CURinQuarantena#3 – Colpevoli Ovunque

…Riflessioni di un compagno su covid e vicinato…

 

20 Marzo 2020

Allora, vediamo di mettere in ordine le idee finchè c’ ho ancora il crimine addosso. Dunque…

Vivo in un remoto paesino di montagna della Val Belluna, per capirsi una di quelle gemme incastonate nel verde delle Prealpi, dove ogni vecchia casa è accostata ad un fienile, i rumori del bosco ti accompagnano prima di coricarti e il cemento ancora non strangola il sole. Per capirsi, uno di quegli abitati che mezzo secolo fa contava 200 persone e ora non arriva a 50, dove i campi di granturco lasciano pian piano spazio ai vigneti tossici, che qualche magnate trevisano del prosecco decide di piantare e farcire di pesticidi, comprando la terra di qualche vecchietto mezzo morto. Il classico frutto dello spopolamento della montagna: a fare il contadino ti spacchi la schiena “par do schei” e quindi vai a lavorare in fabbrica (giustamente). Il comune tagli i fondi al trasporto pubblico, le botteghe e le osterie chiudono, vivere quassù diventa scomodo e il paese inizia a dissanguarsi.                                                                                        Fra le vecchie case nel bel mezzo de paese, ve n’è una in particolare, ormai mezza in rovina, che attirava spesso la mia attenzione di bambino. Sulla canna fumaria infatti vi è incisa una scritta, ripassata a caratteri rossi nella malta, che recita: “1855 anno del colera”. Emblematico.                                                                                                     Da qualche giorno infine, a turbare la tranquillità amena del caseggiato, sono le sirene e gli alto-parlanti della polizia locale, ad echeggiare fra le viuzze intimando alla gente di rimanere in casa.

Tutto questo preambolo sostanzialmente non serve a un cazzo al fine del discorso. Era solo per dire che mi piace il posto dove vivo e ora che la quarantena mi stringe in casa ho molto più tempo per apprezzarlo. Andiamo avanti…

A differenza dell’annoiato e bolso poltronaro che è il sottoscritto, i genitori si discostano nettamente dalla suddetta prole, la gente lì definirebbe “dei tipi sportivi”, cioè che vanno a correre e in bicicletta un tot di volte a settimana: è il loro modo di mantenere l’equilibrio psicofisico.

Arrivando al dunque: col coronavirus a seminare il panico, nell’ultima settimana abbiamo assistito ad una sempre maggior insistenza, nei discorsi dei politicanti/esperti/opinionisti vari, nell’invitare la gente ad evitare il più possibile i contatti ravvicinati fra le persone, sacrosanto visto la pericolosità della patologia e la precarietà del sistema sanitario in questi giorni.

Nel senso che se incontri una persona malata (untore) e questa ti passa il virus e poi tu lo passi a tua volta è un casino, quindi meglio evitare di accalcarsi alle porte dei supermercati. Ossia che perché il virus si diffonda questo deve passare da una persona all’altra e per farlo devono esserci più soggetti a distanza ridotta. Nel senso che la diffusione dell’epidemia di per sé non c’entra un cazzo con lo #stareacasa, ma con gli atteggiamenti (ir)responsabili che i singoli mettono in atto, cioè l’accalcarsi alle porte del supermercato e il frequentare ambienti ristretti. Vabè sta di fatto che la gente è scema, quindi è normale che lo Stato cerchi di dare un messaggio semplice, chiaro e difficilmente fraintendibile, optando per la riduzione del danno, insomma #staiacasa.

E fin qui mi sta bene, il problema tuttavia inizia a presentarsi quando l’hashtag di cui sopra, inizia ad essere assunto come dogma, senza passare per il buonsenso, appiattendo la molteplicità delle situazioni al rigore univoco dell’ordinanza. Detto in parole povere: non importa a nessuno che tu stia andando a correre in piena campagna dove non incontrerai anima viva, resti comunque un trasgressore che mette a repentaglio la vita di tutti, DEVI STARE A CASA, anche se il precedente ragionamento manca di un filo logico.E vabè di leggi assurde ce ne sono tante, la novità che emerge con forza è un’altra: ossia che il giudizio delle trasgressioni, che formalmente è delegato alle autorità giudiziarie e alle forze dell’ordine, viene collettivizzato per diventare un giudizio diffuso, poichè la tua azione mette a rischio l’intera comunità. Chi fa jogging viene criminalizzato (da tutti) solo per il fatto di uscire di casa, non importa che eviti i luoghi affollati o utilizzi dei DPI.

Cioè che la colpa della catastrofe è di chi va a correre, non di chi ha tagliato i fondi alla sanità pubblica, esternalizzato a privati i servizi essenziai, ridotto i posti letto negli ospedali e ora continua a mandare la gente a lavorare nonostante il pericolo contagi: tipo mio padre che salda in fabbrica 8 ore al giorno, incazzato agro col mondo, che torna a casa, per sfogarsi va a fare un giro in bicicletta e gli fanno pure la multa.

 

Con queste parole non intendo assolutamente minimizzare la gravità della situazione o negare l’importanza dello “stare a casa” come metodo di contenimento dell’epidemia: di sicuro non andrei a trovare mia nonna dopo aver leccato tutte le maniglie dello Spallanzani (semi-cit). Come di sicuro non è mia intenzione sminuire il dolore di chi in questo momento sta soffrendo. Quello che vorrei invece mettere in luce è l’effetto che questo clima di tensione inizia a produrre negli individui.

 

Insomma: la mia vicina di casa ha fatto un post su Facebook, delirante, in cui condivideva la sua personale gioia nel vedere denunciati i trasgressori delle ordinanze restrittive e con un tono fra il sognante e il maligno si augurava di poter denunciare (delazione) lei stessa alle autorità coloro che “vanno a correre in beffa ai decreti e all’interesse di tutti”.

Peccato il post sia stato cancellato prima che io potessi screenshottarlo

In seguito a questo episodio ho pensato 3 cose:

  • Che è meglio che i miei non si facciano più vedere in short e scarpe da ginnastica
  • Che la mia vicina sta fuori
  • Che il coronavirus è risultato essere un mezzo di orizzontalizzazione del conflitto, ancor più efficace del razzismo diffuso.

Non basta il fatto che la forzatura del covid abbia portato lo Stato a munirsi di dispositivi di controllo (sociale) sempre più invasivi (ad esempio il monitoraggio degli spostamenti attraverso il GPS dei cellulari), il clima di tensione è ben completato dagli sguardi e dai sospetti delle persone che ti stanno intorno. In mezzo a tutto sto casino, a coloro che attribuiscono alcune delle colpe della situazione attuale ai potenti e ai politicanti (verticalizzando il conflitto), viene risposto, nel migliore dei casi, che ora non è il momento di creare divisioni inutili, poiché adesso è il momento di stringersi tutti assieme attorno al Tricolore e affrontare la tempesta. Da una parte quindi vi è la riconciliazione con lo Stato, dall’altra l’individuazione del nemico interno. La colpa viene addossata a coloro che escono di casa, solo per il fatto di farlo e non per l’effettiva possibilità che le loro azioni costituiscano un pericolo effettivo.

In questo modo il conflitto esplode in orizzontale -tutti contro tutti- e con maggiore intensità rispetto ad altre modalità di esplosione come quelle che caratterizzano le dinamiche razziste e xenofobe.

E così, fra un inno nazionale e l’altro, la situazione nelle fabbriche e nelle carceri passa in sordina. Da qua a due settimane son morte quasi 15 persone nelle galere, morte nel senso di ammazzate a suon di manganello e poi imbottite di barbiturici per mascherarne l’uccisione, son tante e non se ne parla già più. Confindustria continua a mandare la gente in fabbrica anche in Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna che sono le regioni più colpite dal covid. Un sacco di lavoratori a chiamata hanno già perso un posto di lavoro che probabilmente non riotterranno. Gli affitti van pagati, ma il danaro scarseggia.

Il problema non è più sapere se sia effettivamente più pericoloso lavorare mezza giornata in mezzo a 200 persone o andare a correre al parco da soli, ma il fatto che porsi tale domanda sia considerato inutile o non pertinente, poiché tutto viene appiattito all’osservanza del decreto restrittivo. La legge è la legge.

Mi chiedo cosa accadrebbe se questa impostazione venisse mantenuta anche ad emergenza finita, quando dovremo tutti lavorare come le bestie per far ripartire l’Italia e guai a chi fiata pretendendo di andar in pensione a 67 anni. Staremo ancora a cantare l’inno nazionale mentre assembliamo occhiali, con ritmi più incalzanti e stipendi più bassi? Chi giudicherà il nostro approccio al lavoro, il padrone o sarà collettivizzato fra i colleghi? Ce la prenderemo (ancora) fra di noi o pretenderemo gli scalpi di chi negli ultimi 30 anni ha macellato il corpo sociale?

Mi chiedo se quando torneremo alla nostra quotidianità ritorneremo anche alla “normalità”, o presenteremo delle riserve nell’ approcciarci ad altri per paura che possano “attaccarci qualcosa”. Chissà se questo periodo di quarantena in cui, per forza di cose, siamo ripiegati su noi stessi ad una dimensione individuale, (chi più chi meno) avrà dei risvolti sui nostri comportamenti futuri. Ultimamente capita di sentire molte riflessioni, legate al coronavirus, sull’idea di morte nella società occidentale e sulla nostra visione antropocentrica, chissà se a virus debellato avremo un rapporto più sereno con la morte o ci spaventerà ancora di più?

 

Forse dovremmo prestare attenzione anche alla lettura di questi aspetti: più interiori (un po’ alla libro cuore se vogliamo), ma che potrebbero restituirci un mondo diverso da come l’abbiamo conosciuto prima che la porta di casa scivolasse alle nostre spalle.

Se già ci viene raccomandato di prepararci ad un periodo di recessione, ai fini della comprensione di tale periodo, sarebbe bene ricordare che la crisi non è mai solo economica, ma anche esistenziale e metafisica.  E a chi nella crisi si muove, sta il compito di darne un’interpretazione, tale per cui, quando calerà la mannaia delle conseguenze, questa non ricada sui soliti sfigati, ma sulle teste di coloro che se lo meritano.

(foto -fatta col telefono- della scritta a cui accennavo… lo so no se capis gnint!)

CURinQuarantena#1 – l’irruzione del virus nella storia

 

…riflessioni di un compagno a partire dal covid 19…

L’Irruzione del Virus nella Storia

“I Virus sono briganti proteiformi, organismi capaci di cambiare il mondo

– Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri

 “In un istante le si rivelò nella sua completezza la portata del suo stesso inganno,

 e si domandò atterrita come avesse potuto incubare per tanto tempo

 e con tanta sevizia una simile chimera nel cuore.”

– Gabriel Garcia Marquez, Amore ai Tempi del Colera

La biologa e filosofa Donna Haraway, per descrivere il nostro tempo, ha coniato il termine Chthulucene in opposizione ai soffocanti discorsi antropocentrici dell’Antropocene. Se è vero che l’impatto dell’uomo sulla terra è così devastante da essere pari ad una forza biologica, queste narrazioni riproducono la centralità dell’uomo nel nostro modo di pensare il mondo.  Il Chthulucene invece, è fatto di storie multispecie, in un continuo divenire, quando il cielo non è ancora caduto ed il mondo non è ancora finito. In una temporalità aperta, nella sua precarietà dove gli esseri umani, nonostante ci piace crederlo, non sono gli unici attori rilevanti. Fino a qualche settimana fa avremmo potuto considerare questo distinguo come una sottigliezza in confronto all’apocalisse climatica e alla potenza dell’homo come deus e boia del mondo.  La produzione discorsiva sulla natura come alterità è radicata nella storia del colonialismo, razzismo, sessismo e dominazione di classe di diversi tipi. Esso è alla base dell’episteme moderno che costituisce l’umano come essere allotropico che, accecato dalla luce e dal calore del ritmo produttivo delle macchine, si pone al di fuori della storia e utilizza la natura come misura della propria civiltà. La osserva come fosse il riflesso deformato di sé stesso. La manifestazione più evidente, nella sua drammaticità, è nella storia colonialismo ed il suo farsi biologico tramite la razza. Ma lo stesso ragionamento, nel suo rovescio, lo si trova nell’ambientalismo contemporaneo, nell’idea che dell’umano che deve salvare la natura, come se esso non ne facesse parte. Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende: e se invece che in guerra con il virus, esso fosse l’alleato?

L’inaspettato avvento di Covid-19 nelle trame della storia ci spoglia del privilegio di considerare l’homo sapiens potenza geologica indiscussa, rivelando, nel chiuso delle case, la nostra fragilità. Ci ricorda che siamo mortali, indipendentemente dalla quantità di farmaci e integratori che ingurgitiamo quotidianamente.

Ma sono i sistemi che all’interno dell’inganno, mostrano il fianco alla ferita mortale.

Il Covid-19 non è un caso o una punizione divina. Negli equilibri di un mondo sempre più precario, il virus si pone come antagonista del tardo capitalismo. La pressione di un modello di sviluppo insostenibile sul sistema pianeta genera delle reazioni in direzione opposta. Lo dimostrano i numeri sull’aumento degli spillover (o salti di specie) negli ultimi anni. SARS, Mers, Ebola e Covid-19, quattro nuovi antagonisti in meno di vent’anni. Come spiega una ricerca pubblicata sulla rivista Nature[1], le cause dell’aumento di salti di specie da animale non-umano a umano è da rintracciare nel cambiamento climatico e nel mutamento degli ambienti generato dell’uomo. Deforestazione, urbanizzazione e allevamenti intensivi in primo luogo. Tuttavia, i salti di specie non si possono fermare. Anche se si iniziasse da domani ad attuare strategie massicce di riforestazione, decostruendo e ricostruendo il nostro spazio antropico, i contatti tra le specie aumenterebbero lo stesso[2]. Centinaia di virus alla ricerca di nuovi serbatoi, per proseguire la secolare guerra che ci ha preceduto e ci succederà.

Nell’impossibilità, e mancanza di volontà, di affrontare l’altro che irrompe nella storia con la sua cieca avanzata, privo di considerazione per le nostre costruzioni culturali e sociali, di vita, di morte, di economia; il virus ci mostra e ci racconta nell’immagine del suo negativo: il corpo del mostro sociale infetto.

Il dramma del virus nel discorso egemone è nella negazione della potenza altra, il non accettare l’antagonista. Esso viene negato come altro vivente, e ridotto ad un attributo dell’umano. Non si parla dell’eterna guerra tra virus e animali, ci dicono che siamo in guerra con – e tra – umani in quanto possessori del virus. Una guerra civile. Da qui il panico, terrore, la paura, per quell’agente infiltrato, invisibile, pronto a radicalizzarsi, moltiplicarsi ed esplodere.

Non possiamo o non vogliamo accettare l’alterità, abbiamo bisogno di trasfigurarla in vesti umane: l’untore, immagine riesumata dal medioevo per nutrire l’ampia rassegna delle punizioni per chi infrange i divieti anti-contagio. Dodici anni di carcere per concorso in epidemia. Peccato solo che le nostre gabbie siano troppo larghe per rinchiuderci anche gli organismi acellulari.

Pronti alla guerra ma non all’accettazione del virus in quanto tale: un brigante proteiforme che fugge da serbatoio a serbatoio, pronto per lo sfruttamento di cellule espropriate necessarie per la sua avanzata sui corpi come forza (ri)produttiva.

Dobbiamo difendere la Società!

La reazione dell’olobionte organico è istintiva. Lockdown. Almeno per quello che raccontano. Il vero lockdown rappresenterebbe il collasso reale del sistema, come bloccare il flusso del sangue che gli permette la vita. L’unica via sarebbe l’amputazione di una delle sue parti, isolare, distinguere calcolare, riappropriarsi della possibilità di scegliere chi vive, e chi lasciar morire. Tenere in movimento solo le cellule che ne possano garantire la tenuta: le grandi industrie, la logistica, l’informazione. E mentre Confindustria continua a premere per tenere aperte le aziende, mentre gli anticorpi medici vengo usati come carne nuda ad arrangiarsi nel lazzaretto del sistema sanitario neoliberista, la narrazione sugli eroi e i cavalieri che tengono in vita il corpo-stato risuona come l’inno nazionale sulla via di Caporetto. Si canta, ma con il fucile puntato sulla schiena. Mentre il virus permea nell’epidermide della bestia, esso, impaurito continua a chiudere i confini, in una mischia selvaggia in cui, adesso, non si sa più chi lascia fuori chi e chi rimane chiuso in cosa. La lotta non è tra uomo e virus ma tra due sistemi.  E se un sistema sfrutta e si appropria di corpi per riprodursi, l’altro lo attacca, rivoltando al contrario la stessa strategia, ma sfruttando la sua debolezza: bisogna salvare la società, ad ogni costo. Per questo il virus fa paura, perché è la cospirazione che esplode all’interno del sistema.

Perché in fondo vorremmo essere il nemico, il virus. Vorremmo cambiare così velocemente la nostra corporalità, considerata intrinsecamente e cronicamente malata. Vorremmo non essere così attaccati all’esistenza anche quando rischia di diventare la completa negazione di essa. Rinchiudersi, salvarsi, cercare gli untori. Appena svegli, sentiamo il bisogno di usare compulsivamente il termometro, vedere i bollettini di contagiati, morti, guariti, persi nell’’ansiogena arte del calcolare, misurare, controllare. Accendere il computer: lavarsi le mani cantando due volte happy birthday. MERRY CRISIS AND HAPPY NEW FEAR.

Perché il virus si propaga a causa delle condizioni di vita che ci sono state imposte. Vivere ammassati in megalopoli senza cielo, in città-assemblaggio frammentate, settorializzate a seconda dell’idea di vita che dovrebbero condurre chi le abita. Dai centri storici, ai centri commerciali, dalle industrie ai deserti di cemento delle periferie. Un organismo decomposto, ma connesso a velocità impossibili i cui ritmi adesso si rivoltano contro. Le infrastrutture, che con la loro velocità prima erano il simbolo del potere, adesso sono i veicoli di accelerazione di contagi che prima impossibili. Treni, aerei, metropolitane, supermercati e centri commerciali. Persino l’ospedale, nella sua configurazione moderna come istituzione totale, non può che essere cassa di risonanza per il contagio[3].

Ma non c’è nessun nuovo attacco, nessuna guerra che non era già in corso. Quanti e quante erano soggett* al ricatto di scegliere tra vita e lavoro, quanti e quante frequentavano un’università che offriva nulla se non esami e lezioni. Quanti e quante vivono per strada ed erano già sottopost* a provvedimenti repressivi criminali. Quante strade e piazze erano già vuote per la guerra contro il degrado, quanti e quante cercavano il nemico, se prima nell’immigrato, ora nel vicino di casa che fa jogging. Quanti e quante erano chius* in casa con la sensazione di non riuscire a respirare. La guerra contro la socialità, la vivibilità delle città, il diritto all’abitare, case e spazi che ci appartengono, era in corso da tempo. Il virus rende visibile ciò che prima, ai più, era nascosto. E la nostra guerra era e sarà il disgusto per le vite che vogliono farci vivere. E la combatteremo mostrando con orgoglio le ferite che lascia il passaggio dello stato di emergenza.

Del resto, l’esercizio del potere moderno è caratterizzato dalla rottura dei confini tra ciò che è biologico e ciò che è politico. Il biopotere si nutre del conatus, il vivere ad ogni costo, ottimizzando, misurando ed economicizzando la vita. D’altronde, si dirà, come si piò visualizzare amichevolmente la morte? “La battaglia non è l’unica via per indicare il processo della vita mortale”, dice Haraway, “le persone che affrontano le conseguenze, spesso mortali, del virus HiV, hanno ribadito che loro vivono con l’AIDS, piuttosto che accettare lo statuto di vittime, o di progionier* di guerra”[4]. È l’idea militaristica dell’infezione che apre gli scenari più inquietanti. E la sua decostruzione la via d’uscita.

Il primo scenario è la gestione dell’emergenza, e delle emergenze che verranno, all’interno dello stesso paradigma: controllo e militarizzazione. D’altra parte, la gestione dell’epidemia da parte dei paesi ultraliberali (UK in primis) è quella di non bloccare la macchina produttiva, con Boris Johnson che parla “di prepararsi a perdere i propri cari” espellendo già da adesso quei “cari” del corpo dell’organismo sociale. Donald Trump prova ad acquistare il brevetto di un vaccino di un’azienda tedesca chiedendo l’esclusiva per gli USA. Le meraviglie del capitalismo.

E le misure di lockdown di altri paesi, come l’Italia, per quanto potranno protrarsi nel tempo?

L’azienda DiaSorin, qualche settimana fa, ha brevettato un test diagnostico per il coronavirus che restituisce gli esiti in un’ora. E se per molti può apparire come uno strumento per salvaguardare la salute della popolazione, esso rischia di essere un nuovo strumento del (bio)potere. Come sostiene Michael Foucault in storia della sessualità, nella modernità il diritto sovrano di uccidere non poteva essere mantenuto se non minimizzando i crimini in sé e amplificando la mostruosità dei criminali: “uno ha il diritto di uccidere chi rappresenta un tipo di pericolo biologico per gli altri” (p.138). È in “nome della cura che avvengono i più grandi massacri”. Muoversi tra gli interstizi lasciati vuoti da stato e mercato sarà l’unica via possibile per fuggire da un leviatano sempre più aggressivo.

Il secondo scenario che si affaccia sugli orizzonti delle nostre finestre di quarantena è quella rizomatica espressa da Deleuze e Guattari in mille piani: l’involuzione. Essa non va confusa con la regressione, ma è una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei. L’involuzione è creatrice, non procreatrice: se regredire è andare verso il meno differenziato, involvere è formare un blocco che segue la propria linea, che diviene-altro seguendo le linee più astratte e tortuose di varie dimensioni e direzioni spezzate. Divenire rizoma significa annullare i confini tra natura e culture, abbandonare il verticalismo gerarchico delle strutture di pensiero occidentale in favore di un’orizzontalità libera, da esplorare in tutte le dimensioni possibili, senza preclusioni. Significa rivedere in maniera radicale il come viviamo, gli spazi in cui viviamo creando alleanze meticce e simbiosi transpecie. Seguendo non la nostra linea, ma la propria linea, quella di tutt*. Iniziare a vedere la natura come topos, un luogo, uno spazio in cui si condensano temi condivisi. Creare autonomia, tessere nuovi rapporti partendo dalla ricostruzione di comunità sulle necessità. Creare orti e mercati di quartiere, socializzare le tecniche, un patrimonio condiviso che troppo spesso è stato silenziato. Rompere le relazioni basate sull’estrattivismo, ricreare lo spazio urbano come spazio “improduttivo”, riappropriandosi di quelle conoscenze legate ai luoghi. E ripartire da lì.

La natura è, strettamente, un luogo comune[5].

R.D.

[1] https://www.nature.com/articles/nature06536

 

[2] https://www.iltascabile.com/scienze/spillover-coronavirus/

[3] https://www.fanpage.it/attualita/coronavirus-lallarme-di-ilaria-capua-in-lombardia-sta-succedendo-qualcosa-che-non-si-spiega/

[4] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri, p.24

[5] Donna Haraway, Le Promesse dei Mostri

Dentro l’attentato: Hanau vista da qui. Di fiabe, fantasmi, lupi solitari e progetti eversivi.

Hanau è una tranquilla città di circa 100mila abitanti situata ad una ventina di chilometri da Francoforte, nel Bundesland dell’Assia, nota per aver dato i natali ai fratelli Grimm.

Mercoledì sera, Tobias Rathien, un uomo di 43 anni di nazionalità tedesca, decide di attuare quello che aveva in mente da tempo. Prende la sua auto e si reca ad Heumarkt, piazza centrale della città nel quale è presente uno shisha bar  frequentato perlopiù  da ragazzi e ragazze di origine turca e curda. Scende dalla macchina e spara a freddo, uccidendo tre persone. Torna alla macchina e corre a tutta velocità verso il quartiere periferico di  Kesselstadt, dove prende di mira un altro shisha bar e uccide altre sei persone. Le vittime sono di nazionalità curda, turca e bosniaca, una di queste era una donna incinta. Dopo il massacro torna a casa, spara alla madre, con cui conviveva, e si suicida.
Gli shisha bar, locali in cui si fuma il narghilè, sono da tempo al centro del dibattito politico. Il partito di estrema destra Alternative fur Deutschland (AFD), infatti,  da tempo accusa questi locali di essere al centro di un giro di riciclaggio di denaro gestito dalla malavita turca.

Qualche settimana prima Tobias Rathaus aveva pubblicato su youtube un video rivolto ai cittadini statunitensi, nel quale incitava a combattere contro una società segreta militare che tiene in prigionia e abusa sessualmente  bambini statunitensi. “Wake up”, “fight now”, “You have to belive me”.  Un concentrato di complottismo della durata di meno di due minuti (https://www.lastampa.it/esteri/2020/02/20/news/hanau-la-video-confessione-di-tobias-il-lupo-solitario-della-strage-in-assia-1.38493039).
Nella sua casa sono stati ritrovati dei documenti, scritti da lui in ottimo tedesco, di circa 20 pagine, nel quale si sostiene l’eliminazione fisica di cittadini tedeschi  di origine mediorientale per “comprovata inferiorità biologica” e lo sterminio delle persone dei paesi nord africani, mediorientali e centro asiatiche.
Nei media, sopratutto italiani, si accentua l’instabilità mentale, la follia dell’assassino.

Tuttavia ogni disordine psichico suggerisce qualcosa sul piano sociale.  

Eversione

Quello di Hanau è l’ennesimo attentato di matrice razzista negli ultimo mesi in Germania. Lo scorso Giugno a Kassel, sempre in Assia, viene ucciso Walter Lubke, politico apertamente schierato per l’accoglienza di persone migranti. Lo scorso ottobre, ci fu un attentato alla sinagoga di Halle nel giorno dello Yom kippur. Sono ventuno gli attentati negli ultimi sei mesi diretti verso centri di accoglienza per stranieri. Tutti questi attentati si muovono all’interno di uno scenario politico totalmente inedito in Germania. L’AFD continua a salire nei sondaggi con percentuali intorno al 30 percento nella Germania centro-orientale e del 15/20 percento nella Germania occidentale. Il “cordone sanitario” promosso da Angela Merkel nei confronti dei partiti di estrema destra/neonazisti funziona a corrente alternata. La cancelliera, infatti, è alla fine della sua carriera politica e nel suo partito, la CDU, molti ammiccano verso destra immaginando di poter cavalcare l’onda nera. Nel Bundesland più a sinistra della Germania, la Turingia, nelle scorse settimane per pochi giorni si era concretizzato un governo CDU/AFD, prima che la Merkel bloccasse tutto e silurasse i capopartito regionali.
Tuttavia questi attentati hanno una particolarità: si sono concretizzati tutti, fatta eccezione per l’attacco alla sinagoga di Halle, nella Germania Ovest.

Nell’Est, ormai da anni si vedono manifestazioni neonaziste oceaniche, accompagnate dalla crescita continua dell’AFD. Il moltiplicarsi di gruppi neonazisti nell’est può essere ricondotto a dinamiche simili a quelle di alcuni paesi dell’est europeo come Ungheria e Polonia: l’impatto del capitalismo globalizzato dopo la caduta del muro, migrazioni di massa, la ricerca di nuove mascolinità egemoniche delle società post-comuniste.  Un problema perlopiù legato alla ricerca di una nuova identità che non trova espressione all’interno del discorso  sulla società aperta. Nel 2018 a Chemnitz, in Sassonia, una manifestazione neonazista, indetta in seguito all’uccisione di un cittadino tedesco per mano di due persone di origine mediorientale, prende alla sprovvista la polizia che, a causa dell’imprevedibile affluenza può solo guardare migliaia di neonazisti col braccio teso, sotto il monumento intitolato a Karl Marx, dediti a fare rappresaglie razziste per la città.

Tuttavia è nell’Ovest che il network neonazista sembra essere più organizzato, strutturato, sistematico. Ed è qui che la crisi identitaria assume caratteri peculiari.

Da anni si susseguono attentati di matrice razzista ad opera di “lupi solitari”. Nel maggio 2019 il Ministero degli Interni tedesco ha dichiarato che in Germania sono al momento attivi 24.000 neonazisti, 12.000 dei quali vengono considerati pronti alla violenza.  Un esercito sotterraneo parallelo alla galassia neonazista che arriva fino all’AFD. Un esercito la cui struttura è ignota, ma che fa riferimento a livello di simbologia e azione, alla NSU-Nationalsozialistischer Untergrund.

Questa organizzazione, tra il 1998 ed il 2011, è stata responsabile di decine di rapine, 3 attentati bombaroli e 9 omicidi. La maggior parte di essi a Ovest. Questi omicidi, che coinvolsero 8 commercianti turchi ed uno Greco,  vennero indicate dalla stampa tedesca come “omicidi del kebab”. Infatti, nonostante tutti gli omicidi furono eseguiti  con la stessa arma, la polizia per anni seguì esclusivamente una pista legata a resa di conti tra criminalità organizzata turca. Questo senza alcuna evidenza, se non il pregiudizio etnico che affligge le vittime, tutte incensurate.

La storia della NSU è inquietante  e tutt’ora piena di lati oscuri. Ritardi nelle indagini, documenti distrutti da funzionari di polizia, allarmi dati in ritardo e catture mancate. Pochi istanti prima della cattura, una delle leader del gruppo provò a distruggere quanti più documenti sull’organizzazione, suggerendo che essa era (è?) più strutturata di quanto si pensava in precedenza. Il processo sul NSU coinvolge solo 4 persone, su un network stimato di centinaia di militanti.
Quando uscì fuori pubblicamente il caso della NSU fu un vero e proprio dramma  per la società tedesca. La nazione che più di ogni altra ha guardato in faccia la propria storia si trova in casa, dopo settant’anni,  i fantasmi del razzismo che, tramite limitazioni politiche, istruzione, celebrazioni e stratagemmi linguistici, pensava di aver definitivamente archiviato.  Le mezze verità emerse dal processo e dalle commissioni parlamentari non sono considerate esaustive. Ricerche di varia natura e documenti sul NSU vengono tutt’ora raccolti sul blog indipendente NSUwatch  (https://www.nsu-watch.info/).

Una frattura che rischia di diventare voragine

La specificità storica della Germania viene avvertita da una parte con grande razionalità, dall’altra come un peso insuperabile. Tradotto: se in Italia la resistenza ha posto le basi per una base antifascista identitaria  comune (che da anni ormai viene progressivamente attaccata – vedi foibe-), la pervasività del nazionalsocialismo nella storia tedesca degli anni ’30/’40 non ha permesso, a livello identitario, il lavaggio di coscienza collettivo dell’Italia del dopoguerra. E se la società tedesca appare fortemente disorientata ed alla ricerca di una nuova identità, a sinistra il peso della storia ha generato delle fratture ideologiche molto forti. Gruppi che fanno riferimento all’ anti-deutschland da un lato cercano di decostruire la stessa idea di Germania come nazione , dall’altra non perdono occasione per attaccare il resto del panorama movimentista con accuse di antisemitismo, rendendo evidente la difficoltà nel trovare un’identità unica che possa essere egemone. Questo smarrimento storico-ideologico è evidente nella dissonanza cognitiva, che si traduce in forte divisione, degli ambienti della sinistra tedesca  quando  si parla di Israele. Mentre intanto, dall’altra parte, avanza la destra più aggressiva dai tempi del dopoguerra. Che il razzismo lo pratica per davvero.
All’interno di questa frattura identitaria agisce il piano eversivo neo-nazista. Il terrorismo  neonazista infatti, agitando questi fantasmi, crea nella società un senso di inquietudine che è difficilmente risolvibile nella dialettica politica.  L’irrisolta questione identitaria non può che essere declinata, nel discorso istituzionale, all’interno dello spazio discorsivo dello stato-nazione, lasciando ampi spazi politici a narrazioni di tipo etno-nazionalista. Non a caso il fantasma neonazista spesso emerge all’interno di quelle istituzioni che ne riprendono la struttura organizzativa: polizia, esercito, servizi segreti.

Parallelismi

Nei media Italiani la reazione agli attentati di Hanau si perde tra psicologismi sul killer e affinità con l’attentato  razzista di Macerata del 2018 di Luca Traini. Anche nel caso di Luca Traini è disponibile una lunga e dettagliata rassegna stampa sullo stato della sua salute mentale. Tuttavia, nonostante la modalità di attentato siano simili, ci sono, oltre i differenti contesti e network di riferimento, due importanti differenze. La prima è nella reazione pubblica, la seconda è nella pratica politica.

I politici tedeschi, dalla CDU all’SPD dai Verdi alle Die Linke, hanno tutti parlato di un virus razzista che si muove all’interno della società, senza ambiguità. Angela Merkel dopo l’attentato ha dichiarato: “Il razzismo è un veleno, l’odio è un veleno e questo veleno esiste nella nostra società”.  Reazioni molto diverse da quelle sentite in Italia post-Macerata. Nessun  “questa  è la reazione all’immigrazione incontrollata” della premiata ditta Meloni&Salvini. Nessun richiamo pacificatore stile PD.

I cittadini di Hanau nei giorni successivi sono scesi in piazza contro il razzismo, una piazza trasversale e istituzionale, molto diversa dalla doverosa manifestazione di Macerata, che era stata vietata dal sindaco PD. A livello istituzionale la Merkel a fatto sapere di essere pronta ad assumersi la responsabilità di sciogliere altre organizzazioni della destra, oltre i limiti delle già restrittive leggi in vigore.  Tuttavia ci si interroga se queste organizzazioni, in cui viene inclusa anche l’AFD, siano piuttosto che la causa, il sintomo.

Anni di neoliberismo sfrenato ed estremismo di centro, di cui la Merkel è stata promotrice in tutta Europa,  ed il logoramento dei rapporti sociali hanno sicuramente creato un ambiente fertile per la ricerca di una appartenenza forte, generata sul confine nazionale, bianco, maschio ed eterosessuale (tra l’altro l’attentatore faceva parte di un network misogeno di “single per scelta”, ma questa è un’altra storia).

A livello di movimento, su qualsiasi giornale autonomo, vengono effettuate vere e proprie network analysis sulle organizzazioni neofasciste. Vengono seguiti i movimenti dei membri di spicco, gli incontri, persino i passatempi (che, stranamente, spesso includono il poligono e la caccia). Non ci si fida, visti i precedenti, della polizia. Negli scorsi mesi furono resi pubblichi dei report di controspionaggio, secondo i quali sono presenti circa 600 infiltrati neonazisti tra le fila delle forze armate.

Il rapporto tra forze armate, servizi segreti e neofascisti, è un triangolo che in Italia è tristemente noto da decenni. Tuttavia, è necessario documentare, investigare, conoscere come si muovono e comunicano tra loro le organizzazioni neofasciste.

Perché i lupi solitari, così solitari, in fondo non lo sono. Anche se ci piace credere il contrario. Che siano comunità fisiche o immaginarie, esse hanno simbologie, miti e pratiche comuni. Il moltiplicarsi di queste nella scena pubblica e virtuale genera mostri.

Si può credere alle fiabe di lupi cattivi, di matti senza scrupoli e di bambini in pericolo. Tuttavia ogni fiaba , come insegnano i fratelli Grimm, affonda il suo rovescio nel reale, dove c’è bisogno di qualcuno che sappia leggerla.
E la morale, letta fra le righe, dice di conoscere il tuo nemico, per combatterlo.

Young Leghistino sbarca in università

È notizia degli ultimi giorni che, dopo un lancio in grande stile all’Hotel America alla presenza e con il placet dell’assessore Mirko Bisesti, la Lega aprirà la propria lista universitaria, LiberaMente – Alternativa per il Futuro, che, alla prima occasione utile, si candiderà alle elezioni studentesche imponendosi come il terzo attore politico della rappresentanza.

Questa notizia è passata quasi in sordina. Perché allora il Collettivo Universitario Refresh decide di darle rilevanza, spendendoci fiumi di inchiostro? Perché non abbiamo nulla da fare? Assolutamente no. Perché la Lega ci è indigesta? Mentiremmo se rispondessimo no, ma, anche in questo caso, non è la risposta corretta. La motivazione è che, a nostro modesto modo di vedere quest’operazione non è così innocente come vorrebbe apparire.

Ma andiamo con ordine. La lista universitaria della Lega non è il primo tentativo di entrare e imporsi in Università. Da quando la Lega è al governo numerosi sono stati gli episodi di entrismo: dalla nomina del nuovo presidente dell’Opera Universitaria all’attrito con il Rettore dell’Università riguardo alla futura Facoltà di Medicina, passando per i poliziotti allo Studentato Mayer. Un elemento comune a tutti gli episodi citati è l’opposizione di quei kommunisti di Udu. Quindi molt* di voi potrebbero pensare che questi young leghistini non vogliano farsi rappresentare da una lista, che, a parole, si dichiara di sinistra. Ci dispiace ancora ma no non è questo il punto. Infatti, per la Lega le attuali liste universitarie non costituiscono poi un problema, come, ahi noi, si è visto in occasione del secondo invito di Fausto Biloslavo. Allora quale caspita può essere il punto centrale della questione? Bene, è molto semplice.

L’assessore con il codino, Mirko Bisesti, ha capito che per poter asservire completamente l’Università ai desideri della Lega ha bisogno di persone all’interno dell’istituzione universitaria che fungano da diretta cinghia di trasmissione del partito provinciale e che lavorino come sponda all’interno degli organi d’Ateneo. Non a caso le persone presenti all’Hotel America sono state incensate e descritte come “brave persone che lavorano per il bene comune, in sinergia con le istituzioni provinciali e comunali”. Ma la decisione di lanciare LiberaMente nasconde un altro lato ancor più pericoloso e sottile del primo. Infatti, come la Lega ha fatto con l’invito a Fausto Biloslavo, è chiaro e lampante il tentativo di far entrare pubblicamente in Università la sua cultura, basata su falsificazioni storiche, discriminazione, elogio del nazionalismo e strizzatine d’occhio al neofascismo italico, attraverso momenti pubblici utili a sdoganare posizioni che, fino a questo momento, all’interno dei luoghi di formazione, vengono ancora considerate irricevibili dalle e dai più. È un caso che uno dei nomi proposti come candidato sindaco per Trento sia stato proprio Armanini, un docente di Unitn? Noi crediamo proprio di no.

Come Collettivo Universitario Refresh, abbiamo la pessima abitudine di imparare dalle nostre esperienze e, purtroppo per la Lega, non solo non vogliamo tanti piccoli young bisestini in università, ma abbiamo anche capito quale sia la strategia dietro il lancio di un’innocente lista universitaria di rappresentanza. Sappiano Francesco Dellagiacoma e accoliti che, da parte nostra, troveranno una ferma opposizione alla loro operazione di sdoganamento della cultura fascioleghista e alla presenza dell’estrema destra dentro le aule universitarie. Detto questo non nascondiamo la nostra curiosità nel sapere quanti e quali fascistelli popoleranno le liste di LiberaMente, nascondendosi dietro la retorica delle brave persone che hanno a cuore il benessere di chi studia, possibilmente bianchi e itagliani sia chiaro. Beh che dire noi siamo pront* ad opporci alla loro presenza e al loro tentativo di egemonia culturale e voi?

Se lo siete anche voi incontriamoci, parliamoci e organizziamoci e se volete trovarci siamo ogni lunedì dalle 18:00 alle 20:00 in atrio a Sociologia.

Patrick libero subito! Contro la repressione del governo egiziano

Patrick Zaky, 27 anni, è un giovane ricercatore egiziano, traferitosi a Bologna per un master presso l’Università in studi di genere. Il 7 febbraio è tornato in Egitto per andare a trovare la propria famiglia, ma è stato arrestato non appena atterrato all’aeroporto, con l’accusa di istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione. Patrick è un attivista presso l’iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr). Dopo l’arresto il ragazzo sparisce per 24 ore e si hanno nuovamente sue notizie dopo 24 ore, quando viene portato alla procura di Mansoura.

Le accuse deriverebbero da alcuni post pubblicati dal ragazzo sulla propria pagina Facebook e dalla sua collaborazione con un’ONG egiziana che si occupa di diritti umani. I reati sarebbero quelli di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo. Pare inoltre che Patrick sia stato picchiato e torturato e che abbiano usato su di lui l’elettroshock, chiedendogli informazioni sui suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni.  Ad oggi Patrick è ancora in carcere, è stato trasferito in un altro commissariato e non si hanno notizie certe sul suo stato di salute psico-fisica. La prossima data cruciale per la vicenda di Patrick Zaky è il 22 febbraio. In quella data infatti, scadono i 15 giorni della prima ordinanza di detenzione e si terrà quindi a Mansoura un’udienza per decidere se rinviare a giudizio il ricercatore, se prorogare di altri 15 giorni la detenzione o nel caso più favorevole predisporne il rilascio. Se decideranno invece di mandarlo a processo con le accuse di istigazione alle proteste e propaganda di terrorismo rischia dai 13 ai 25 anni di carcere.

Il governo egiziano ha messo in piedi una vera e propria macchina repressiva, uno stato di eccezione permanente in cui la libertà di espressione e di ricerca sono limitate e messe a tacere con l’utilizzo della violenza. Arresti arbitrari e prolungati sono all’ordine del giorno, con violazioni continue dei diritti umani.

Questa vicenda ci porta nuovamente a riflettere sul ruolo che l’Italia e l’Europa hanno nel mantenere rapporti con un governo che costantemente viola i diritti e le libertà individuali. Dopo la morte di Giulio Regeni infatti le relazioni economiche tra lo stato italiano ed egiziano sono aumentate invece che diminuite. Il silenzio che ormai regna sul caso Regeni e il fatto che ancora non si sappia la verità su quella vicenda, così come il fatto che Patrick è ancora in carcere senza un regolare processo, pone in luce come l’Italia sia da considerare complice di questa repressione e violazione dei diritti, non essendo in grado di assumere una posizione contro lo stato d’eccezione presente in Egitto.

Chiediamo l’immediata liberazione di Patrick e pretendiamo che le istituzioni prendano una posizione chiara su questa vicenda affichè Patrick non diventi il nuovo Giulio e possa tornare libero.

Rivendichiamo inoltre la libertà di ricerca e vogliamo che tutt* i/le ricercatori/trici siano liber* di muoversi, di studiare e di produrre sapere critico in tutti gli ambiti di studio.

Patrick libero subito!!

Nei CPR si muore, e noi sappiamo chi è stato

Il 18 gennaio 2020 giunge la notizia che un migrante detenuto nel CPR di Gradisca è morto mentre era ricoverato in ospedale a causa di una rissa. Nei giorni seguenti sono arrivate le testimonianze degli altri detenuti, secondo le quali le lesioni che avrebbero portato alla morte del ragazzo sarebbero state inflitte dalle guardie del centro. Il tutto parte da una cosa piccola piccola come il telefono, V. non lo trova più e inizia a lamentarsi con le guardie, che non lo ascoltano e lo riportano nella sua cella. Lui per protesta si colpisce da solo con una mazza di ferro allo stomaco. Viene portato in infermeria, ma quando torna le lesioni sono evidenti e, di certo, non dipendono dal colpo che si è autoinflitto. Nei due giorni successivi sta visibilmente male, chiede aiuto, ma nessuno gli presta soccorso. Allora comincia a ribellarsi, gridando per attirare l’attenzione dei poliziotti, ma quando arrivano scoppia una rissa con il compagno di cella, che lui credeva stesse collaborando con le guardie. Loro intervengono per separarli, lo picchiano ancora, lo bloccano a terra e gli mettono le manette, e lo trascinano fuori dalla cella, quasi fosse un pezzo di carne.

Nessuno ha più notizie, V. non torna più in cella, e poco dopo si scopre che è morto, origliando delle conversazioni.

È chiaro chi siano i responsabili di questa morte, è chiaro come il fatto che fosse un migrante non sia una casualità, è chiaro come la polizia ancora una volta abbia abusato del proprio potere. Nei CPR le violenze e gli abusi sono all’ordine del giorno, i CPR sono centri di detenzione e non serve a nulla chiamarli Centri di permanenza per il rimpatrio, perché noi sappiamo bene cosa rappresentano in realtà. Sono la diretta rappresentazione di anni di politiche securitarie, in cui i migranti sono visti come un rischio o un pericolo da cui proteggersi. La morte di questo ragazzo è un chiaro segnale, purtroppo uno dei tanti, di come la politica internazionale, ma soprattutto quella italiana, stiamo prendendo una deriva sempre più razzista e discriminatoria nei confronti di chi viene identificato come diverso.

La detenzione dei migranti con l’unica finalità del rimpatrio e senza che abbiano effettivamente compiuto un qualche reato, è una pratica lesiva dei diritti umani e della libertà individuale di fronte a cui non è più possibile rimanere in silenzio. Così come i continui atti di violenza e gli abusi di potere in divisa non possono più essere ignorati o nascosti sotto il tappeto, utilizzando la scusa del tragico incidente o del “era una persona problematica”. L’Italia si conferma un paese in cui se sei straniero vieni discriminato, vieni rinchiuso in una cella, vivi in centri di accoglienza senza alcuna dignità e, “se necessario”, ucciso. L’Italia si conferma il paese in cui se hai una divisa puoi sentirti libero di usare violenza, di privare chiunque della propria libertà e dignità, di picchiare, abusare e utilizzare metodi disumani, e rimarrai impunito, nonché elogiato per il servizio reso alla comunità.

A noi però le divise non sono mai piaciute e ci siamo sempre schierati dalla parte di chi lotta per la propria libertà, per questo esprimiamo tutta la nostra vicinanza alla moglie e alla famiglia del migrante ucciso e ribadiamo a gran voce che i CPR e tutti i centri di detenzione dei migranti debbano essere chiusi immediatamente!!