Ecologia in Università – presentazione ciclo d’incontri

Negli ultimi anni l’ecologismo è tornato ad essere uno dei temi politici più rilevanti e attuali.

Il Climate Strike dell’ottobre 2019, dove milioni di persone sono scese in piazza in centinaia di paesi per chiedere giustizia climatica (qui il nostro contributo alla giornata) , può essere considerata come un punto politico di svolta. Quel giorno durante la più grande manifestazione globale di sempre, giovani e non hanno dimostrato di fare sul serio. La lotta ecologica non più essere letta dietro le lenti dell’opposizione tra bisogni materialisti e post materialisti, il disastro è qui con noi, nella sua spietata concretezza, iscritto nella materialità dell’esistente.

Tuttavia quello sciopero riproduttivo ha chiarito un altro punto: la lotta ecologista non solo è e sarà inevitabilmente presente ed intersecata con tutte le lotte – anticapitaliste, antimilitariste, femministe, antirazziste, sul diritto alla città e così via – ma non è più delegabile.

Mezzo secolo di accordi, protocolli, conferenze internazionali non sono serviti a niente. Tutti i governi si sono rivelati per quello che sono: il comitato di interessi di chi ha messo a profitto il mondo. Tutti i governi hanno represso nel sangue le sollevazioni per fermare lo sterminio. Dal G8 di Genova, alla Val Susa; dalla foresta Hamby in Germania alla Patagonia Mapuche, centinaia di attivist* ecologist*, indigen*, anticapitalist* uccis*, incarcerat*, perseguit* dagli stati, che intanto continuano a dare il placet per la devastazione riempiendosi la bocca di greenwashing.

I cambiamenti ambientali, climatici e non, dovuti all’impatto insostenibile del capitalismo estrattivista, e del suo principale artificio – l’umano – non possono essere più ignorati. Semplificando potremmo immaginare questo prodotto declinato nella sua forma storicamente più distruttiva: il maschio bianco ricco colonizzatore.
Il venir meno di questo pilastro ha portato l’umano – maschio bianco ricco colonizzatore – nella situazione storicamente vissuta dai non-bianchi, non-maschi, poveri, non-umani, colonizzati, di chi l’apocalisse, la distruzione di mondi, lo sterminio e l’ecocidio l’ha vissuto più volte e continua a viverlo quotidianamente.

Negli anni ’70, quando il club di Roma presentato il report sui limiti dello sviluppo, è venuta meno l’ideologia capitalista dello sviluppo senza limiti. Allo stesso tempo è stato dato ufficialmente all’occidente il campanello d’allarme su ciò che sta accadendo, che ha fatto ingresso nel sociale un nuovo orizzonte del possibile: l’estinzione. Questo ha principalmente due conseguenze di enorme portata. Il primo è che la crisi ecologica è di portata sistemica. Il venir meno di un modello di crescita economica costante, di una crescita di popolazione costante, di un dominio sempre più molecolare del mondo umano e non ha messo in luce come non mai l’incompatibilità del capitalismo con la vita. Tuttavia il se il novecento ci ha insegnato qualcosa è che annunciare la crisi del capitalismo non significa la sua superazione. Il capitale si ripiega sulle sue contraddizioni, le incorpora creando nuovi strumenti di dominio. Come sottolineano Wainwright e Mann in Leviatano Climatico*, il dispositivo emergenziale del cambiamento climatico può diventare un dispositivo di potere e controllo. La crisi climatica è quindi un terreno di conflitto politico: la degenerata tendenza del capitalismo al fascismo, contro l’autonomia, l’autogestione, la cura.

Il secondo è che l’estinzione, l’apocalisse, la crisi sono concetti incorporati in tutte le generazioni nate dopo gli anni 90’. È il nostro hummus esistenziale, sia per il sapere di non avere il benessere di chi ci ha preceduto, che per la consapevolezza dei disastri che verranno, cui il Covid 19 è una manifestazione. Tuttavia, come scritto in un libro francese: “non c’è una «crisi» da cui bisognerebbe uscire. C’è una guerra che bisogna vincere”. L’apocalisse è in corso, c’è già stata. Agisce continuamente distruggendo le sincronie, i ritmi dei viventi e non che abitano questo mondo. Anche i nostri. Trovare un linguaggio politico capace di andare oltre l’orizzonte dell’apocalisse è la sfida che dobbiamo cogliere.

Il nostro tempo ha causato quella che molti hanno definito una crisi epistemica. Le categorie del pensiero occidentale, le scienze formatesi dopo l’illuminismo, frutto dell’imperialismo bianco, sono attraversate da una tensione implosiva. Da un lato è attraversato da spinte conservatrici: il riduzionismo biologista, l’eugenetica molecolare, le politiche conservazioniste ed i progetti di eco-ingegneria e de-estinzione. Dall’altro da una spinta critica conseguenza dell’impossibilità di leggere il mondo attuale con le categorie preesistenti: le opposizioni tra natura e cultura, umano e non umano, civile e selvaggio, materiale e immateriale, vita e non vita. In questa crisi si apre lo spazio per un nuovo pensiero, per delle nuove forme di conoscenza da costruire. La conoscenza è un terreno di lotta.

La pandemia che stiamo vivendo ormai viene letta dai più come una sindemia. Il concetto di sindemia tiene in considerazione non solo la malattia (in senso medico ed epidemologico), ma le sue interrelazioni con condizioni ambientali e socioeconomiche. Il virus si propaga per le condizioni di vita che alcuni (volutamente al maschile) hanno imposto al mondo. Il virus sars-2 ci porta ad interrogarci sul diritto alla città, su un modo di vivere migliore, sostenibile, oltre l’opposizione tra urbano e rurale. È possibile creare una lotta per diritto alla vita oltre il diktat “produci-consuma-crepa” delle politiche adottate per il suo contenimento? La vita e le sue condizioni sono un terreno di lotta.

La crisi ecologica ci deve portare a riallacciare i legami con i territori che co-abitiamo. A intrecciare e condividere le lotte con soggetti umani e non. L’esempio delle lotte contro le grandi opere degli ultimi decenni, dalla lotta contro l’estrazione del carbone della foresta Hamby, alla lotta NOTAV, alla lotta contro il gasdotto Tap fino alle battaglie indigene che attraversano i continenti, ci insegnano a trovare una nuova comprensione del fare politica legata alla materialità che vada oltre i bisogni umani, ma che investe i bisogni dei territori, i boschi, le montagne, i mari e di chi li abita. Non volgiamo difendere la natura, siamo la natura che si difende.

In questo scenario di devastazione diffusa, di profonda crisi strutturale degli ecosistemi, di un nulla che avanza e che si profila sempre più come condizione esistenziale delle soggettività che saranno portate a con-vivere e con-morire sul nostro pianeta ci si impone un interrogativo: quale mondo stiamo cercando di salvare e quale mondo vogliamo veder tramontare? Non siamo dispost* a lottare per mantenere lo status quo di un pianeta profondamente ingiusto, costruito sulla cannibalizzazione dell’esistente e sul dominio interno ed esterno alla società. Come recita uno slogan divenuto ormai famoso, “siamo tutt* nella stessa tempesta, non siamo tutt* sulla stessa barca”. Facendo nostra la lezione del “Manifesto Antifuturista Indigeno”, sappiamo che questa Apocalissi climatica, prima di diventare irreversibile, metterà fine non al pianeta in sé ma a un mondo, lasciando un breve spiraglio di tempo in cui potremo provare a ricrearne uno diverso, collaborando alla costruzione di nicchie ecologiche e simbiontiche in grado di passare attraverso il Capitalocene nel modo meno disastroso possibile. Ogni distruzione comporta sempre la possibilità creativa e rivoluzionaria di imporre un nuovo paradigma. Come le piante pirofile, che fioriscono e germogliano solo dopo aver bruciato, intendiamo prepararci ad attraversare l’abisso per poter ricostruire sulle ceneri di questo pianeta.

Per riuscire in questa impresa, riprendendo la domanda che un rivoluzionario si fece oltre un secolo fa: che fare?
Come sottrarci dal potere e dai suoi dispositivi, come interrompere la mercificazione del mondo, come creare un’autonomia delle interrelazioni ecologiche che abitano il mondo?

Per iniziare a rispondere a queste domande, vi invitiamo al ciclo di autoformazioni “Ecologie in Università”, dove per tutto il mese di novembre ne parleremo con attivist*, ricercatrici e ricercatori. In questo ciclo di incontri vorremo iniziare a parlarne insieme di queste tematiche, provando a creare narrazioni oltre sia l’idea soffocante dell’apocalisse che quella suprematista, imperialista e occidento-centrica dell’Antropocene.

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* Climate Leviathan: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1467-8330.2012.01018.x?casa_token=AbVrGuU8hoYAAAAA%3A0rPxmmNUBbScm5HlnInYu6KpNahfS9NplmPLqzvD9ANV068_OOxTMYN7dLzRGY4txDBXS2C9KULVeAEH