, anche detto libero mercato. 

Gli affitti sono rimasti praticamente tutti carissimi, manco fosse chissà quale metropoli. I prezzi delle case non erano più bassi dell’anno precedente, come probabilmente sapete, anzi erano saliti. 

Le singole partivano dai 300 euro, le doppie dai 250 e per riuscire a scendere sotto i 200 ho visto gente dormire in quattro in triple, cose del tipo che ogni sera si giocava alla morra cinese per vedere chi dormisse per terra.

Il salvifico ruolo dell’opera universitaria, inutile a dirsi, non risulta salvifico. I prezzi standard senza borsa di studio non abbassano la media degli affitti, e a tappare i buchi del pubblico si inseriscono aziende private che credono di poter fittare posti letto a 430-450 euro al mese avendo pure la faccia tosta di chiamarli studentati (per ulteriori informazioni è consigliata la lettura dell’articolo nel link a fine pagina).

Il tasto dolente di tutto questo è che in altre città una situazione del genere porterebbe ad una orgogliosa ondata di occupazioni abitative, o almeno di tentativi. Questa città democratica, civile, felice, invece, è sede di una repressione tale da far abortire ogni spirito di iniziativa da basso, che non sia un mercatino bio o  una qualsivoglia attività radical-chic

Morale della favola, mi trovo a Napoli in un monolocale, davanti ad uno schermo a usufruire dei meravigliosi servizi dell’università di Trento, nella quale probabilmente non varrà più la pena di vivere. O magari sarà possibile con metodi diversi. 

 

Riferimenti:

https://curtrento.noblogs.org/post/2020/10/26/dalla-padella-alla-brace-nuovo-studentato-alle-albere/

Cronache di una tragedia annunciata

pubblichiamo delle interessanti riflessioni di un fuorisede a Trento ai tempi della pandemia.

Mi sono trasferito a Trento durante una pandemia globale che sta mettendo in ginocchio milioni di persone, frantumando progetti e psiche già duramente provate dalle strutture e oppressioni di questo maledetto tardocapitalismo. Ho incontrato ciò che migliaia di studenti fuorisede hanno conosciuto prima di me e che continueranno a conoscere per molto tempo: affitti folli, padroni di casa di merda, supermercati con prezzi ben oltre la mia portata e strade con più sbirri che panchine. Non basta, ho conosciuto quella particolare tendenza trentina a voler aumentare il numero di studenti a dismisura ma soltanto a lezione, con la speranza che cessino di esistere oltre la loro partecipazione accademica e non si facciano vedere per le strade per esempio volendo uscire la sera. Non intendo certo riprodurre il trito e ritrito luogo comune della guerra tra residenti e studenti, mi annoia abbastanza, ma credo che quanto detto da un’amica, cioè “qui a Trento non hanno ancora capito come spremere del tutto il portafoglio di noi fuorisede lasciandoci ammassare in luoghi di aggregazione a prezzi più bassi”, basti per riassumere la situazione generale. A cui si aggiunge la già citata stramaledetta pandemia che rende il tutto ancora più pesante e difficile. O forse no. Il coronavirus ha un pregio, il pregio di tutte le crisi incontrollabili: mettere a nudo le contraddizioni e costringere a pensarci, a darci un peso. Se non ci fosse la quarantena, il coprifuoco, il lockdown, l* poch* compagn* conosciut* in queste brevi settimane che scompaiono perché il sistema di tracciamento dei contatti dei positivi l* risucchia in una spirale di ansie e tamponi, forse la domanda “che ci fai a Trento?” avrebbe un significato diverso. Un anno fa avrei potuto arrampicarmi sui vetri, giustificare la mia presenza in questa città per le lezioni, il contatto con le persone, la (poca) vita universitaria. Ora tutto questo non esiste più. Le lezioni si seguono da casa e, a conti fatti, ci si rende conto che cambia poco, che la conoscenza verticale continua a franarti addosso anche se adesso puoi togliere audio e video e mandare a fare in culo i professori quando fanno la solita sparata maschilista o discriminatoria. E anche tutto il resto, come possiamo vedere facendo un giro davanti a una scaletta ormai svuotata (non ho fatto in tempo a provare lo champagnone, mannaggia al capitalismo), non si trova più. Dunque, perché sono a Trento? Per un’entità che nella mia mente si presenta astratta ma in realtà è tremendamente tangibile, materiale e prepotente: l’Università. Ottima risposta, ma quale università? Vale la pena approfondire meglio questo aspetto, tanto non abbiamo più nulla da fare oltre a qualche timido aperitivo, almeno finché ce lo fanno fare. L’ateneo tridentino è infatti primo nella classifica MIUR degli atenei di media dimensione italiani. Qualità dell’insegnamento alle stelle, strutture futuristiche, professor* disponibili. Per carità, forse in alcuni casi fortunati le aspettative verranno soddisfatte, ma per quanto riguarda la maggioranza siamo qui perché ci vendono, e a caro prezzo, un’idea di università che non esiste e la promessa di un futuro che manca. Ti raccontano che non si tratta del solito parcheggio per studenti che serve a non farci accorgere che non ci stanno lasciando nulla su sto pianeta, che dovremo fare la fame fino a quarant’anni per morire di cancro o climate change ai cinquanta. Il covid mi costringe a fare i conti con questo, sono uno studente fuorisede che studia in un’università che riproduce uno schema meritocratico-competitivo e oppressivo profondamente capitalistico come tutte le altre. Sono solo un po’ più privilegiato rispetto a chi studia in un ateneo di serie B, posso succhiare qualche ridicola goccia in più di un benessere negato alla maggioranza di cui faccio parte. Si, ho delle agevolazioni da studente, più di quelle che avevo nell’ateneo dove ho fatto la triennale. Ma a parte questo sono solo un piccolo ingranaggio in una catena di montaggio culturale, pago per esserlo, fatico per raggiungere uno status sociale classista di laureato che non mi porterà nulla se non forse uno sfruttamento leggermente meno peggiore di chi non è tanto privilegiato come me da potersi permettere di studiare. E mi rendo conto più di prima che io sono un numero di matricola, lo sono sempre stato e lo sarò fino alla laurea, questa università provvederà a mettermi dei numeri in trentesimi da associare a dei codici di esami finchè continuerò a pagarla regolarmente e mi vomiterà fuori inerme, catapultandomi dentro a una società profondamente ingiusta e disinteressata alla mia sorte. Fermiamoci un secondo. Tutto questo lo sappiamo già, chiunque abbia mai partecipato a un’assemblea universitaria ma anche liceale avrà già sentito gli slogan, condivisibili e legittimi come tutti gli slogan del resto, del tipo “no alla scuola dei padroni”. C’è qualcosa di diverso questa volta. Qualcosa che va più a fondo, che parte dalla didattica a distanza e arriva in un punto di indefinito malessere e rabbia. Perché diciamocelo, la didattica a distanza funziona fottutamente bene. Funziona nell’ottica di un’università fabbrica di cfu, è il tipico riciclo del capitalismo che trova il modo di salvarsi il culo a ogni fottuta crisi che provoca. Ecco la novità, ecco cosa non funziona: davanti a una crisi sanitaria profonda che comporta disastri psicologici ed economici per tutt* noi, l’università ha trovato il modo di andare avanti senza mettere in discussione nessuna delle sue strutture, nessuna delle sue finalità. L’università sta andando avanti senza noi, nonostante noi, questa volta in maniera più plateale del solito. Quando guardo i riquadri vuoti e neri di quell* che dovrebbero essere l* compagn* di corso, mi rendo conto che in questo schema, è possibile un’università senza studenti. Non solo è possibile, è auspicabile per il capitale. Qualsiasi spazio lasciato all’ultima ruota del carro della struttura accademica è scomparso. Non parlo solo di spazi fisici ma anche virtuali, solidali, organizzativi e politici. Resta una struttura svuotata, che almeno prima fingeva di voler essere riempita con le nostre idee e i nostri corpi, ora non più. Non c’è una comunità studentesca, non ci sono l* studenti, siamo gettati davanti alla nostra fragilità fisica come mai prima nella nostra vita e nonostante questo, nonostante questa mancanza violenta, questo vuoto incolmabile, l’università va avanti. Perché perdere mesi di lezione non si può, bisogna restare competitiv* e formare nuove vittime del mercato del lavoro in fretta. Non è servita una fottuta pandemia per mettere un freno all’università neoliberista, ad aprire la possibilità di una ridefinizione di cosa debba essere per noi questo luogo. E se il luogo che si professa come tempio del sapere e della discussione (tante belle parole) non è in grado di rimettersi in discussione, allora abbiamo un problema che va ben oltre le tasse, ben oltre i saperi liberi e accessibili, ben oltre gli spazi fisici in cui studiare.

Il covid congela tutto, congela questo mondo accademico in cui prima mi muovevo liberamente e mi toglie quelle distrazioni che mi facevano distogliere lo sguardo da questa verità: ci hanno intortato per anni e continuano ancora dicendoci che lo studio serve ad emanciparsi. Forse avrebbero dovuto insegnarci a disertare le strutture della conoscenza istituzionalizzata e neoliberista e ad assaltarne i palazzi. Ma lo stiamo imparando da sol*.

Ora so cosa ci faccio a Trento durante una pandemia globale: a Trento mi arrabbio. O forse sono sempre stato arrabbiato e Trento me lo fa ricordare.

Ecologia in Università – presentazione ciclo d’incontri

Negli ultimi anni l’ecologismo è tornato ad essere uno dei temi politici più rilevanti e attuali.

Il Climate Strike dell’ottobre 2019, dove milioni di persone sono scese in piazza in centinaia di paesi per chiedere giustizia climatica (qui il nostro contributo alla giornata) , può essere considerata come un punto politico di svolta. Quel giorno durante la più grande manifestazione globale di sempre, giovani e non hanno dimostrato di fare sul serio. La lotta ecologica non più essere letta dietro le lenti dell’opposizione tra bisogni materialisti e post materialisti, il disastro è qui con noi, nella sua spietata concretezza, iscritto nella materialità dell’esistente.

Tuttavia quello sciopero riproduttivo ha chiarito un altro punto: la lotta ecologista non solo è e sarà inevitabilmente presente ed intersecata con tutte le lotte – anticapitaliste, antimilitariste, femministe, antirazziste, sul diritto alla città e così via – ma non è più delegabile.

Mezzo secolo di accordi, protocolli, conferenze internazionali non sono serviti a niente. Tutti i governi si sono rivelati per quello che sono: il comitato di interessi di chi ha messo a profitto il mondo. Tutti i governi hanno represso nel sangue le sollevazioni per fermare lo sterminio. Dal G8 di Genova, alla Val Susa; dalla foresta Hamby in Germania alla Patagonia Mapuche, centinaia di attivist* ecologist*, indigen*, anticapitalist* uccis*, incarcerat*, perseguit* dagli stati, che intanto continuano a dare il placet per la devastazione riempiendosi la bocca di greenwashing.

I cambiamenti ambientali, climatici e non, dovuti all’impatto insostenibile del capitalismo estrattivista, e del suo principale artificio – l’umano – non possono essere più ignorati. Semplificando potremmo immaginare questo prodotto declinato nella sua forma storicamente più distruttiva: il maschio bianco ricco colonizzatore.
Il venir meno di questo pilastro ha portato l’umano – maschio bianco ricco colonizzatore – nella situazione storicamente vissuta dai non-bianchi, non-maschi, poveri, non-umani, colonizzati, di chi l’apocalisse, la distruzione di mondi, lo sterminio e l’ecocidio l’ha vissuto più volte e continua a viverlo quotidianamente.

Negli anni ’70, quando il club di Roma presentato il report sui limiti dello sviluppo, è venuta meno l’ideologia capitalista dello sviluppo senza limiti. Allo stesso tempo è stato dato ufficialmente all’occidente il campanello d’allarme su ciò che sta accadendo, che ha fatto ingresso nel sociale un nuovo orizzonte del possibile: l’estinzione. Questo ha principalmente due conseguenze di enorme portata. Il primo è che la crisi ecologica è di portata sistemica. Il venir meno di un modello di crescita economica costante, di una crescita di popolazione costante, di un dominio sempre più molecolare del mondo umano e non ha messo in luce come non mai l’incompatibilità del capitalismo con la vita. Tuttavia il se il novecento ci ha insegnato qualcosa è che annunciare la crisi del capitalismo non significa la sua superazione. Il capitale si ripiega sulle sue contraddizioni, le incorpora creando nuovi strumenti di dominio. Come sottolineano Wainwright e Mann in Leviatano Climatico*, il dispositivo emergenziale del cambiamento climatico può diventare un dispositivo di potere e controllo. La crisi climatica è quindi un terreno di conflitto politico: la degenerata tendenza del capitalismo al fascismo, contro l’autonomia, l’autogestione, la cura.

Il secondo è che l’estinzione, l’apocalisse, la crisi sono concetti incorporati in tutte le generazioni nate dopo gli anni 90’. È il nostro hummus esistenziale, sia per il sapere di non avere il benessere di chi ci ha preceduto, che per la consapevolezza dei disastri che verranno, cui il Covid 19 è una manifestazione. Tuttavia, come scritto in un libro francese: “non c’è una «crisi» da cui bisognerebbe uscire. C’è una guerra che bisogna vincere”. L’apocalisse è in corso, c’è già stata. Agisce continuamente distruggendo le sincronie, i ritmi dei viventi e non che abitano questo mondo. Anche i nostri. Trovare un linguaggio politico capace di andare oltre l’orizzonte dell’apocalisse è la sfida che dobbiamo cogliere.

Il nostro tempo ha causato quella che molti hanno definito una crisi epistemica. Le categorie del pensiero occidentale, le scienze formatesi dopo l’illuminismo, frutto dell’imperialismo bianco, sono attraversate da una tensione implosiva. Da un lato è attraversato da spinte conservatrici: il riduzionismo biologista, l’eugenetica molecolare, le politiche conservazioniste ed i progetti di eco-ingegneria e de-estinzione. Dall’altro da una spinta critica conseguenza dell’impossibilità di leggere il mondo attuale con le categorie preesistenti: le opposizioni tra natura e cultura, umano e non umano, civile e selvaggio, materiale e immateriale, vita e non vita. In questa crisi si apre lo spazio per un nuovo pensiero, per delle nuove forme di conoscenza da costruire. La conoscenza è un terreno di lotta.

La pandemia che stiamo vivendo ormai viene letta dai più come una sindemia. Il concetto di sindemia tiene in considerazione non solo la malattia (in senso medico ed epidemologico), ma le sue interrelazioni con condizioni ambientali e socioeconomiche. Il virus si propaga per le condizioni di vita che alcuni (volutamente al maschile) hanno imposto al mondo. Il virus sars-2 ci porta ad interrogarci sul diritto alla città, su un modo di vivere migliore, sostenibile, oltre l’opposizione tra urbano e rurale. È possibile creare una lotta per diritto alla vita oltre il diktat “produci-consuma-crepa” delle politiche adottate per il suo contenimento? La vita e le sue condizioni sono un terreno di lotta.

La crisi ecologica ci deve portare a riallacciare i legami con i territori che co-abitiamo. A intrecciare e condividere le lotte con soggetti umani e non. L’esempio delle lotte contro le grandi opere degli ultimi decenni, dalla lotta contro l’estrazione del carbone della foresta Hamby, alla lotta NOTAV, alla lotta contro il gasdotto Tap fino alle battaglie indigene che attraversano i continenti, ci insegnano a trovare una nuova comprensione del fare politica legata alla materialità che vada oltre i bisogni umani, ma che investe i bisogni dei territori, i boschi, le montagne, i mari e di chi li abita. Non volgiamo difendere la natura, siamo la natura che si difende.

In questo scenario di devastazione diffusa, di profonda crisi strutturale degli ecosistemi, di un nulla che avanza e che si profila sempre più come condizione esistenziale delle soggettività che saranno portate a con-vivere e con-morire sul nostro pianeta ci si impone un interrogativo: quale mondo stiamo cercando di salvare e quale mondo vogliamo veder tramontare? Non siamo dispost* a lottare per mantenere lo status quo di un pianeta profondamente ingiusto, costruito sulla cannibalizzazione dell’esistente e sul dominio interno ed esterno alla società. Come recita uno slogan divenuto ormai famoso, “siamo tutt* nella stessa tempesta, non siamo tutt* sulla stessa barca”. Facendo nostra la lezione del “Manifesto Antifuturista Indigeno”, sappiamo che questa Apocalissi climatica, prima di diventare irreversibile, metterà fine non al pianeta in sé ma a un mondo, lasciando un breve spiraglio di tempo in cui potremo provare a ricrearne uno diverso, collaborando alla costruzione di nicchie ecologiche e simbiontiche in grado di passare attraverso il Capitalocene nel modo meno disastroso possibile. Ogni distruzione comporta sempre la possibilità creativa e rivoluzionaria di imporre un nuovo paradigma. Come le piante pirofile, che fioriscono e germogliano solo dopo aver bruciato, intendiamo prepararci ad attraversare l’abisso per poter ricostruire sulle ceneri di questo pianeta.

Per riuscire in questa impresa, riprendendo la domanda che un rivoluzionario si fece oltre un secolo fa: che fare?
Come sottrarci dal potere e dai suoi dispositivi, come interrompere la mercificazione del mondo, come creare un’autonomia delle interrelazioni ecologiche che abitano il mondo?

Per iniziare a rispondere a queste domande, vi invitiamo al ciclo di autoformazioni “Ecologie in Università”, dove per tutto il mese di novembre ne parleremo con attivist*, ricercatrici e ricercatori. In questo ciclo di incontri vorremo iniziare a parlarne insieme di queste tematiche, provando a creare narrazioni oltre sia l’idea soffocante dell’apocalisse che quella suprematista, imperialista e occidento-centrica dell’Antropocene.

Per rimanere aggiornato segui la pagina Facebook Ecologie in Università (https://www.facebook.com/EcoInUni/photos/a.120734869807994/126599915888156)

 

* Climate Leviathan: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1467-8330.2012.01018.x?casa_token=AbVrGuU8hoYAAAAA%3A0rPxmmNUBbScm5HlnInYu6KpNahfS9NplmPLqzvD9ANV068_OOxTMYN7dLzRGY4txDBXS2C9KULVeAEH

Dalla padella alla brace: nuovo studentato alle Albere.

L’articolo a seguire da considerarsi come la continuazione di un lavoro di inchiesta effettuato nel 2017 [1]. Senza aver letto il primo, la comprensione del secondo è incompleta. Per cui scivoleremo velocemente su alcune questioni (al cui approfondimento rimandiamo all’articolo del 2017) per rallentare e soffermarci su altre. Infine cercheremo di delineare delle linee di ragionamento e dei possibili sviluppi futuri che il tramaccio Albere potrebbe assumere.

Tutti i link ai vari materiali sono in fondo all’articolo.

Buona lettura.

Come a Mordor dopo anni di calma piatta, qualcosa torna a farsi udire dalle Albere. Rumori e presagi risuonano fra i placidi specchi d’acqua che dimidiano le vie del (non) quartiere. No, non è il mormorio del cadavere di Renzo Piano, ma il fruscio del danaro contante.

Sono passati 7 anni dall’inaugurazione flop dell’ottobre 2013 e sembra che le cose inizino a muoversi. La situazione di base è questa:

-esercizi commerciali/uffici:    venduti 46/50

-appartamenti:                        venduti 180/300

NB: venduto non vuol dire che dentro ci viva qualcuno, o che qualcuno paghi l’affitto di quell’appartamento, ma solo che il lotto non è più di proprietà del fondo Clesio[2].

 

Guardando ai dati la situazione sembra veramente nera: se in 7 anni le agenzie immobiliari che si occupavano del quartiere sono state in grado di avanzare 120 abitativi invenduti, vuol dire che qualcosa non va.

E infatti le Albere partiva già dalla nascita come un quartiere mal pensato per la città di Trento. Se l’idea di costruire la via degli affari poteva funzionare -e infatti sia ITAS[3] che ISA [4], due fra le principali finanziatrici del fondo costruttore del quartiere, hanno stabilito le loro sedi alle Albere- questa era incompatibile con la l’apertura di una zona di pregio per l’abitativo. Di fatto l’esigenza di un quartiere residenziale esclusivo non è mai stata avvertita dai trentini ricchi, i quali hanno sempre preferito costruirsi casa nelle colline che circondano la città piuttosto che in centro (ora il mercato immobiliare in collina sembra essersi saturato e questo potrebbe portare a dei risvolti interessanti per quanto riguarda la ricerca di una zona residenziale alternativa).

Insomma: vengono costruiti 300 appartamenti di lusso in una città in cui i pochi a poterseli permettere preferiscono vivere da un’altra parte, per di più in un quartiere pensato più per aggregare sedi di banche e agenzie di investimenti che forme di vita. Il fatto che ci sia il parco dove giocare a frisbee d’estate non basta a far tornare i conti.

A prova di questo, nel 2014 vi è il cambio di progetto effettuato nei confronti del (inutile) Centro Congressi, divenuto Biblioteca Universitaria Centrale, per cercare di tamponare le perdite di un quartiere pensato male e privo di veri servizi. Tutto, ovviamente, gentilmente offerto con i soldi di noi studenti.

Ora che abbiamo inquadrato la situazione passiamo agli aggiornamenti…

 

Qualche settimana fa il Fondo Immobiliare Clesio (partecipato da Isa, Fondazione Caritro, Dolomiti Energia, Itas e da altri soci con quote minori), proprietario del quartiere Le Albere, ha approvato il nuovo piano per il quinquiennio 2020-2025, in cui vengono stabilite la proroga del fondo stesso e un accordo con le banche creditrici per ridiscutere l’esposizione debitoria (totale dei debiti di un’azienda) che ammonta a circa 150 milioni di euro. L’accordo ruota intorno all’applicazione di sconti sulle future vendite di appartamenti. Lo stesso fondo Clesio, precedentemente gestito dalla società italiana Castello Sgr, è passato agli investitori americani della Oaktree Capital, un passaggio da non sottovalutare, in quanto si tratta del primo caso in cui un investitore d’oltreoceano decide di acquisire fondi immobiliari a Trento.

A questo proposito in una recente intervista [5] Francesco Danieli e Roberto Pedroncelli titolari di Ceda e Dolomiti Immobiliare, le due agenzie intitolate della vendità e dell’affitto degli immobili delle Albere, hanno dichiarato come siano in arrivo delle linee finanziarie pronte a coprire fino all’ 80% delle spese d’acquisto e degli sconti sulla vendita fino al 25% finanziate dal fondo Clesio: una vera e propria svendita immobiliare.

Insomma, la verità che trapela attraverso le dichiarazioni è più o meno questa: sono passati 7 anni e ci sono ancora 150 milioni di euro di debito, per cui si punta ad estinguere l’obbligazione il prima possibile. In particolare quello a cui si punta è la vendita in blocco di intere palazzine, in modo da accelerare i tempi e rendere il quartiere maggiormente appetibile anche ad una maggiore varietà di acquirenti rispetto a quella che ci si aspettava sette anni fa. Non importa più quindi la coerenza col progetto iniziale (che già di suo era catastrofico), ma la vendita disorganica e a tutti i costi degli immobili rimasti.

Abbiamo tentennato per 7 anni, ora le Albere si riempiono, punto. Questo è il messaggio che deve passare.

Difatti, sono sempre Danieli e Pedroncelli a comunicare l’arrivo di uno studentato privato in zona Albere; sorgerà adiacente alla BUC nel blocco “i”e sarà composto da ben 52 alloggi, appena consegnati alla società milanese DoveVivo (peraltro appartenente per il 5% ad ISA). Gli alloggi saranno destinati alla formula del co-living che -se ci riferiamo ad un’utenza universitaria- è sostanzialmente un modo smart per dire coinquilinanza e giustificare così canoni di locazione esorbitanti [6]. Infatti, come sottolineano Danieli e Pedroncelli, il costo in camera singola varierà fra i 430 e 450 euro al mese a seconda della metratura, ben superiore alla media cittadina. Dati i presupposti, DoveVivo si inserisce in perfetta continuità con la tendenza che la situazione abitativa ha preso in città.

Ora proviamo a conoscere chi abbia accettato la sfida di aprire uno studentato in un quartiere fantasma. DoveVivo è una società milanese nata nel 2007 che si occupa di co-living, capirne il funzionamento è un po’ complesso, ma in buona approssimazione svolge più o meno le stesse funzioni di un agenzia immobiliare, con un maggior orientamento all’affitto, spesso anche a breve termine.

È la società più grande in Europa per il co-living: ossia quella forma di condivisione di un’abitazione basata più sui servizi messi in comune che sulla necessità di dividere l’affitto per assicurarsi un tetto sopra la testa. Per semplificare il co-living punta ad accomunare sotto lo stesso tetto persone con le stesse esigenze (di vita, lavorative etc…) e personalizzare i servizi messi a disposizione dall’immobile su queste esigenze. La società tende a mettere sotto lo stesso tetto persone con un lavoro simile, con orari ed esigenze simili. Ad esempio: in una determinata casa la società inserisce solo persone che lavorano in smartworking e come servizio comune installa un wi-fi molto potente. Per studenti universitari non vi è quindi una differenza sostanziale fra co-living e le forme di coinquilinanza a cui siamo abituati, tranne -chiaramente- il costo a posto letto; una tendenza potrebbe semmai essere quella di accomunare studenti della stessa facoltà o dello stesso anno, ma apparte ciò cambia veramente poco.

In un’intervista di due settimane fa al giornale trentino Danieli commenta la scelta della consegna dei 52 alloggi a DoveVivo[5]:

Abbiamo appena consegnato 52 alloggi a DoveVivo. Ma attenzione alloggi per gli studenti, in una logica commerciale, non significa virare rispetto agli obiettivi di vendita; il progetto rientra nella costruzione di un quartiere di pregio che prevede anche spazi giovani. La scelta dello studentato è stata fatta più di un anno fa, poco dopo è stata affidata la gestione degli affitti a DoveVivo, società milanese già diffusa in otto città italiane. Ci sono già diverse prenotazioni e nel complesso 150-200 studenti circa potranno approfittare di questa opportunità”

Dalle parole di Danieli emergono 2 questioni abbastanza importanti da sottolineare: la prima è che gli alloggi universitari sono solo in consegna a DoveVivo e che all’occorrenza possono essere ritirati alla società per essere destinati alla vendita, la scelta dello studentato rappresenta quindi una semplice toppa al problema dell’invenduto. La seconda questione è che la scelta di cambiare look al quartiere per renderlo più appetibile agli investitori è stata effettuata relativamente di recente, ma esprime comunque una continuità per quanto riguarda la fascia sociale a cui le Albere si rivolgono: i ricchi e, ora, i loro rampolli.

DoveVivo conta 1500 appartamenti in varie città italiane, per lo più tratta con universitari fuorisede, i quali costituiscono una vera e propria miniera d’oro per le casse della società. Altro fattore da tenere in considerazione è che DoveVivo, a differenza di altri studentati privati (come il trentino Nest), gestisce le sue strutture in maniera molto più fluida rispetto all’affitto tradizionale, introducendo la possibilità di effettuare affitti brevi o soggiorni di poche notti, non a caso la società ha in previsione l’apertura di uno Student Hotel a Torino per il 2023 [6]. In queste tipologie di studentati è frequente, ad esempio, sospendere il contratto agli studenti durante i periodi di pausa dall’università, per affittare la casa ai turisti in visita alla città. Questo avviene nelle principali città d’Italia già da qualche anno, redendo gli studentati universitari degli hotel e contribuendo ad intensificare le dinamiche di gentrificazione e di innalzamento dei canoni di locazione complessivi di varie zone cittadine.

Per approfondimento su Student Hotel rimandiamo ad un interessante articolo, link in fondo alla pagina. dateci una letta, merita  [7].

Ora con i presupposti prima elencati, immaginiamo che non ci sia l’emergenza coronavirus a trattenere i fuorisede dal prendere casa a Trento. Sappiamo che il numero di studenti iscritti ad unitn previsto per il 2022 dovrebbe aggirarsi intorno ai 20.000, rispetto ai 18.000 attuali, quindi ci si aspettano 2000 studenti in più. Chiunque abbia un po’ di familiarità con la città conosce il dramma del dover trovare casa e del vivere il capoluogo tridentino: la vita costa tantissimo, le case per studenti scarseggiano e gli affitti costano sempre di più. Bene. Ora immaginiamo di mettere sulla piazza 150 posti letto a 430 euro, come in progetto alle Albere, in una città dove il costo degli affitti stava già inflazionando da qualche anno di per sé. Ebbene con i flussi di studenti previsti per il prossimo anno, studentati come quelli di DoveVivo non fanno altro che aggravare la situazione, contribuendo ad innalzare il costo complessivo degli affitti, vista l’elevata domanda e la scarsità dell’offerta immobiliare oggi disponibile.

I lavori per la costruzione dello studentato da 200 posti dell’Opera Universitaria (l’ente di untin per il diritto allo studio) nell’area ex Italcementi a Piedicastello sono appena iniziati, quindi prima di vedere tamponata l’emergenza affitti con la disponibilità di posti a prezzo calmierato, passerà molto tempo date le tempistiche pachidermiche che Università e Provincia sono solite presentare in queste situazioni.

Da questi passaggi emerge come a Trento inizi a prefigurarsi un effettivo scollamento fra università e gestione dei servizi rilasciati agli studenti dell’ateneo. Per spiegarsi meglio: se prima vi era solo l’Opera Universitaria o qualche altra appendice dell’ateneo a gestire palestre, sale prove, studentati, mense e sale studio, ora iniziano ad inserirsi anche dei soggetti privati a colmare i vuoti lasciati da provincia e ateneo (leggi: settore pubblico). Lo studentato alle Albere ne è l’esempio. Proviamo ad immaginare cosa accadrà per quanto riguarda i posti in aula studio con l’aumento di studenti previsto per i prossimi anni: le biblioteche del CLA, BUC, Lettere, Archeologica, Giuri sono già piene adesso. Con una situazione del genere l’apertura di sale studio private con abbonamento mensile potrebbe costituire una ghiotta opportunità per gli imprenditori della speculazione, per i compari sciacalli di DoveVivo e tutta quella schiera di società che lucrano sull’assenza di servizi forniti a studenti fuorisede e precari.

Quindi, vista la situazione affitti che ci si presenterà di fronte fra un anno e la crisi economica imminente dovuta al covid, vorremmo chiedere al caro rettore, alla provincia e agli alti papaveri dell’ateneo, perché invece che spendervi in discorsi strappa lacrime sulla difficoltà della situazione attuale e sulla vicinanza che sentite coi poveri studentelli quarantenati, non andate in comune o da chi di dovere e finalmente imponete una vera calmierazione per il prezzo degli affitti in modo da limitare i meccanismi di speculazione?

 

Torneremo sulla vicenda e ci faremo sentire

 

 

PER MAGGIORI INFO

[1] https://curtrento.noblogs.org/post/2017/11/06/conoscere-per-capire-dossier-sulle-albere/

[2] Il Fondo immobiliare Clesio è partecipato da Isa, Fondazione Caritro, Dolomiti Energia, Itas e da altri soci con quote minori

[3] Istituto Atesino di Sviluppo, facente parte della galassia di Intesa San Paolo, considerato il “braccio finanziario della curia trentina”.

[4] Istituto Trentino Alto-Adige per Assicurazioni, è una società mutua assicuratrice.

[5] https://www.giornaletrentino.it/economia/albere-basta-fake-news-oltre-met%C3%A0-%C3%A8-gi%C3%A0-venduta-1.2446240

[6] https://www.dovevivo.it/it/news_eventi/dicono_di_noi/dovevivo-portera-student-hotel-ex-manifattura-rosi/

[7] https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/07/student-hotel/