Affitti: Tavolata in Provincia. fra chi ingrassa e chi non ha da mangiare.

brevi considerazioni sul tavolo aperto in Provincia fra le rappresentanze studentesche, l’Opera Universitaria e proprietari di immobili.

 

“Senza studenti fuorisede Trento perderebbe 40 milioni di euro in 4 mesi”.
Questa la ragione del tavolo di discussione convocato per l’emergenza affitti che ha visto la partecipazione provincia, sindacati, rettore e rappresentanze studentesche.

Paradossale che si inizi a parlare della situazione abitativa di studenti e studentesse solo quando iniziano a mancare i soldi nelle tasche di provincia, bar e palazzinari. Mentre sono anni che ci troviamo a denunciare una situazione che è da tempo insostenibile, con molt* student* che hanno dovuto abbandonare gli studi a causa del caro affitti o accettare i lavori più di merda per avere la possibilità di studiare. Per inseguire la promessa, puntualmente tradita, di poter fare un lavoro decente.

L’emergenza degli affitti è stata accelerata prima con l’arrivo di Airbnb a Trento, per poi esplodere durante la pandemia, con centinaia e centinaia di contratti d’affitto disdetti, come tutt* avranno notato dal ripetersi di annunci di stanze libere da subito. La provincia e l’università, dopo aver ignorato per mesi (e anni) il problema decidono di impegnarsi in un tavolo durato sessanta minuti. Come si è iniziato a parlare di regolarizzazione degli stranieri quando i latifondisti agricoli si sono accorti che senza migranti a spaccarsi la schiena nei campi per pochi spicci non ci va nessuno (se non sotto ricatto, vedi gli appelli a costringere a lavorare gratis disoccupati e recettori del reddito di cittadinanza), allo stesso modo si parla dell’emergenza affitti quando ci si è accorti che bar e palazzinari campano grazie agli student* fuorisede. E se con i migranti si propone come soluzione un permesso di soggiorno con la data di scadenza (a cottimo praticamente, tornando al discorso sul ricatto), per gli studenti si propone un bonus una tantum, pronto a finire nelle tasche, già abbastanza profonde, di chi affitta intere palazzine. Ennesimo esempio di come gli studenti universitari siano visti come mera carne da speculazione immobiliare: fanno comodo finchè c’è da pagare l’affitto, poi quando escono la sera per evitare che facciano casino, chiudiamo tutti i bar alle 23.

E pensare che c’è chi esulta per l’esito di quella che si può definire poco più di una chiacchierata. Così finita l’emergenza tutto tornerà alla normalità: palazzinari che perdono poco o nulla, affitti sempre più cari a causa dell’aumento della domanda dovuta all’apertura della facoltà di medicina,  studenti e studentesse – e le loro famiglie – impoverite dalla crisi, con, in aggiunta, l’impossibilità di trovare il lavoretto sporco, magari a nero, che ci permetteva di pagare una stanza doppia o tripla.

La questione abitativa era già un’emergenza prima del covid. Un bonus una tantum serve solo a parare il culo ai multiproprietari che da anni campano speculando sul diritto allo studio. Qui si tratta di reinventare l’abitare in città, calmierando i prezzi degli affitti mettendo un prezzo massimale nel contratto per studenti, è necessario aumentare il numero delle borse di studio – drammaticamente ridotto con il passaggio dall’ICEF all’ISEE di tre anni fa, è necessario porre fine alla speculazione sistematica sulle spalle di noi student*. Consapevoli del fatto che non sarà la provincia a cambiare questa situazione, visti i recenti tagli all’università, né un rettorato che ha sempre ignorato il problema, probabilmente ben contento della “selezione di qualità” – per non dire classista – che privilegia i “figli di” a discapito chi non può più permettersi di studiare fuori.

Con affitti e costo della vita che aumentano, ed istituzioni che pensano solo a difendere gli interessi di chi da questa situazione ci ha già mangiato abbastanza, non resta che rimboccarsi le maniche, organizzarci, difenderci da un attacco, fatto di silenziosa gentrification, che va avanti da troppi anni.

“Fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”: cosiderazioni su test d’ingresso e pedigree accademico.

Nel corso delle scorse settimane nei vari consigli di dipartimento dell’ateneo si è discussa la sostituzione dei test d’ ingresso alla laurea triennale con delle “modalità di valutazione sostitutive”, come quella approvata di fresco dal dipartimento di Sociologia e poi estesa a tutti i dipartimenti dell’area umanistico-letteraria.

La selezione delle nuove matricole sarà effettuata in base ai loro voti in pagella ottenuti alla fine del quarto anno di scuola superiore.

Su quanto sia classista questa decisione non ci dilungheremo a lungo: è comprovato da una pluralità di studi che gli studenti provenienti da contesti familiari “difficili o umili” (perché dire poveri è degradante) abbiano voti più bassi di coloro che provengono da famiglie benestanti o ricche.

Oppure il fatto che vengano fatte delle pericolose distinzioni fra scuole di serie A e di serie B: a parità di voto, chi ammettiamo lo studente di agraria o il liceale?

Crediamo che ognuno dei lettori possa trarre svariati esempi dalla sua esperienza personale riguardo a ciò che è stato appena detto, come anche avere memoria di figli di medici e professori -letteralmente ignoranti come le foche- spinti avanti a forza, classe dopo classe, con valutazioni gonfiate solo per la propria ascendenza familiare. E poi dicono che i figli degli operai non sono invogliati a studiare.

 

La scuola italiana e l’università, nulla di nuovo sotto il sole, riproducono le “diseguaglianze sociali”. Tuttavia l’analisi dei dati OCSE sulla mobilità sociale e l’università li lasciamo a udu e figc, non perché non siano importanti, ma perché vorremmo concentrarci su ben altro…

Per come è stata presa, quella di qualche giorno fa, sembra una decisione cieca e puramente ingiusta. Nessuno studente medio avrebbe mai potuto aspettarsi, che i suoi voti di quarta potessero influenzarne l’ammissione all’università. Inoltre dopo svariati esempi in giro per l’Italia di esami (scritti) svolti online, nessuno avrebbe mai pensato che lo svolgimento di un test d’ingresso potesse rappresentare un insormontabile problema tecnico, tanto da dover annullare i test d’ingresso in favore di altre modalità di selezione.

Oppure per semplificare:

Se la scuola che faccio mi fa schifo (e quindi vado male), non vuol dire che non abbia intenzione di iscrivermi all’università in linea con quelle che sono le mie passioni”.

Saremo anche “i soliti rivoltosi scansafatiche”, ma il concetto soprastante non ci pare tanto astruso e delirante da non essere condivisibile dai più.

Insomma: da qualunque parte la si prenda emerge il pensiero che si poteva fare altrimenti (e meglio).

Purtroppo, se possiamo attribuire la cecità di alcune scelte, in campo sociale o economico, alla stupidità della classe politica tridentina, non ci è possibile fare altrettanto con un collegio di professori universitari, i quali hanno sicuramente qualche neurone in più di Fugatti & Co e pensano prima di agire.

Insomma, questa scelta ci puzza e ci sembra fosse serbata da tempo dai vari amministratori dell’ateneo, infatti è perfettamente in linea con l’idea di “Università dell’Eccellenza” che viene portata avanti in quel di Trento: il set è quello di un ateneo piccolo, che punta sulla qualità della didattica, sui servizi allo studente e ad aggregare le migliori menti d’Europa.

Vediamo inoltre che per inseguire tale modello di didattico venga naturale pretendere una specie di pedigree dagli studenti dell’ateneo, non basta più avere una buona media di libretto, ma è necessario avere un buon curriculum, essere stati sempre meritevoli, essersi impegnati anche quando si era in quarta superiore.

Non è una svista che questo approccio sia classista e grossolano: è stato messo in atto anche nel dipartimento di Sociologia, non crediamo che i luminari che presiedono le cattedre di Via Verdi possano essere tanto sbadati da non accorgersi dell’ingiustizia che questo modello produce. Infatti solo 4 professori si sono astenuti dal votare a favore: triste (ed ennesimo) esempio di come il corpo docente sia totalmente piegato alle volontà del cda di unitn.

Ci teniamo a ripeterlo, le scelte che vengono prese all’interno di un ateneo non sono mai casuali.

 

Non stiamo dicendo che è sbagliato riconoscere il valore dei meritevoli, tanto meno vogliamo entrare nel discorso del merito caro alla sinistra (craxiana), ma stiamo mettendo in discussione la base di equità su cui viene costruita l’ammissione ai corsi di laurea.

Il fatto che siamo l’Università italiana che fornisce più servizi e agevolazioni ai suoi studenti, (“e ce credo a Trento so pieni de sordi”) passa in secondo piano rispetto alla necessità di dare a tutti l’opportunità di accedere a tali servizi e non solo “a chi è già bravo”.

Sono anni che la validità dei test di ingresso viene messa in discussione per via della loro inefficacia nell’appiattire le disuguaglianze dovute alla formazione superiore, la scelta dell’Università di Trento invece che muoversi in direzione opposta, tende ad acuire tali disuguaglianze. Un esempio di meritocrazia calvinista, che alimenta l’immagine di Università-Fabbrica (di crediti) a cui ci siamo abituati. Gli zuccherosi discorsi sul “lato umano delle cose” o “sull’educare ad essere liberi” stanno a marcire in un merdoso sgabuzzino insieme ai resti di un’istruzione pubblica mutilata.

Poi c’è la motivazione fornita dai professori alle rappresentanze studentesche (quasi a sancirne l’impotenza sulle decisioni di peso): il voto delle superiori è il fattore più predittivo per la carriera universitaria. Tutto assolutamente vero. Ricordate l’esame delle scuole medie? Un elenco di voti abbinata ad una voce piccolapiccola. Da 6 a 7 professionale, 8 tecnico, 9/10 liceo. Ricordate il professore dalla faccia spenta che ogni giorno vi ripeteva che non avreste combinato nulla nella vita perché non avete studiato lo stramaledetto di teorema di lavoisier? La faccia degradata di sistema basato su competività, scoraggiamento e selezione.

Come disse uno studioso di cibernetica: “E’ il vincolo che crea la rottura della simmetria dell’ugualmente possibile, è la rottura della simmetria che crea la premessa dell’ordine”.  E’ il modello cibernetico dell’università neoliberale: lo studente è un numero di matricola, la cui carriera è ampiamente prevedibile e monitorabile tramite un insieme di dati, dai voti delle elementari a quante volte accede sulla piattaforma della didattica online, passando per la sua partecipazione ai forum. Questi dati formano un profilo pronto a finire sulla scrivania di qualche addetto alle risorse umane che selezionerà i più diligenti.

Poi ogni tanto ci capita di udire qualche commento paternalista sull’incapacità dei giovani di accettare le delusioni. Tradotto: pur vivendo in un mondo di disuguaglianze orribili e crescenti, veniamo bombardati dalla nascita con pillole di cieca speranza sul fatto che diventeremo tutti persone di successo, come tali dividiamo l’università in “corsi fuffa” e “corso di studio investimento”, ci laureiamo pieni di speranze e ci ritroviamo nel mondo della precarietà giovanile, con uno stipendio pari o poco superiore a quello dei nostri genitori. E a quel punto qualche domanda ce la facciamo.

E allora che fare? Sentirsi in colpa ad essere così mediocri?

 

C’è un’altra cosa che ci sentiamo di dire, anche se la questione è molto scivolosa: cosa vuol dire formare l’eccellenza? È una questione meramente tecnica legata alla qualità della didattica e dei servizi, della connessione col mondo lavorativo, della formazione di persone eccellenti? O è qualcosa di più, legato all’ umanità nel prendere le decisioni, all’empatia con cui ci rapportiamo agli altri, alla capacità di vedere e comprendere i problemi del mondo e osservare con lenti nuove, più vere, le ingiustizie che ci circondano? Noi non crediamo che il modello attuale di Università sia questo, anzi, questa ricerca del pedigree, dell’assenza di peccato che spacciamo per eccellenza, sembra restituirci un calco arido di ciò che già ci circonda, ossia di una società dove coloro che eccellono sono tali poiché arrampicatisi su un cumulo di cadaveri. Essere il capo, non è figo.

Solo i migliori, i più diligenti ce la fanno, credito dopo credito, esame dopo esame arriviamo alla laurea senza aver imparato un cazzo da tutti quei valori e quelle frasi di un 68 pacificato con cui vengono tappezzate le bacheche universitarie. Siamo solo, estremamente e stancamente, competenti, con una tinteggiatura di pseudo-creatività per sembrare smart.

Quantificare e calcolare in modo feticista gli attributi umani, come diceva Walter Benjamin passeggiando in maniera splendidamente improduttiva per le strade di Parigi: “accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere”.

In questa forma essere diligenti, pacati ed austeri, in una parola: calvinisti. Diciamocelo è una miseria.

Ed è con estrema liberazione e piacere che questi casi ci sentiamo di dire: “fanculo l’eccellenza! Viva la mediocrità!”

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Nota a margine…

per farvi un’idea di cosa intendiamo per “frasi di un 68 pacificato con cui vengono          tappezzate le bacheche universitarie.” fatevi un giro al dipartimento di sociologia di Trento e guardatevi intorno…

 

 

“Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale”

Lo scritto che segue è un contributo alla riflessione intorno ai temi trattati nel libro “Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale” di Sarah Gainsforth, in vista della presentazione che si terrà il 15 febbraio presso la libreria duepunti di Trento. A seguire è prevista la pubblicazione di un altro elaborato riguardo l’operato di Airbnb a Trento.

Bando alle ciance e via col pizzone…

Dunque… cos’è Airbnb?

  • Ma come! Lo sappiamo tutti: Airbnb è una piattaforma digitale il cui scopo è mettere in contatto persone in cerca di alloggio, generalmente per brevi periodi, con persone disposte a mettere a disposizione una loro proprietà immobiliare “inutilizzata” (che sia una camera o un appartamento intero) in cambio di denaro. In cambio di questa intermediazione la piattaforma trattiene una percentuale variabile intorno al 5%. E questo garantisce ai privati di arrotondare e arrivare a fine mese, hai una stanza in più che non usi? La metti su Airbnb e tiri due euri.

 

  • Vuoi dire tipo Booking?

 

  • NO! Booking&Co sono dei SITI che mettono in contatto delle strutture specifiche del settore (Hotel, B&B, ostelli etc) con le persone in cerca di alloggio, quindi vedi, non vi è contatto umano, il denaro va direttamente dalle tasche del consumatore a quelle del proprietario dei grandi alberghi, nelle tasche dei soliti insomma… Inoltre, il sito trattiene una percentuale maggiore, anche il 30%. Airbnb invece è molto più democratico, distribuisce la ricchezza attraverso l’economia collaborativa, è orizzontale, si limita a fare da intermediario, mentre booking tende ad assomigliare più ad un erogatore di servizi.

 

  • Ma scusa alla fine non sono un po’ la stessa cosa? E poi mi pare di aver visto delle case messe su Airbnb apparire anche su Booking…

 

  • NOOO, certo che sei proprio de coccio oh. Airbnb è diverso… pensa che i fondatori della compagnia hanno avuto l’idea iniziale affittando dei posti letto, su dei materassi ad acqua, a dei turisti nel loro bilocale. In un momento di difficoltà economica hanno sfruttato l’intuizione che li ha fatti diventare miliardari tutti da soli. Dei piccoli geni che grazie alle loro perseveranza e capacità individuale si sono fatti largo nel feroce mondo della finanza e hanno vinto.

 

  • Apparte il fatto che non mi sembra sia andata proprio così e che non hai risposto alla mia domanda… ma scusa mettiamo il caso che io possieda 4 appartamenti dei miei parenti morti anzi un palazzo intero di appartameti, non potrei tipo metterli su Airbnb e svolgere praticamente la stessa funzione di un residence? Cioè ci guadagnerei di più che affittarli a degli studenti scampati de casa che si fumano le canne dentro e fanno casino.

 

  • Si certo.

 

  • Ok ma in questo caso, in assenza di regolamentazione, non ci sarebbe il rischio che tutti coloro che possiedono degli appartamenti in centro storico smettano di affittare ai residenti e agli studenti in favore dei turisti ricchi, influenzando il mercato degli affitti fino a far innalzare di brutto i canoni di locazione delle zone turistiche? Magari da far sì che nessun normale lavoratore precario, studente o disoccupato possa permettersi di alloggiare in quelle zone e sia costretto ad emigrare in periferia? Tutto questo contribuendo allo sviluppo di città bancarella, dove secondo il mantra de: “il turismo genera ricchezza” vengono giustificate l’espulsione degli strati di popolazione medio-poveri dal centro, la retorica del decoro e la costruzione di città resort, spersonalizzate ad uso e consumo dei turisti. Questo è il significato del termine gentrificazione di cui si sente tanto parlare…

 

  • Oh, ma sei mica uno di quegli stronzi del CUR? E poi la gentrificazione non esiste, è solo una storiella inventata da dei fannulloni che non hanno voglia di lavorare e che per non pagare l’affitto occupano le case ricorrendo a scuse pretestuose come questa.

 

  • Scusa ma ti rendi conto di ciò che stai dicendo? Cioè se non riesco a pagar l’affitto cazzo devo fare restar per strada in attesa di una casa popolare che non arriva e…

 

  • “Siete ancora ed oggi, come sempre dei poveri comunisti!”

 

  • Come prego!?

 

  • Vai a lavorare coglione…

 

  • …..

 

Anche se tragicomico, lo scambio di battute soprastanti cerca di riassumere alcune delle questioni e delle problematiche, che Airbnb ha portato dalla sua nascita nel 2007 ad oggi. La piattaforma infatti ha contribuito ad accelerare delle trasformazioni in corso nelle città e nello spazio urbano. Il dialogo soprastante cerca di sintetizzare le principali critiche mosse ad Airbnb e lo fa in maniera grottesca perché grottesche (nel senso di drammatiche) sono le conseguenze prodotte dal colosso digitale: cortocircuito legale sulla natura della piattaforma come fornitore di servizi o semplice intermediario, che si traduce in incapacità di normazione, speculazione dei palazzinari (aka multihost), gentrificazione.

Tutto questo ben giustificato e camuffato da un lato dalla zuccherosa retorica pseudo comunitaria dell’azienda, dall’altro dal mito dell’aiuto ad una classe media impoverita, quella che deve arrotondare e quindi affitta, che si risolleva grazie alla leva della sharing economy (ossia l’economia collaborativa, detta in maniera bestiale: tramite una piattaforma che ci mette in contatto ,“condividiamo le spese per la benzina”, “condividiamo la stanza”, “la lavatrice”, “tutto ciò che può essere consumato in maniera condivisa”, “conviene a te e a me e ci arrangiamo fra di noi, senza il bisogno di un erogatore di servizi dall’alto, pubblico o privato che sia”. La convenienza è infatti il principale propulsore di tale strategia).

Gli unici due fattori limitanti della sharing economy sono quindi la potenza del supporto tecnologico (piattaforma), che permetterà la messa in contatto fra le persone, e la “merce in palio” ossia quel bene da condividere, quel pezzetto del puzzle da cui estrarre valore. La magia accade qui: soffermandoci su quest’ultimo fattore potremmo chiederci, se avessimo i mezzi tecnici per farlo, quante sono le cose da cui potremmo estrarre valore condividendole? Molte, moltissime, parliamoci chiaro, noi mettiamo già a valore gran parte del nostro modo di vivere senza accorgercene, basti pensare al meccanismo dei cookies e delle recensioni, attraverso la condivisione (nel senso di sottrazione pervasiva e senza remore) dei nostri dati di navigazione offriamo la possibilità a chiunque sia capace di elaborarli, di propinarci delle pubblicità mirate. Pubblicità = Soldi.

Bon il pizzone l’abbiamo fatto e pure male, ma che c’entrano i cookies con Airbnb? C’entrano nella misura in cui sono due modi compatibili di mercificare dei beni appartenenti ad una sfera, privata o comune, che si fa sempre più ampia, estendendosi alla casa, alla città, ai nostri interessi privati, producendo concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.

Per questo si dice che il capitalismo – l’ha detto veramente? – si lascia stare che palle. – ha trovato il modo di estrarre ricchezza non solo dalla nostra manodopera e dalla nostra conoscenza, ma dal nostro bios. Ciò che si cerca di ridurre a merce da vendere e quindi mettere a valore è la nostra vita stessa. Tutto questo per 24 ore al giorno, non 8 come in un normale lavoro… In poche parole: ci dovete 16 ore di straordinari.

Altro mito da sfatare è proprio la retorica plasticosa ed intensa che Airbnb costruisce, attraverso lo story telling, intorno alla sua fondazione e al suo brand, o come direbbe qualcuno “our vision”. L’affitto breve di un appartamento dove nessuno abita, viene spacciato per un’esperienza indimenticabile, frutto della riappropriazione di un contatto umano che trova sempre meno spazio nelle città di oggi, le quali dinamiche frenetiche e di gentrificazione, che Airbnb contribuisce ad alimentare, hanno atomizzato gli individui metropolitani. Airbnb si propone allora come soluzione a tale problema, con la missione di riavvicinare le persone attraverso un atto di fiducia, talmente potente che normalmente lo riserveremmo solo alla nostra cerchia più intima, ossia la condivisione della propria casa. Tutto è fiabesco, colorato e furbetto. Finché c’entrano i soldi. Creazione di una narrazione comunitaria (Aribnb Citizen direbbero…) attraverso la distruzione di comunità reali. Ciò è un cortocircuito e un cane che si morde la coda e la gente ci crede.                                                                                                         Ma lasciamo la parola a quel giovanotto rampante, imprenditore miliardario, galletto della Sylicon Valley, CEO e co-fondatore di Airbnb, nonché filantropo scarso,

signore e signori ecco a voi: Brian Cheskyyyy!!!

– “immaginate se poteste costruire una città condivisa, dove le persone del posto diventano micro-imprenditori […] e le mamme e i papà tornano a fiorire” –

Questa retorica intrisa di calvinismo e radicata nell’ideologia neoliberale, per cui ognuno è imprenditore di se stesso, occulta il semplice fatto che le piattaforme hanno trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse. Producendo le conseguenze viste prima.

Non sorprende d’altronde che di classe media impoverita che arrotonda con Airbnb ce ne sia ben poca, infatti da come emerge dalla quasi totalità delle analisi, effettuate sui pochi dati rilasciati da Airbnb (perché Airbnb non li rilascia a meno di feroci battaglie legali o di inquinamento intenzionale  dei dati stessi), gli host non residenti, che affittano casa tutto l’anno e non solo occasionalmente, come propugnato dalla retorica dell’azienda (e quindi sottraendo le case al mercato immobiliare) sono la maggior parte.

In molti casi inoltre si viene a parlare di multihost, ossia proprietari di più appartamenti messi a disposizione, palazzinari, quelli che i soldi ce li hanno, li hanno sempre avuti e continuano a farseli con il mercato degli affitti brevi.

Il problema che si pone in questi casi tuttavia, è dare una definizione di quello che effettivamente è un affitto breve, o un multihost o Airbnb stesso (intermediario o fornitore di servizi?) e da questa definizione essere in grado di normare il fenomeno. Se non so cos’è non posso nemmeno dirgli cosa non può fare. La mancanza di regolamentazione a livello europeo lascia infatti la gestione del fenomeno relegata alla responsabilità delle varie amministrazioni locali, il che crea un cortocircuito legale che di certo non aiuta.

Per concludere: opporsi all’avanzata di Airbnb significa cercare di invertire la retorica attraverso cui la piattaforma stessa si auto-legittima. Di questo si sta parlando e questa è la posta in gioco. Perché diciamocelo, noi non ci crediamo, noi sappiamo che ciò non è reale e che non esistono vincitori, sappiamo che non è neanche lontanamente desiderabile la vittoria a questo gioco, quello della speculazione abitativa, rifiutiamo l’idea di ridurci ad imprenditori di noi stessi tanto quanto rifiutiamo l’idea di essere dei servi.

Per dirla con le parole della Gainsforth:

 “la retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza”

Questo articolo, con tutti i limiti del caso, spera di essere un piccolo passo verso questa prospettiva. Tuttavia, c’è anche da dirsi questo: se la retorica gioca un ruolo importante, il motivo principale per cui Airbnb continua ad espandersi si è detto all’inizio ed è la convenienza. Ad oggi le alternative ad Airbnb (hotel, B&B, residence, tutte, esclusa Couchsurfing, forse, che però è un’altra storia) sono meno convenienti economicamente e lo saranno sempre. Inoltre, se vogliamo trovare una soluzione non dobbiamo nemmeno abbandonarci alla facile equazione: “Airbnb è brutta, quindi vogliamo gli alberghi”. Perché i risvolti sarebbero i medesimi, la gentrificazione infatti esiste da ben prima che Airbnb nascesse. Il vero nocciolo della questione è questo: Airbnb si innesta su un modo di intendere la città e lo spazio urbano di un certo tipo, se vogliamo cambiare le cose dobbiamo ripensare questo modello.

Semplificando: Vogliamo una città per tutti o solo per alcuni? Per tutti o ad uso e consumo della triade: evento/immagine/turismo

“Em gehort die Stadt?” come recita la vernice sui muri delle città tedesche da qualche anno a sta parte:

“a chi appartiene la città?”

Se il motto di Airbnb negli ultimi tempi è diventato “belong anywhere”, appartieni ovunque, ebbene forse è necessario scomporre questo mantra e farlo nostro per ricomporlo in tutt’altra direzione. Per tornare a riappropriarci dello spazio urbano che ci è stato sottratto, della ricchezza e del comune che è in noi,

non è diritto naturale, ma verità etica, la città ci appartiene e noi ce la riprendiamo.

Questo è quanto, non vi è spazio per il curioso da bar, per lo sciacallo da talk-show, per l’annoiato che in queste righe cercava delle facili risposte, non vi è alcuna rivelazione messianica, non ne abbiamo e non ci crediamo. La ricerca di risposte reali passa attraverso miriadi di vicoli ciechi, abbagli, arresti, ripartenze. Le soluzioni le stiamo ancora passando all’affilatoio della nostra immaginazione, ma con la cocciutaggine e la curiosità che ci distinguono, abbiamo iniziato a porre le domande.

Non vi preoccupate, ci rifaremo presto vivi.

a presto

POLIZIA NEGLI STUDENTATI? NO GRAZIE!

Si dice che, a volte, la realtà superi la fantasia. Ebbene questo è uno di quei casi. È notizia di questi giorni l’ordine esecutivo con il quale Fugatti, il re sole de noantri, predispone la cessione di 16 stanze dello studentato Mayer per ospitare la nuova truppa di poliziotti che arriverà a Trento (erano forse quelli destinati ai corsi di genere nelle scuole superiori?). Naturalmente questi uomini in divisa, verranno a rendere più sicuro quel bronx che è il capoluogo trentino.

Come Collettivo Universitario Refresh, riteniamo indecente e inaccettabile la nuova genialata della giunta provinciale, ma soprattutto ci sorgono spontanee alcune domande. Se la sicurezza è tanto cara alla Lega trentina, quale sicurezza ci può essere nel vedersi negato un proprio diritto, come il diritto allo studio e all’alloggio? Quale sicurezza può esserci nel vedersi buttat* fuori dalla stanza in si è abitato per mesi, in una città in cui il problema di alloggi e affitti e student* è ormai lampante per tutt* ? Quale sicurezza ci può essere nel condividere uno studentato con i prodi agenti della polizia italiana, celebre per il rispetto dei più basilari diritti?

Sappiamo bene che queste domande non riceveranno alcuna risposta da parte di una giunta provinciale in grado esclusivamente di reprimere, tagliare ed escludere. Oltre alla rabbia e all’indignazione, il nostro pensiero va a quelle persone che dovranno lasciare lo studentato e continueremo a seguire la vicenda perché se la Lega pensa di poter fare i propri porci comodi in università ha proprio sbagliato a capire e troverà sempre studentesse e studenti ad opporsi alle sue decisioni.

Nuovi tagli all’educazione di genere? NO GRAZIE!

Dall’inizio del 2019 la questione dell’educazione alle differenze di genere è stata al centro del dibattito politico trentino. Infatti poco dopo la pausa natalizia è stata resa nota la notizia che l’appena insediata giunta provinciale avrebbe negato i fondi per continuare i percorsi educativi sul genere all’interno delle scuole trentine. Si sono susseguite numerose iniziative, a cui anche noi in prima linea abbiamo partecipato, ma la risposta da parte della provincia è sempre stata di chiusura e, in alcuni casi, di repressione vera e propria (https://curtrento.noblogs.org/post/2019/03/23/il-dissenso-non-si-sgombera-riflessioni-sui-fatti-del-22-marzo/).

Ma partiamo dal principio: nel 2012 viene approvata una legge provinciale sulle pari opportunità, il cui primo articolo afferma: “La Provincia promuove la parità di trattamento e opportunità tra donne e uomini, riconoscendo che ogni discriminazione basata sull’appartenenza di sesso rappresenta una violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali in tutte le sfere della società”. In concreto questa legge fornisce alla provincia la possibilità di elargire fondi per percorsi educativi e formativi che abbiano come tema centrale quello delle differenze di genere e delle pari opportunità.

Nel 2018 la legge comincia a concretizzarsi e i fondi vengono distribuiti a soggetti pubblici e privati, che rispettassero i canoni previsti. In alcune scuole della provincia vengono dunque organizzati dei corsi, i quali hanno come obiettivo primario quello di educare giovani studenti e studentesse al rispetto della libera autodeterminazione di ogni persona, cercando di limitare, arginare ed estirpare fenomeni quali il bullismo, le discriminazioni e l’omofobia. A detta di insegnanti, genitori e student* in primis, questi corsi hanno aiutato molti e molte ad andare oltre gli stereotipi di genere che la società fin troppo spesso impone e a rispettare tutte le differenze e le identità altrui. Ed è proprio per questo che numerose soggettività hanno deciso di schierarsi in difesa di questi percorsi e in solidarietà alle formatrici, attaccate vergognosamente a mezzo social da rappresentanti della politica trentina.

Purtroppo però la questione non si esaurisce così e l’assessora Segnagna qualche giorno fa dichiara la volontà della provincia di voler elargire i fondi, ma restringendo e limitando le tematiche di intervento dei corsi alla sola parità tra uomo e donna. I corsi dovranno dunque trattare solamente la tematica della discriminazione della donna, ma non dovranno in alcun modo affrontare il tema dell’omofobia. In questo modo la giunta provinciale spera di potersi ripulire la coscienza dopo le numerose polemiche e le iniziative di rivendicazione portate avanti in questi mesi da chi, come noi, crede in una scuola libera da qualsiasi forma di sessismo. La posizione assunta dalla provincia è una posizione retrograda, che sputa in faccia ad anni di ricerca e di studi sul genere, grazie ai quali si è riusciti a superare il binarismo di genere uomo-donna e a dar voce a tutte le diverse identità e soggettività esistenti.

L’omofobia è un fenomeno e un problema sociale reale, che va combattuto giorno dopo giorno in ogni sua forma e manifestazione. E il primo passo è formare le menti dei e delle giovani al rispetto e alla reciproca solidarietà, alla possibilità di autodeterminare se stess* e il proprio corpo.

I corsi devono essere ricostituiti così come erano stati pensati originariamente o, ancor meglio, implementati e aumentati, rendendoli obbligatori in tutte le scuole e a tutt* gli/le student*.

Complici e solidali con le e gli scioperanti del servizio bar e mensa universitaria.

Complici e solidali con le e gli scioperanti

Il 15 maggio 2018 alle ore 11:00 è giunta la notizia della decisione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici dei bar e delle mense universitarie di entrare in sciopero per le giornate del 15 e del 16 maggio 2018. La notizia è stata diffusa al termine di un’assemblea sindacale svoltasi nel corso della mattina del 15 maggio 2018 che vedeva come nodo centrale della discussione l’ormai annosa vertenza che contrappone le lavoratrici e i lavoratori dei bar e delle mense universitarie e l’azienda Sma ristorazione, appaltatrice dell’Opera Universitaria, di cui sono dipendenti.

A differenza di altre organizzazioni, in questa occasione non ci importa  concentrare la nostra attenzione sul possibile disagio che questo sciopero può aver provocato alle avventrici e agli avventori del servizio ristorazione dell’Opera Universitaria. Ciò a cui vogliamo dare il maggior risalto possibile sono la situazione lavorativa a cui queste lavoratrici e questi lavoratori sono costrett* e le responsabilità politiche dell’Opera Universitaria il cui silenzio e immobilismo non  hanno certo contribuito a migliorare la  situazione. La Sma ristorazione divenne appaltatrice dell’ente trentino per il diritto allo studio nel 2011 e da allora col passare degli anni, oltre alla diminuzione della qualità dei pasti è corrisposto un peggioramento delle condizioni in cui le e i 70 dipendenti dell’azienda si trovano a lavorare. Una situazione fatta di cassa integrazione a rotazione dal 2015, ferie e straordinari non pagati e poche garanzie per il futuro, visto che alle richieste avanzate dalle rappresentanze sindacali la controparte aziendale non ha fornito nessuna risposta né ha mostrato alcuna intenzione di trovare possibili soluzioni. L’Opera Universitaria, che tanto si fregia di essere a livello nazionale uno degli enti per il diritto con i migliori risultati per quanto riguarda lo student housing, sul fronte della ristorazione delle mense non vantare risultati altrettanti eccellenti. Infatti, nonostante il numero dei pasti erogati sia in calo, l’O.U. ha accuratamente evitato di prendere posizione evitando di affrontare le spinose questioni che riguardano il settore mense. L’ente per il diritto allo studio non ha messo in campo nessuna azione per tentare di invertire la tendenza della diminuzione del numero di pasti erogati. Come, d’altro canto, nulla è stato fatto per il miglioramento delle strutture fatiscenti in cui si trovano le mense e che data questa condizione pregiudicano il lavoro.

Come Collettivo Universitario Refresh, in quanto student* che hanno attraversato in plurime occasioni le mense universitarie per un pasto o un volantinaggio, non possiamo tutta la nostra complicità e solidarietà a tutt* coloro che hanno deciso di aderire a questa due giorni di scioperare per rivendicare quella dignità che l’azienda per cui lavorano vorrebbe negare loro. Noi che quotidianamente ci organizziamo all’interno di Unitn per rivendicare e lottare un’università e un mondo diverso siamo al loro fianco e daremo loro tutto il supporto che necessiteranno fino a che non vinceranno la loro vertenza.

Rompiamo il ricatto, costruiamo il riscatto!