Non c’è più spazio!

Collettivo Universitario Refresh – CUR                                           21 OTTOBRE 2024

Con l’inizio dell’anno accademico qualcosa è cambiato. Chi frequenta il Dipartimento di Sociologia si sarà sicuramente accorto di alcuni mutamenti: ben tre aule studio del piano -1 sono state chiuse, portando così a dimezzare gli spazi di studio e aggregazione. Questa scelta del dipartimento deve essere letta all’interno di un processo più ampio e deve portare a interrogarsi sulla modalità di attraversamento dei luoghi universitari. La costruzione e le norme che regolano uno spazio riflettono la modalità con cui si vuole che tale luogo venga vissuto. [ ] Quello che è successo all’interno del nostro dipartimento non può passare inosservato, bensì sentiamo l’esigenza di attuare un’analisi collettiva, per poterlo comprendere al meglio. Per questo motivo, la scorsa settimana è stata organizzata un’assemblea per confrontarci su quanto accaduto, con l’obiettivo di indagare possibili modalità per limitare e contrapporsi ai processi in atto. Questo presidio mangereccio vuole essere una prima manifestazione di dissenso all’avanzamento della chiusura degli spazi. Questo pranzo davanti all’ufficio del Direttore di Dipartimento, vuole essere tanto un momento di conflitto quanto un momento di scambio e confronto tra noi studenti. Il dialogo su ciò che ci circonda deve essere approfondito tra tutti noi. Negli scorsi giorni ci siamo dotati di un questionario per inchiestare la percezione e le abitudini di chi attraversa gli spazi universitari. Attraverso questo strumento volevamo iniziare a capire se questo modus operandi di chiusura fosse diffuso solo a Sociologia o se si riscontrano problematiche simili anche in altri Dipartimenti.

Per quanto riguarda Sociologia:
Il risultato delle 100 risposte registrate non lascia spazio a interpretazioni: più del 90% di chi ha risposto ritiene che gli spazi all’interno del Dipartimento non siano sufficienti. Tante persone si ritrovano a dover mangiare per terra nei corridoi o, peggio ancora, a tornare a casa per la mancanza di spazi. Molte per i lavori di gruppo si affidano a case di compagni di corso, alcuni si recano al bar, altri ancora utilizzano piattaforme online come Zoom. Inoltre, in molti hanno annotato come l’aula archeologica, l’unica aula studio che può accogliere più di 20 persone, nelle ultime settimane risulti stracolma e che la chiusura al sabato del dipartimento ha condotto ad una guerra all’ultimo posto per una sedia in BUC. Ma com’è possibile che le aule vengano chiuse non appena finiscono le lezioni? E come può essere che quando si chiede una spiegazione al direttore di dipartimento, la risposta sia sempre un rimpallo di responsabilità con la portineria, che non ha il potere di risolvere il problema? Ad oggi gli studenti si ritrovano così senza spazi adeguati per studiare e questo è paradossale, considerando che lo studio sembra essere l’unica attività ritenuta legittima in università. È venuto a crearsi un cortocircuito che si riversa totalmente sulla comunità studentesca privata anche degli spazi essenziali.

Ribadiamo che l’inchiesta sull’utilizzo degli spazi universitari non può essere circoscritta al solo Dipartimento di Sociologia, altrimenti guarderemo al problema come un fenomeno isolato. Pensiamo che un’indagine limitata a questo ambiente ci possa dire ben poco. Sentiamo la necessità di approfondire la situazione che si presenta all’interno degli altri dipartimenti: riteniamo infatti che quel che è successo qui non sia che l’ennesima manifestazione di una politica di Ateneo purtroppo ben chiara, volta a rendere l’università un luogo privo di possibilità di socialità, di collettivizzazione e scambio di idee.

In questo momento in cui i luoghi di aggregazione sono sempre più limitati, vogliamo usare gli spazi rimasti per confrontarci, dentro e fuori le mura dell’università, a tavola con i nostri coinquilini, nelle pause sigarette tra le lezioni.

Ribadiamo ancora una volta l’esigenza della riapertura immediata delle aule studio al piano -1 nel Dipartimento di Sociologia.
Vogliamo che tutti gli spazi tornino a essere aperti e accessibili, vogliamo una risposta concreta dal Direttore di Dipartimento. Non possiamo accettare che vengano chiusi luoghi fondamentali per il nostro percorso accademico per far posto a fantomatici laboratori che ad oggi risultano inaccessibili.

 

Il CUR

Deflorian chiude tutto!

Il 7 dicembre, nelle nostre caselle di posta, abbiamo ricevuto un videomessaggio del rettore Deflorian sulla chiusura dei dipartimenti e delle maggiori aule studio di Unitn per le festività natalizie, fino al 9 gennaio.

In questi giorni, studenti e studentesse, tornati in città per studiare in vista degli imminenti esami di gennaio, hanno potuto notare tutte le conseguenze di questa assurda decisione, tanto elogiata in quei quattro minuti di video.

Deflorian giustifica la scelta ribadendo quanto la chiusura degli spazi fosse l’unica opzione possibile di fronte all’attuale crisi energetica, soffermandosi sul significato pratico e di risparmio di questa decisione. Il rettore ci spiega come questo sia uno sforzo etico, strategico e necessario da compiere in vista delle possibili future problematiche che porterà questa crisi, il tutto per salvaguardare il portafoglio di UniTN nelle spese che l’ateneo dovrà sostenere e per evitare futuri tagli salariali alla componente tecnico amministrativa.

Decliniamo l’augurio di un sereno Natale in famiglia e ribadiamo il nostro dissenso verso le misure prese in atto.

Non è possibile che durante questo videomessaggio la componente studentesca, quella che veramente subisce gli effetti di questa chiusura, venga completamente marginalizzata e che le problematicità di questa scelta vengano relegate ad un mero “disagio temporaneo”, facendo leva sullo sforzo personale di ognuno in “periodi complicati come questo”.

E’ assurdo come la chiusura dei dipartimenti e delle maggiori aule studio in città, venga fatta passare com

e un mezzo per garantire la futura stabilità degli stipendi del personale e non si badi a come una misura del genere non sia altro una soppressione di un servizio per tuttə coloro che necessitano di spazi di studio e di ricerca.

All’interno di un ateneo di merito ed eccellenza come UniTN è paradossale parlare di garanzia per il diritto agli spazi di studio. Ci interroghiamo inoltre su come una chiusura di quattro giorni possa andare a toccare il portafoglio di un ateneo che continua a ricevere finanziamenti dalla PAT, amministrandoli seguendo le classiche logiche aziendali: tagliare su servizi risparmiabili ed investire su mega-progetti redditizi. Progetti che poco, o nulla, hanno a che fare in m

odo diretto con studenti e studentesse. UniTN infatti, predilige investire in progetti tecnico scientifici che hanno a che fare con il mercato molto redditizio della guerra (come MedOr, Perception Europe, Eledia), piuttosto che garantire il diritto allo studio: ricordiamo ad esempio, che non esiste la possibilità di ottenere un alloggio gratuito se non per merito, e che un pasto in mensa costa più di una margherita in una qualsiasi pizzeria (5€). Oltre ai finanziamenti nostrani, anche quelli nazionali vengono mal investiti. I 7 bandi di dottorato aperti con i fondi del PNRR sono stati tutti assegnati a facoltà scientifiche, certamente più utili ai fini imprenditoriali di Deflorian e compagnia, che possono fruttare nel sopracitato mercato della guerra oppure nella farsa della transizione ecologica. Contemporaneamente all’aumento quantitativo delle borse per lə dottorandə , tramite un complesso sistema di leve e specchi, gli stipendi sono diminuiti di circa 80€ al mese, rendendo ancora più precariə chi decide di proseguire il percorso di studi all’interno dell’accademia. Questa s

celta aggrava ulteriormente le condizioni di un gruppo che veniva già ampiamente sfruttato all’interno dell’università: obbligato a prestare servigi di ogni tipo sotto ricatto, pena l’impossibilità di avere continuità all’interno del mondo accademico.

Ci troviamo quindi di fronte al risultato degli accordi che alcuni anni fà un gruppo di student* avevano inchiestato e a cui si erano oppostə : la provincializzazione dell’ateneo Trentino. Un accordo tra PAT e UniTN, che prevedeva l’allentamento del potere statale sull’ateneo in favore di quello provinciale, rendendo di fatto la seconda schiava della prima, direttamente sottomessa agli investimenti mirati ai grossi ritorni economici tanto cari all’autonomia trentina.

Non ci stupisce inoltre che le rappresentanze sulle loro pagine social non abbiano fatto altro che un post informativo sugli orari di apertura della BUC e non abbiano espresso alcun dissenso per la questione. D’altronde si, sempre dalla stessa parte, quella dei padroni.

Ribadiamo quindi la nostra posizione: questa chiusura è inaccettabile. La BUC è gremita, le prenotazioni sono esaurite da giorni, il clima del clic più rapido sul “prenota posto” caratterizzante della pandemia non ci mancava, anzi ci chiediamo come sia possibile che possa accadere di nuovo. I soldi ci sarebbero caro rettore, basterebbe investirli in modo sensato e destinarli ai fabbisogni studenteschi. Le serrature chiuse di questi giorni non sono altro che un

a privazione di spazi di studio per migliaia di studenti e studentesse ed è inutile riempirsi la bocca con la retorica dello sforzo personale per mettere toppe ai disservizi di questi giorni.

Deflorian apri ste porte. 

Festival della Famiglia a Sociologia: sui fatti del 29/11

Il 28 novembre a Trento è iniziato il Festival della Famiglia che, arrivato all’undicesima edizione, si è contraddistinto, soprattutto negli ultimi anni, come cavallo di troia per il mondo dei pro-vita, o meglio anti-scelta, family day e della destra ultracattolica. Un festival che dietro alla celebrazione delle politiche di incentivo alla natalità, promosse dalla Provincia Autonoma di Trento, ha sempre nascosto – più o meno velatamente – discorsi misogini e contro la comunità LGBTQIA+. Tra questi non possiamo dimenticare la partecipazione dell’ex ministro della famiglia, e attuale presidente della camera Lorenzo Fontana, e del senatore leghista Simone Pillon, la quale è sempre stata duramente contestata dalle realtà di movimento trentine.

 

 

Martedì 29 novembre, il Festival della Famiglia è entrato per la prima volta nell’Università di Trento, nel dipartimento di Sociologia, ospitando – cosa che, purtroppo, non ci sorprende più – esponenti politici e associazioni della destra-cattolica e legate ai movimenti pro-vita.

Appena saputo dell’organizzazione del convegno, moltissimə studentə, ricercatorə e dottorandə di tutta l’università hanno iniziato a organizzarsi spontaneamente per contestarlo con un messaggio chiaro: “Fuori pro-vita, razzisti e sessisti dalle università”.
Così, a seguito di un diffuso e capillare passaparola, un centinaio di studentə si sono riunitə spontaneamente nell’atrio in contemporanea allo svolgimento della conferenza, in modo da poter far sentire la propria voce contro i presupposti sessisti, razzisti, anti abortisti e queer fobici che stanno alla base di questo Festival.

La conferenza di ieri ha portato direttamente all’interno del dipartimento delle dubbie personalità a discutere della “crisi demografica del popolo italiano”, utilizzando strumentalmente la cornice di Sociologia e la presenza della prof. Agnese Vitali – professoressa del dipartimento ed esperta di demografia – per dare una parvenza di scientificità alle idee reazionarie dei 5 relatori . Tra questi ricordiamo lo statistico Roberto Volpi, sostenitore della superiorità della coppia eterosessuale e del concetto di sostituzione etnica, autore del libro “Gli ultimi italiani: come si estingue un popolo”; Alfredo Caltabiano, presidente dell’associazione Famiglie Numerose, sostenitore dell’”italia del terzo figlio”; il giornalista di Famiglia Cristiana, Alberto Laggia, che più volte si è esposto a favore dei movimenti pro-vita. E tra i saluti istituzionali l’Assessora Rosolen e l’Assessora Segnana, pioniere della difesa dei bambini dalla famigerata “teoria gender” e vicine alle idee del family day, con annesso antiabortismo. Quest’ultime, forse per “motivi di ordine pubblico”, non si sono presentate al convegno.

 

Appena ritrovatesi in atrio interno, a pochi passi dall’aula della conferenza, lə studentə si sono espressə con interventi contrari alle idee promosse dal festival, sviscerando le retoriche intrinsecamente retrograde e violente di concetti come quello di famiglia tradizionale o di crisi demografica del “popolo italiano”. I diversi interventi hanno decostruito i diversi aspetti di questo tipo di retoriche, così come la necessità di rompere i modelli cis-etero-patriarcali che stanno alla base del concetto di famiglia (al singolare) tradizionale.

 

L’organizzazione della conferenza all’interno del dipartimento dimostra ancora una volta l’inferenza della Provincia a trazione leghista all’interno dell’Ateneo trentino, minando la supposta indipendenza che questo dovrebbe avere. Ma non ci sorprende che le mani di chi risiede nel palazzo di piazza Dante arrivino dove vogliono. Follow the money. Ricordiamo inoltre come l’assessora leghista Segnana si sia sempre contraddistinta nel promulgare le sue illuminanti posizioni: come l’opposizione alla presunta Teoria Gender che indottrina i poveri pargoli trentini, oppure l’abolizione per sua mano dei corsi all’educazione all’identità di genere nelle scuole, così come il suo coinvolgimento e sostegno al mondo antiabortista ultracattolico.

L’organizzazione del convegno da parte della PAT a sociologia fa ancora più sorridere per il fatto che sia stato organizzato pochi giorni dopo la conferenza Gender R-evolution, che ha visto centinaia di ricercatorə e attivistə confluire a sociologia e che ha generato tanta indignazione dagli amici di lunga data della Lega, con la paranoica “protesta” (non sappiamo nemmeno come definirla) di Casapound. La PAT e il rettorato, hanno così calpestato la dignità e il lavoro dellə moltə ricercatorə  che si impegnano quotidianamente per combattere questo tipo di idee tossiche, presenti nel mondo politico come nell’accademia.
Inoltre si è sottolineato come il festival della famiglia sia stato patrocinato dall’ordine degli assistenti sociali trentini, a dimostrazione della “neutralità” del suddetto ordine.

Gli interventi sono continuati decostruendo la narrazione della crisi demografica fatta propria dal festival. Infatti, come dimostrano i lavori del relatore Roberto Volpi, tutta la conferenza si è basata su dei presupposti razzisti e paranoici riguardo la presunta scomparsa del “popolo italiano”. Questo si traduce in una propaganda nazionalista e anti-migratoria, nonchè in un confinamento delle donne al ruolo di madri gestanti e nell’oggettificazione del loro corpo come sforna figli per la nazione. Questa narrazione sulla crisi demografica nasconde dietro di sè le problematiche più ampie e profonde di questa situazione, come le disuguaglianze economiche e di genere (vedi gender gap, generation gap), come l’assenza di un vero sistema di welfare, non solo per le famiglie, ma per tutte le persone impoverite da 40 anni di politiche classiste liberali.
L’elefante nella stanza, mai citato nel corso della conferenza, è quello della crisi ecologica e climatica, la cui causa risiede proprio nell’idea di crescita continua, economica, produttiva, e infine anche demografica, in quanto il capitalismo vede i corpi delle donne come fonte ri-produttiva di forza lavoro.

Interessante far notare come nel corso della protesta abbiamo riscontrato la solidarietà, sia dellə lavoratorə dell’università (docenti, dottorandə, personale di segreteria) sia di chi lavorava ai banchetti della conferenza, mostrando ancora più fortemente come la PAT e il Rettorato, imponendo questo evento, abbiano calpestato il pensiero e la pubblica decenza dei più.

Nel corso della protesta le lavoratrici dei banchetti hanno abbandonato le loro postazioni, lasciando i gadget della conferenza a nostra completa disposizione. Così la copia di famiglia cristiana, le borse di tela del festival, gli opuscoli della PAT, da mero materiale di propaganda sono divenuti oggetti a disposizione della creatività dei più: fogli su cui disegnare, aeroplanini di carta, coriandoli, palle da lanciare, in un meraviglioso momento di liberazione creatrice.

 

Se inizialmente la porta dell’aula kessler era stata chiusa per non permettere l’entrata allə contestatorə, successivamente è arrivato l’invito dei relatori del convegno a farci parlare dentro l’aula, cosa che è accaduta verso la fine della conferenza, dove alcunə  (non tuttə se la son sentita di sentire le baggianate dei relatori né di legittimare la loro presenza) sono entratə – riempiendo lì sì, effettivamente, l’aula – per fare un intervento al microfono.

Il nostro intervento ha riscosso molto successo tra la platea, nonostante ancora prima che avessimo la possibilità di parlare siamo statə interrottə più volte dai relatori. Tra questi c’è stato chi mentre parlavamo leggeva il giornale per poi andarsene subito dopo, chi, messo davanti a posizioni espresse in passato, ha negato tenacemente le proprie posizioni (quando basta una veloce ricerca su internet per capire le idee di questa gente) e chi si è infervorato di rabbia blaterando e urlando frasi senza senso logico.

Martedì eravamo marea. Non ci fermeremo finchè la nostra Università sarà veramente uno spazio di sapere critico e libero, in cui creare spazi di rottura e non il contenitore per la promulgazione di idee e dello status quo; finchè la promozione di studi di genere e politiche di inclusione smetterà di essere una bella copertina, sotto cui celare la vera natura reazionaria dell’Ateneo. Martedì si è dato un segnale forte a chi pensa che lə studentə accettino passivamente che la loro università diventi una passere   lla per leghisti, ultracattolici, razzisti, pro-vita e fascisti di ogni genere.

 

Doveva essere una triste conferenza, l’abbiamo trasformata in un’insurrezione gioiosa.

 

Collettivo Universitario Refresh

 

 

Il triangolo no, non l’avevamo considerato: Ianeselli-Sciortino-Baldo

Giovedì 7 aprile sulla testata del Corriere del Trentino è stato riportato un articolo di Donatello Baldo che tenta infruttuosamente di ricostruire i fatti della mattinata del 5 aprile, giorno in cui, presso il dipartimento di Sociologia, si sono tenuti un presidio e una contro-lezione riguardo la presenza del sindaco Ianeselli e della sua propaganda in università. Infatti, il signor sindaco, invitato dal prof. Brunazzo – e non Brunello, caro Baldo – avrebbe dovuto tenere una lezione che elogiasse lo strumento del dibattito pubblico e dei processi decisionali democratici sul progetto della circonvallazione ferroviaria che interesserà la città di Trento. Tuttavia, come ci è stato confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione” e dalle registrazioni, si è rivelato un becero tentativo di propagandare nuovamente l’opera della circonvallazione presentandola come la panacea di tutti i problemi della città di Trento, e lasciando addirittura dei voltantini a supporto della Grande Opera di RFI.

Alle parole del direttore di Dipartimento Sciortino, che dalla sua finestra – in realtà affacciata sul lato opposto dell’edificio – avrebbe contato solo ventuno persone di cui ben pochi iscritt* all’università, ribadiamo invece una forte e vocale presenza, in particolar modo di student* che sono stati il cuore di questa contro-lezione. Troviamo anche quantomeno ironico che un dipartimento che si vanta così tanto di essere stato al centro dei movimenti del ’68 riempiendo gli spazi universitari con frasi iconiche di questo periodo – vedi aule studio, panchine, ecc – allo stesso tempo gioisca della riduzione ai minimi termini del movimento studentesco e faccia di tutto per eliminare e contrastare quel poco di attività politica che resiste al suo interno. Infatti, puntuale, ritorna lo spettro di Biloslavo sempre usato come strumento per delegittimare il nostro collettivo ancora a 3 anni di distanza, nonostante ormai in università non sia rimasto praticamente nessun* dell* student* presenti quel giorno. Il caro direttore Sciortino afferma anche di essere stato presente alla “lezione” di Brunazzo e Ianeselli, peccatto che a pochi minuti dall’inizio del presidio sia stato visto uscire dalla porta principale dell’edificio e abbia fatto ritorno in facoltà solo alle 11 quando la “lezione” era ormai conclusa e noi ci preparavamo per spostarci nel cortile posteriore. Fatto nuovamente confermato dall* student* che hanno partecipato alla “lezione”, riportando che Sciortino è stato in aula i primi dieci minuti e all’arrivo del Sindaco è uscito accennando ad un impegno. Brunazzo e Sciortino non sono nemmeno riusciti a mettersi d’accordo prima di esporsi sulla “lezione”: secondo il direttore infatti la lezione non era aperta a tutt*, mentre Brunazzo ha sostenuto fino al giorno prima che la lezione sarebbe stata riservata all* student* del corso, salvo poi scoprire convenientemente la mattina stessa che in realtà sarebbe stata pubblica e accessibile all* student*, come ci ha riferito lui stesso al termine della lezione (LOL). Questo è lo stesso direttore di dipartimento che qualche mese fa si oppenva alla concessione di un aula per una conferenza organizzata dall* student* utilizzando tra le varie scuse quella dell’assenza di una controparte, esattamente quello che è accaduto martedì e che sta difendendo a spada tratta.

Un’altra critica che ci preme sollevare riguarda le parole di Edoardo Giudici, che esprime solidarietà al sindaco a nome di tutta la comunità studentesca arrogandosi a portavoce della totalità dell* student*, che rappresenta ma non ascolta, e rinforzando ancora l’idea che la “lezione” non avesse lo scopo propagandistico che in realtà ha avuto, come conferma invece la registrazione della lezione che abbiamo potuto ascoltare.

Chiudiamo dicendo che non ci faremo intimorire dalle parole di Sciortino e che non abbiamo paura della repressione che molto probabilmente scatenerà nei nostri confronti (non che non lo facesse già). L’università è uno spazio pubblico, nonostante la pandemia abbia provato a farci dimenticare questo particolare, e abbiamo ogni diritto di incontrarci, auto-organizzarci e manifestare il nostro dissenso.

CUR

 

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

LA CASA E’ DI CHI L’ABITA, E’ UN VILE CHI LO IGNORA

Cronache di una solitaria e ricca Trento sfitta

Sono una studentessa dell’Università di Trento, nata a Napoli. Quando, ormai un anno fa, è iniziata la fine del mondo, ero come molti di voi nel bel mezzo dell’anno universitario. Non avendo più una soluzione abitativa molto agevole nella mia città, scelsi di rimanere nella ridente cittadina di Trento.

Ho passato tre mesi a guardarmi negli occhi con la mia coinquilina e a fare collage con giornali vecchi aspettando la fine di quella che allora sembrava una reclusione impensabile, assurda, eccezionale (che ingenue), valutando infondo che i 240 euro mensili per una doppia che stavamo sborsando a quei furboni dei nostri padroni di casa, di cui 100 in nero per delle bollette mai viste, valessero la pena per una quarantena del genere. Sicuramente stare in una casa universitaria, per certi versi, ha aiutato, ma 240 euro al mese faccio ancora fatica a digerirli.

Pagai anche i mesi estivi, perché qui in trentino i padroni di casa sono molto fiscali – leggi “stronzi”-  e la disdetta se non la dai tre mesi prima ti costa la caparra di un mese intero ( nessuno sconto per le bollette anche se la casa rimane vuota, mi raccomando!).  

Questa rosea esperienza l’ho fatta nell’ elegantissimo serpentone di cristo re, e attualmente i padroni di casa non hanno nemmeno cercato qualcuno che potesse andarci a vivere, né gli è balenata lontanamente l’idea di abbassare un po’ il prezzo. Il compromesso della perfetta mano invisibile che mette d’accordo domanda e offerta è quindi piuttosto un braccio di ferro impari,  in cui i padroni di casa forzano una soglia sotto la quale non si può scendere, e le case rimangono vuote e gli universitari per strada (o nelle città di origine). 

Guardandomi intorno mi venne in mente: quanto spazio sprecato. Cosa fare con tanti immobili vuoti?  Quanto poco amore c’è in questa città per ricchi? Dalle enormi alle piccole strutture, ognuna ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Non per forza pagando un affitto, diciamocelo.   

Comunque.

A settembre dovevo decidere cosa fare: rimanere a Trento, con il rischio che la mia permanenza fosse inutile dato che la didattica poteva diventare interamente a distanza da un momento all’altro – e di fatto, così è stato-, o tornare a Napoli e cercarmi anche lì un posto dove dormire. Così ho scroccato un materasso da amicu per un po’ per capire cosa fare. 

Indovinate? L’orgogliosa città universitaria di Trento, dalla parte dei buoni, con tutti quegli stimabili principi di servizi pubblici, la libera circolazione, le tasse basse, le biblioteche come se piovessero, fa una selezione atroce tra gli studenti, alla radice, di nascosto: non muove un dito affinché il costo della vita non sia vagamente più abbordabile, anzi. E nonostante la facciata, si trova del classismo più ipocrita e crudele, anche detto libero mercato. 

Gli affitti sono rimasti praticamente tutti carissimi, manco fosse chissà quale metropoli. I prezzi delle case non erano più bassi dell’anno precedente, come probabilmente sapete, anzi erano saliti. 

Le singole partivano dai 300 euro, le doppie dai 250 e per riuscire a scendere sotto i 200 ho visto gente dormire in quattro in triple, cose del tipo che ogni sera si giocava alla morra cinese per vedere chi dormisse per terra.

Il salvifico ruolo dell’opera universitaria, inutile a dirsi, non risulta salvifico. I prezzi standard senza borsa di studio non abbassano la media degli affitti, e a tappare i buchi del pubblico si inseriscono aziende private che credono di poter fittare posti letto a 430-450 euro al mese avendo pure la faccia tosta di chiamarli studentati (per ulteriori informazioni è consigliata la lettura dell’articolo nel link a fine pagina).

Il tasto dolente di tutto questo è che in altre città una situazione del genere porterebbe ad una orgogliosa ondata di occupazioni abitative, o almeno di tentativi. Questa città democratica, civile, felice, invece, è sede di una repressione tale da far abortire ogni spirito di iniziativa da basso, che non sia un mercatino bio o  una qualsivoglia attività radical-chic

Morale della favola, mi trovo a Napoli in un monolocale, davanti ad uno schermo a usufruire dei meravigliosi servizi dell’università di Trento, nella quale probabilmente non varrà più la pena di vivere. O magari sarà possibile con metodi diversi. 

 

Riferimenti:

https://curtrento.noblogs.org/post/2020/10/26/dalla-padella-alla-brace-nuovo-studentato-alle-albere/

Cronache di una tragedia annunciata

pubblichiamo delle interessanti riflessioni di un fuorisede a Trento ai tempi della pandemia.

Mi sono trasferito a Trento durante una pandemia globale che sta mettendo in ginocchio milioni di persone, frantumando progetti e psiche già duramente provate dalle strutture e oppressioni di questo maledetto tardocapitalismo. Ho incontrato ciò che migliaia di studenti fuorisede hanno conosciuto prima di me e che continueranno a conoscere per molto tempo: affitti folli, padroni di casa di merda, supermercati con prezzi ben oltre la mia portata e strade con più sbirri che panchine. Non basta, ho conosciuto quella particolare tendenza trentina a voler aumentare il numero di studenti a dismisura ma soltanto a lezione, con la speranza che cessino di esistere oltre la loro partecipazione accademica e non si facciano vedere per le strade per esempio volendo uscire la sera. Non intendo certo riprodurre il trito e ritrito luogo comune della guerra tra residenti e studenti, mi annoia abbastanza, ma credo che quanto detto da un’amica, cioè “qui a Trento non hanno ancora capito come spremere del tutto il portafoglio di noi fuorisede lasciandoci ammassare in luoghi di aggregazione a prezzi più bassi”, basti per riassumere la situazione generale. A cui si aggiunge la già citata stramaledetta pandemia che rende il tutto ancora più pesante e difficile. O forse no. Il coronavirus ha un pregio, il pregio di tutte le crisi incontrollabili: mettere a nudo le contraddizioni e costringere a pensarci, a darci un peso. Se non ci fosse la quarantena, il coprifuoco, il lockdown, l* poch* compagn* conosciut* in queste brevi settimane che scompaiono perché il sistema di tracciamento dei contatti dei positivi l* risucchia in una spirale di ansie e tamponi, forse la domanda “che ci fai a Trento?” avrebbe un significato diverso. Un anno fa avrei potuto arrampicarmi sui vetri, giustificare la mia presenza in questa città per le lezioni, il contatto con le persone, la (poca) vita universitaria. Ora tutto questo non esiste più. Le lezioni si seguono da casa e, a conti fatti, ci si rende conto che cambia poco, che la conoscenza verticale continua a franarti addosso anche se adesso puoi togliere audio e video e mandare a fare in culo i professori quando fanno la solita sparata maschilista o discriminatoria. E anche tutto il resto, come possiamo vedere facendo un giro davanti a una scaletta ormai svuotata (non ho fatto in tempo a provare lo champagnone, mannaggia al capitalismo), non si trova più. Dunque, perché sono a Trento? Per un’entità che nella mia mente si presenta astratta ma in realtà è tremendamente tangibile, materiale e prepotente: l’Università. Ottima risposta, ma quale università? Vale la pena approfondire meglio questo aspetto, tanto non abbiamo più nulla da fare oltre a qualche timido aperitivo, almeno finché ce lo fanno fare. L’ateneo tridentino è infatti primo nella classifica MIUR degli atenei di media dimensione italiani. Qualità dell’insegnamento alle stelle, strutture futuristiche, professor* disponibili. Per carità, forse in alcuni casi fortunati le aspettative verranno soddisfatte, ma per quanto riguarda la maggioranza siamo qui perché ci vendono, e a caro prezzo, un’idea di università che non esiste e la promessa di un futuro che manca. Ti raccontano che non si tratta del solito parcheggio per studenti che serve a non farci accorgere che non ci stanno lasciando nulla su sto pianeta, che dovremo fare la fame fino a quarant’anni per morire di cancro o climate change ai cinquanta. Il covid mi costringe a fare i conti con questo, sono uno studente fuorisede che studia in un’università che riproduce uno schema meritocratico-competitivo e oppressivo profondamente capitalistico come tutte le altre. Sono solo un po’ più privilegiato rispetto a chi studia in un ateneo di serie B, posso succhiare qualche ridicola goccia in più di un benessere negato alla maggioranza di cui faccio parte. Si, ho delle agevolazioni da studente, più di quelle che avevo nell’ateneo dove ho fatto la triennale. Ma a parte questo sono solo un piccolo ingranaggio in una catena di montaggio culturale, pago per esserlo, fatico per raggiungere uno status sociale classista di laureato che non mi porterà nulla se non forse uno sfruttamento leggermente meno peggiore di chi non è tanto privilegiato come me da potersi permettere di studiare. E mi rendo conto più di prima che io sono un numero di matricola, lo sono sempre stato e lo sarò fino alla laurea, questa università provvederà a mettermi dei numeri in trentesimi da associare a dei codici di esami finchè continuerò a pagarla regolarmente e mi vomiterà fuori inerme, catapultandomi dentro a una società profondamente ingiusta e disinteressata alla mia sorte. Fermiamoci un secondo. Tutto questo lo sappiamo già, chiunque abbia mai partecipato a un’assemblea universitaria ma anche liceale avrà già sentito gli slogan, condivisibili e legittimi come tutti gli slogan del resto, del tipo “no alla scuola dei padroni”. C’è qualcosa di diverso questa volta. Qualcosa che va più a fondo, che parte dalla didattica a distanza e arriva in un punto di indefinito malessere e rabbia. Perché diciamocelo, la didattica a distanza funziona fottutamente bene. Funziona nell’ottica di un’università fabbrica di cfu, è il tipico riciclo del capitalismo che trova il modo di salvarsi il culo a ogni fottuta crisi che provoca. Ecco la novità, ecco cosa non funziona: davanti a una crisi sanitaria profonda che comporta disastri psicologici ed economici per tutt* noi, l’università ha trovato il modo di andare avanti senza mettere in discussione nessuna delle sue strutture, nessuna delle sue finalità. L’università sta andando avanti senza noi, nonostante noi, questa volta in maniera più plateale del solito. Quando guardo i riquadri vuoti e neri di quell* che dovrebbero essere l* compagn* di corso, mi rendo conto che in questo schema, è possibile un’università senza studenti. Non solo è possibile, è auspicabile per il capitale. Qualsiasi spazio lasciato all’ultima ruota del carro della struttura accademica è scomparso. Non parlo solo di spazi fisici ma anche virtuali, solidali, organizzativi e politici. Resta una struttura svuotata, che almeno prima fingeva di voler essere riempita con le nostre idee e i nostri corpi, ora non più. Non c’è una comunità studentesca, non ci sono l* studenti, siamo gettati davanti alla nostra fragilità fisica come mai prima nella nostra vita e nonostante questo, nonostante questa mancanza violenta, questo vuoto incolmabile, l’università va avanti. Perché perdere mesi di lezione non si può, bisogna restare competitiv* e formare nuove vittime del mercato del lavoro in fretta. Non è servita una fottuta pandemia per mettere un freno all’università neoliberista, ad aprire la possibilità di una ridefinizione di cosa debba essere per noi questo luogo. E se il luogo che si professa come tempio del sapere e della discussione (tante belle parole) non è in grado di rimettersi in discussione, allora abbiamo un problema che va ben oltre le tasse, ben oltre i saperi liberi e accessibili, ben oltre gli spazi fisici in cui studiare.

Il covid congela tutto, congela questo mondo accademico in cui prima mi muovevo liberamente e mi toglie quelle distrazioni che mi facevano distogliere lo sguardo da questa verità: ci hanno intortato per anni e continuano ancora dicendoci che lo studio serve ad emanciparsi. Forse avrebbero dovuto insegnarci a disertare le strutture della conoscenza istituzionalizzata e neoliberista e ad assaltarne i palazzi. Ma lo stiamo imparando da sol*.

Ora so cosa ci faccio a Trento durante una pandemia globale: a Trento mi arrabbio. O forse sono sempre stato arrabbiato e Trento me lo fa ricordare.