Dentro l’attentato: Hanau vista da qui. Di fiabe, fantasmi, lupi solitari e progetti eversivi.

Hanau è una tranquilla città di circa 100mila abitanti situata ad una ventina di chilometri da Francoforte, nel Bundesland dell’Assia, nota per aver dato i natali ai fratelli Grimm.

Mercoledì sera, Tobias Rathien, un uomo di 43 anni di nazionalità tedesca, decide di attuare quello che aveva in mente da tempo. Prende la sua auto e si reca ad Heumarkt, piazza centrale della città nel quale è presente uno shisha bar  frequentato perlopiù  da ragazzi e ragazze di origine turca e curda. Scende dalla macchina e spara a freddo, uccidendo tre persone. Torna alla macchina e corre a tutta velocità verso il quartiere periferico di  Kesselstadt, dove prende di mira un altro shisha bar e uccide altre sei persone. Le vittime sono di nazionalità curda, turca e bosniaca, una di queste era una donna incinta. Dopo il massacro torna a casa, spara alla madre, con cui conviveva, e si suicida.
Gli shisha bar, locali in cui si fuma il narghilè, sono da tempo al centro del dibattito politico. Il partito di estrema destra Alternative fur Deutschland (AFD), infatti,  da tempo accusa questi locali di essere al centro di un giro di riciclaggio di denaro gestito dalla malavita turca.

Qualche settimana prima Tobias Rathaus aveva pubblicato su youtube un video rivolto ai cittadini statunitensi, nel quale incitava a combattere contro una società segreta militare che tiene in prigionia e abusa sessualmente  bambini statunitensi. “Wake up”, “fight now”, “You have to belive me”.  Un concentrato di complottismo della durata di meno di due minuti (https://www.lastampa.it/esteri/2020/02/20/news/hanau-la-video-confessione-di-tobias-il-lupo-solitario-della-strage-in-assia-1.38493039).
Nella sua casa sono stati ritrovati dei documenti, scritti da lui in ottimo tedesco, di circa 20 pagine, nel quale si sostiene l’eliminazione fisica di cittadini tedeschi  di origine mediorientale per “comprovata inferiorità biologica” e lo sterminio delle persone dei paesi nord africani, mediorientali e centro asiatiche.
Nei media, sopratutto italiani, si accentua l’instabilità mentale, la follia dell’assassino.

Tuttavia ogni disordine psichico suggerisce qualcosa sul piano sociale.  

Eversione

Quello di Hanau è l’ennesimo attentato di matrice razzista negli ultimo mesi in Germania. Lo scorso Giugno a Kassel, sempre in Assia, viene ucciso Walter Lubke, politico apertamente schierato per l’accoglienza di persone migranti. Lo scorso ottobre, ci fu un attentato alla sinagoga di Halle nel giorno dello Yom kippur. Sono ventuno gli attentati negli ultimi sei mesi diretti verso centri di accoglienza per stranieri. Tutti questi attentati si muovono all’interno di uno scenario politico totalmente inedito in Germania. L’AFD continua a salire nei sondaggi con percentuali intorno al 30 percento nella Germania centro-orientale e del 15/20 percento nella Germania occidentale. Il “cordone sanitario” promosso da Angela Merkel nei confronti dei partiti di estrema destra/neonazisti funziona a corrente alternata. La cancelliera, infatti, è alla fine della sua carriera politica e nel suo partito, la CDU, molti ammiccano verso destra immaginando di poter cavalcare l’onda nera. Nel Bundesland più a sinistra della Germania, la Turingia, nelle scorse settimane per pochi giorni si era concretizzato un governo CDU/AFD, prima che la Merkel bloccasse tutto e silurasse i capopartito regionali.
Tuttavia questi attentati hanno una particolarità: si sono concretizzati tutti, fatta eccezione per l’attacco alla sinagoga di Halle, nella Germania Ovest.

Nell’Est, ormai da anni si vedono manifestazioni neonaziste oceaniche, accompagnate dalla crescita continua dell’AFD. Il moltiplicarsi di gruppi neonazisti nell’est può essere ricondotto a dinamiche simili a quelle di alcuni paesi dell’est europeo come Ungheria e Polonia: l’impatto del capitalismo globalizzato dopo la caduta del muro, migrazioni di massa, la ricerca di nuove mascolinità egemoniche delle società post-comuniste.  Un problema perlopiù legato alla ricerca di una nuova identità che non trova espressione all’interno del discorso  sulla società aperta. Nel 2018 a Chemnitz, in Sassonia, una manifestazione neonazista, indetta in seguito all’uccisione di un cittadino tedesco per mano di due persone di origine mediorientale, prende alla sprovvista la polizia che, a causa dell’imprevedibile affluenza può solo guardare migliaia di neonazisti col braccio teso, sotto il monumento intitolato a Karl Marx, dediti a fare rappresaglie razziste per la città.

Tuttavia è nell’Ovest che il network neonazista sembra essere più organizzato, strutturato, sistematico. Ed è qui che la crisi identitaria assume caratteri peculiari.

Da anni si susseguono attentati di matrice razzista ad opera di “lupi solitari”. Nel maggio 2019 il Ministero degli Interni tedesco ha dichiarato che in Germania sono al momento attivi 24.000 neonazisti, 12.000 dei quali vengono considerati pronti alla violenza.  Un esercito sotterraneo parallelo alla galassia neonazista che arriva fino all’AFD. Un esercito la cui struttura è ignota, ma che fa riferimento a livello di simbologia e azione, alla NSU-Nationalsozialistischer Untergrund.

Questa organizzazione, tra il 1998 ed il 2011, è stata responsabile di decine di rapine, 3 attentati bombaroli e 9 omicidi. La maggior parte di essi a Ovest. Questi omicidi, che coinvolsero 8 commercianti turchi ed uno Greco,  vennero indicate dalla stampa tedesca come “omicidi del kebab”. Infatti, nonostante tutti gli omicidi furono eseguiti  con la stessa arma, la polizia per anni seguì esclusivamente una pista legata a resa di conti tra criminalità organizzata turca. Questo senza alcuna evidenza, se non il pregiudizio etnico che affligge le vittime, tutte incensurate.

La storia della NSU è inquietante  e tutt’ora piena di lati oscuri. Ritardi nelle indagini, documenti distrutti da funzionari di polizia, allarmi dati in ritardo e catture mancate. Pochi istanti prima della cattura, una delle leader del gruppo provò a distruggere quanti più documenti sull’organizzazione, suggerendo che essa era (è?) più strutturata di quanto si pensava in precedenza. Il processo sul NSU coinvolge solo 4 persone, su un network stimato di centinaia di militanti.
Quando uscì fuori pubblicamente il caso della NSU fu un vero e proprio dramma  per la società tedesca. La nazione che più di ogni altra ha guardato in faccia la propria storia si trova in casa, dopo settant’anni,  i fantasmi del razzismo che, tramite limitazioni politiche, istruzione, celebrazioni e stratagemmi linguistici, pensava di aver definitivamente archiviato.  Le mezze verità emerse dal processo e dalle commissioni parlamentari non sono considerate esaustive. Ricerche di varia natura e documenti sul NSU vengono tutt’ora raccolti sul blog indipendente NSUwatch  (https://www.nsu-watch.info/).

Una frattura che rischia di diventare voragine

La specificità storica della Germania viene avvertita da una parte con grande razionalità, dall’altra come un peso insuperabile. Tradotto: se in Italia la resistenza ha posto le basi per una base antifascista identitaria  comune (che da anni ormai viene progressivamente attaccata – vedi foibe-), la pervasività del nazionalsocialismo nella storia tedesca degli anni ’30/’40 non ha permesso, a livello identitario, il lavaggio di coscienza collettivo dell’Italia del dopoguerra. E se la società tedesca appare fortemente disorientata ed alla ricerca di una nuova identità, a sinistra il peso della storia ha generato delle fratture ideologiche molto forti. Gruppi che fanno riferimento all’ anti-deutschland da un lato cercano di decostruire la stessa idea di Germania come nazione , dall’altra non perdono occasione per attaccare il resto del panorama movimentista con accuse di antisemitismo, rendendo evidente la difficoltà nel trovare un’identità unica che possa essere egemone. Questo smarrimento storico-ideologico è evidente nella dissonanza cognitiva, che si traduce in forte divisione, degli ambienti della sinistra tedesca  quando  si parla di Israele. Mentre intanto, dall’altra parte, avanza la destra più aggressiva dai tempi del dopoguerra. Che il razzismo lo pratica per davvero.
All’interno di questa frattura identitaria agisce il piano eversivo neo-nazista. Il terrorismo  neonazista infatti, agitando questi fantasmi, crea nella società un senso di inquietudine che è difficilmente risolvibile nella dialettica politica.  L’irrisolta questione identitaria non può che essere declinata, nel discorso istituzionale, all’interno dello spazio discorsivo dello stato-nazione, lasciando ampi spazi politici a narrazioni di tipo etno-nazionalista. Non a caso il fantasma neonazista spesso emerge all’interno di quelle istituzioni che ne riprendono la struttura organizzativa: polizia, esercito, servizi segreti.

Parallelismi

Nei media Italiani la reazione agli attentati di Hanau si perde tra psicologismi sul killer e affinità con l’attentato  razzista di Macerata del 2018 di Luca Traini. Anche nel caso di Luca Traini è disponibile una lunga e dettagliata rassegna stampa sullo stato della sua salute mentale. Tuttavia, nonostante la modalità di attentato siano simili, ci sono, oltre i differenti contesti e network di riferimento, due importanti differenze. La prima è nella reazione pubblica, la seconda è nella pratica politica.

I politici tedeschi, dalla CDU all’SPD dai Verdi alle Die Linke, hanno tutti parlato di un virus razzista che si muove all’interno della società, senza ambiguità. Angela Merkel dopo l’attentato ha dichiarato: “Il razzismo è un veleno, l’odio è un veleno e questo veleno esiste nella nostra società”.  Reazioni molto diverse da quelle sentite in Italia post-Macerata. Nessun  “questa  è la reazione all’immigrazione incontrollata” della premiata ditta Meloni&Salvini. Nessun richiamo pacificatore stile PD.

I cittadini di Hanau nei giorni successivi sono scesi in piazza contro il razzismo, una piazza trasversale e istituzionale, molto diversa dalla doverosa manifestazione di Macerata, che era stata vietata dal sindaco PD. A livello istituzionale la Merkel a fatto sapere di essere pronta ad assumersi la responsabilità di sciogliere altre organizzazioni della destra, oltre i limiti delle già restrittive leggi in vigore.  Tuttavia ci si interroga se queste organizzazioni, in cui viene inclusa anche l’AFD, siano piuttosto che la causa, il sintomo.

Anni di neoliberismo sfrenato ed estremismo di centro, di cui la Merkel è stata promotrice in tutta Europa,  ed il logoramento dei rapporti sociali hanno sicuramente creato un ambiente fertile per la ricerca di una appartenenza forte, generata sul confine nazionale, bianco, maschio ed eterosessuale (tra l’altro l’attentatore faceva parte di un network misogeno di “single per scelta”, ma questa è un’altra storia).

A livello di movimento, su qualsiasi giornale autonomo, vengono effettuate vere e proprie network analysis sulle organizzazioni neofasciste. Vengono seguiti i movimenti dei membri di spicco, gli incontri, persino i passatempi (che, stranamente, spesso includono il poligono e la caccia). Non ci si fida, visti i precedenti, della polizia. Negli scorsi mesi furono resi pubblichi dei report di controspionaggio, secondo i quali sono presenti circa 600 infiltrati neonazisti tra le fila delle forze armate.

Il rapporto tra forze armate, servizi segreti e neofascisti, è un triangolo che in Italia è tristemente noto da decenni. Tuttavia, è necessario documentare, investigare, conoscere come si muovono e comunicano tra loro le organizzazioni neofasciste.

Perché i lupi solitari, così solitari, in fondo non lo sono. Anche se ci piace credere il contrario. Che siano comunità fisiche o immaginarie, esse hanno simbologie, miti e pratiche comuni. Il moltiplicarsi di queste nella scena pubblica e virtuale genera mostri.

Si può credere alle fiabe di lupi cattivi, di matti senza scrupoli e di bambini in pericolo. Tuttavia ogni fiaba , come insegnano i fratelli Grimm, affonda il suo rovescio nel reale, dove c’è bisogno di qualcuno che sappia leggerla.
E la morale, letta fra le righe, dice di conoscere il tuo nemico, per combatterlo.

Young Leghistino sbarca in università

È notizia degli ultimi giorni che, dopo un lancio in grande stile all’Hotel America alla presenza e con il placet dell’assessore Mirko Bisesti, la Lega aprirà la propria lista universitaria, LiberaMente – Alternativa per il Futuro, che, alla prima occasione utile, si candiderà alle elezioni studentesche imponendosi come il terzo attore politico della rappresentanza.

Questa notizia è passata quasi in sordina. Perché allora il Collettivo Universitario Refresh decide di darle rilevanza, spendendoci fiumi di inchiostro? Perché non abbiamo nulla da fare? Assolutamente no. Perché la Lega ci è indigesta? Mentiremmo se rispondessimo no, ma, anche in questo caso, non è la risposta corretta. La motivazione è che, a nostro modesto modo di vedere quest’operazione non è così innocente come vorrebbe apparire.

Ma andiamo con ordine. La lista universitaria della Lega non è il primo tentativo di entrare e imporsi in Università. Da quando la Lega è al governo numerosi sono stati gli episodi di entrismo: dalla nomina del nuovo presidente dell’Opera Universitaria all’attrito con il Rettore dell’Università riguardo alla futura Facoltà di Medicina, passando per i poliziotti allo Studentato Mayer. Un elemento comune a tutti gli episodi citati è l’opposizione di quei kommunisti di Udu. Quindi molt* di voi potrebbero pensare che questi young leghistini non vogliano farsi rappresentare da una lista, che, a parole, si dichiara di sinistra. Ci dispiace ancora ma no non è questo il punto. Infatti, per la Lega le attuali liste universitarie non costituiscono poi un problema, come, ahi noi, si è visto in occasione del secondo invito di Fausto Biloslavo. Allora quale caspita può essere il punto centrale della questione? Bene, è molto semplice.

L’assessore con il codino, Mirko Bisesti, ha capito che per poter asservire completamente l’Università ai desideri della Lega ha bisogno di persone all’interno dell’istituzione universitaria che fungano da diretta cinghia di trasmissione del partito provinciale e che lavorino come sponda all’interno degli organi d’Ateneo. Non a caso le persone presenti all’Hotel America sono state incensate e descritte come “brave persone che lavorano per il bene comune, in sinergia con le istituzioni provinciali e comunali”. Ma la decisione di lanciare LiberaMente nasconde un altro lato ancor più pericoloso e sottile del primo. Infatti, come la Lega ha fatto con l’invito a Fausto Biloslavo, è chiaro e lampante il tentativo di far entrare pubblicamente in Università la sua cultura, basata su falsificazioni storiche, discriminazione, elogio del nazionalismo e strizzatine d’occhio al neofascismo italico, attraverso momenti pubblici utili a sdoganare posizioni che, fino a questo momento, all’interno dei luoghi di formazione, vengono ancora considerate irricevibili dalle e dai più. È un caso che uno dei nomi proposti come candidato sindaco per Trento sia stato proprio Armanini, un docente di Unitn? Noi crediamo proprio di no.

Come Collettivo Universitario Refresh, abbiamo la pessima abitudine di imparare dalle nostre esperienze e, purtroppo per la Lega, non solo non vogliamo tanti piccoli young bisestini in università, ma abbiamo anche capito quale sia la strategia dietro il lancio di un’innocente lista universitaria di rappresentanza. Sappiano Francesco Dellagiacoma e accoliti che, da parte nostra, troveranno una ferma opposizione alla loro operazione di sdoganamento della cultura fascioleghista e alla presenza dell’estrema destra dentro le aule universitarie. Detto questo non nascondiamo la nostra curiosità nel sapere quanti e quali fascistelli popoleranno le liste di LiberaMente, nascondendosi dietro la retorica delle brave persone che hanno a cuore il benessere di chi studia, possibilmente bianchi e itagliani sia chiaro. Beh che dire noi siamo pront* ad opporci alla loro presenza e al loro tentativo di egemonia culturale e voi?

Se lo siete anche voi incontriamoci, parliamoci e organizziamoci e se volete trovarci siamo ogni lunedì dalle 18:00 alle 20:00 in atrio a Sociologia.

Patrick libero subito! Contro la repressione del governo egiziano

Patrick Zaky, 27 anni, è un giovane ricercatore egiziano, traferitosi a Bologna per un master presso l’Università in studi di genere. Il 7 febbraio è tornato in Egitto per andare a trovare la propria famiglia, ma è stato arrestato non appena atterrato all’aeroporto, con l’accusa di istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione. Patrick è un attivista presso l’iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr). Dopo l’arresto il ragazzo sparisce per 24 ore e si hanno nuovamente sue notizie dopo 24 ore, quando viene portato alla procura di Mansoura.

Le accuse deriverebbero da alcuni post pubblicati dal ragazzo sulla propria pagina Facebook e dalla sua collaborazione con un’ONG egiziana che si occupa di diritti umani. I reati sarebbero quelli di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo. Pare inoltre che Patrick sia stato picchiato e torturato e che abbiano usato su di lui l’elettroshock, chiedendogli informazioni sui suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni.  Ad oggi Patrick è ancora in carcere, è stato trasferito in un altro commissariato e non si hanno notizie certe sul suo stato di salute psico-fisica. La prossima data cruciale per la vicenda di Patrick Zaky è il 22 febbraio. In quella data infatti, scadono i 15 giorni della prima ordinanza di detenzione e si terrà quindi a Mansoura un’udienza per decidere se rinviare a giudizio il ricercatore, se prorogare di altri 15 giorni la detenzione o nel caso più favorevole predisporne il rilascio. Se decideranno invece di mandarlo a processo con le accuse di istigazione alle proteste e propaganda di terrorismo rischia dai 13 ai 25 anni di carcere.

Il governo egiziano ha messo in piedi una vera e propria macchina repressiva, uno stato di eccezione permanente in cui la libertà di espressione e di ricerca sono limitate e messe a tacere con l’utilizzo della violenza. Arresti arbitrari e prolungati sono all’ordine del giorno, con violazioni continue dei diritti umani.

Questa vicenda ci porta nuovamente a riflettere sul ruolo che l’Italia e l’Europa hanno nel mantenere rapporti con un governo che costantemente viola i diritti e le libertà individuali. Dopo la morte di Giulio Regeni infatti le relazioni economiche tra lo stato italiano ed egiziano sono aumentate invece che diminuite. Il silenzio che ormai regna sul caso Regeni e il fatto che ancora non si sappia la verità su quella vicenda, così come il fatto che Patrick è ancora in carcere senza un regolare processo, pone in luce come l’Italia sia da considerare complice di questa repressione e violazione dei diritti, non essendo in grado di assumere una posizione contro lo stato d’eccezione presente in Egitto.

Chiediamo l’immediata liberazione di Patrick e pretendiamo che le istituzioni prendano una posizione chiara su questa vicenda affichè Patrick non diventi il nuovo Giulio e possa tornare libero.

Rivendichiamo inoltre la libertà di ricerca e vogliamo che tutt* i/le ricercatori/trici siano liber* di muoversi, di studiare e di produrre sapere critico in tutti gli ambiti di studio.

Patrick libero subito!!

Nei CPR si muore, e noi sappiamo chi è stato

Il 18 gennaio 2020 giunge la notizia che un migrante detenuto nel CPR di Gradisca è morto mentre era ricoverato in ospedale a causa di una rissa. Nei giorni seguenti sono arrivate le testimonianze degli altri detenuti, secondo le quali le lesioni che avrebbero portato alla morte del ragazzo sarebbero state inflitte dalle guardie del centro. Il tutto parte da una cosa piccola piccola come il telefono, V. non lo trova più e inizia a lamentarsi con le guardie, che non lo ascoltano e lo riportano nella sua cella. Lui per protesta si colpisce da solo con una mazza di ferro allo stomaco. Viene portato in infermeria, ma quando torna le lesioni sono evidenti e, di certo, non dipendono dal colpo che si è autoinflitto. Nei due giorni successivi sta visibilmente male, chiede aiuto, ma nessuno gli presta soccorso. Allora comincia a ribellarsi, gridando per attirare l’attenzione dei poliziotti, ma quando arrivano scoppia una rissa con il compagno di cella, che lui credeva stesse collaborando con le guardie. Loro intervengono per separarli, lo picchiano ancora, lo bloccano a terra e gli mettono le manette, e lo trascinano fuori dalla cella, quasi fosse un pezzo di carne.

Nessuno ha più notizie, V. non torna più in cella, e poco dopo si scopre che è morto, origliando delle conversazioni.

È chiaro chi siano i responsabili di questa morte, è chiaro come il fatto che fosse un migrante non sia una casualità, è chiaro come la polizia ancora una volta abbia abusato del proprio potere. Nei CPR le violenze e gli abusi sono all’ordine del giorno, i CPR sono centri di detenzione e non serve a nulla chiamarli Centri di permanenza per il rimpatrio, perché noi sappiamo bene cosa rappresentano in realtà. Sono la diretta rappresentazione di anni di politiche securitarie, in cui i migranti sono visti come un rischio o un pericolo da cui proteggersi. La morte di questo ragazzo è un chiaro segnale, purtroppo uno dei tanti, di come la politica internazionale, ma soprattutto quella italiana, stiamo prendendo una deriva sempre più razzista e discriminatoria nei confronti di chi viene identificato come diverso.

La detenzione dei migranti con l’unica finalità del rimpatrio e senza che abbiano effettivamente compiuto un qualche reato, è una pratica lesiva dei diritti umani e della libertà individuale di fronte a cui non è più possibile rimanere in silenzio. Così come i continui atti di violenza e gli abusi di potere in divisa non possono più essere ignorati o nascosti sotto il tappeto, utilizzando la scusa del tragico incidente o del “era una persona problematica”. L’Italia si conferma un paese in cui se sei straniero vieni discriminato, vieni rinchiuso in una cella, vivi in centri di accoglienza senza alcuna dignità e, “se necessario”, ucciso. L’Italia si conferma il paese in cui se hai una divisa puoi sentirti libero di usare violenza, di privare chiunque della propria libertà e dignità, di picchiare, abusare e utilizzare metodi disumani, e rimarrai impunito, nonché elogiato per il servizio reso alla comunità.

A noi però le divise non sono mai piaciute e ci siamo sempre schierati dalla parte di chi lotta per la propria libertà, per questo esprimiamo tutta la nostra vicinanza alla moglie e alla famiglia del migrante ucciso e ribadiamo a gran voce che i CPR e tutti i centri di detenzione dei migranti debbano essere chiusi immediatamente!!

“Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale”

Lo scritto che segue è un contributo alla riflessione intorno ai temi trattati nel libro “Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale” di Sarah Gainsforth, in vista della presentazione che si terrà il 15 febbraio presso la libreria duepunti di Trento. A seguire è prevista la pubblicazione di un altro elaborato riguardo l’operato di Airbnb a Trento.

Bando alle ciance e via col pizzone…

Dunque… cos’è Airbnb?

  • Ma come! Lo sappiamo tutti: Airbnb è una piattaforma digitale il cui scopo è mettere in contatto persone in cerca di alloggio, generalmente per brevi periodi, con persone disposte a mettere a disposizione una loro proprietà immobiliare “inutilizzata” (che sia una camera o un appartamento intero) in cambio di denaro. In cambio di questa intermediazione la piattaforma trattiene una percentuale variabile intorno al 5%. E questo garantisce ai privati di arrotondare e arrivare a fine mese, hai una stanza in più che non usi? La metti su Airbnb e tiri due euri.

 

  • Vuoi dire tipo Booking?

 

  • NO! Booking&Co sono dei SITI che mettono in contatto delle strutture specifiche del settore (Hotel, B&B, ostelli etc) con le persone in cerca di alloggio, quindi vedi, non vi è contatto umano, il denaro va direttamente dalle tasche del consumatore a quelle del proprietario dei grandi alberghi, nelle tasche dei soliti insomma… Inoltre, il sito trattiene una percentuale maggiore, anche il 30%. Airbnb invece è molto più democratico, distribuisce la ricchezza attraverso l’economia collaborativa, è orizzontale, si limita a fare da intermediario, mentre booking tende ad assomigliare più ad un erogatore di servizi.

 

  • Ma scusa alla fine non sono un po’ la stessa cosa? E poi mi pare di aver visto delle case messe su Airbnb apparire anche su Booking…

 

  • NOOO, certo che sei proprio de coccio oh. Airbnb è diverso… pensa che i fondatori della compagnia hanno avuto l’idea iniziale affittando dei posti letto, su dei materassi ad acqua, a dei turisti nel loro bilocale. In un momento di difficoltà economica hanno sfruttato l’intuizione che li ha fatti diventare miliardari tutti da soli. Dei piccoli geni che grazie alle loro perseveranza e capacità individuale si sono fatti largo nel feroce mondo della finanza e hanno vinto.

 

  • Apparte il fatto che non mi sembra sia andata proprio così e che non hai risposto alla mia domanda… ma scusa mettiamo il caso che io possieda 4 appartamenti dei miei parenti morti anzi un palazzo intero di appartameti, non potrei tipo metterli su Airbnb e svolgere praticamente la stessa funzione di un residence? Cioè ci guadagnerei di più che affittarli a degli studenti scampati de casa che si fumano le canne dentro e fanno casino.

 

  • Si certo.

 

  • Ok ma in questo caso, in assenza di regolamentazione, non ci sarebbe il rischio che tutti coloro che possiedono degli appartamenti in centro storico smettano di affittare ai residenti e agli studenti in favore dei turisti ricchi, influenzando il mercato degli affitti fino a far innalzare di brutto i canoni di locazione delle zone turistiche? Magari da far sì che nessun normale lavoratore precario, studente o disoccupato possa permettersi di alloggiare in quelle zone e sia costretto ad emigrare in periferia? Tutto questo contribuendo allo sviluppo di città bancarella, dove secondo il mantra de: “il turismo genera ricchezza” vengono giustificate l’espulsione degli strati di popolazione medio-poveri dal centro, la retorica del decoro e la costruzione di città resort, spersonalizzate ad uso e consumo dei turisti. Questo è il significato del termine gentrificazione di cui si sente tanto parlare…

 

  • Oh, ma sei mica uno di quegli stronzi del CUR? E poi la gentrificazione non esiste, è solo una storiella inventata da dei fannulloni che non hanno voglia di lavorare e che per non pagare l’affitto occupano le case ricorrendo a scuse pretestuose come questa.

 

  • Scusa ma ti rendi conto di ciò che stai dicendo? Cioè se non riesco a pagar l’affitto cazzo devo fare restar per strada in attesa di una casa popolare che non arriva e…

 

  • “Siete ancora ed oggi, come sempre dei poveri comunisti!”

 

  • Come prego!?

 

  • Vai a lavorare coglione…

 

  • …..

 

Anche se tragicomico, lo scambio di battute soprastanti cerca di riassumere alcune delle questioni e delle problematiche, che Airbnb ha portato dalla sua nascita nel 2007 ad oggi. La piattaforma infatti ha contribuito ad accelerare delle trasformazioni in corso nelle città e nello spazio urbano. Il dialogo soprastante cerca di sintetizzare le principali critiche mosse ad Airbnb e lo fa in maniera grottesca perché grottesche (nel senso di drammatiche) sono le conseguenze prodotte dal colosso digitale: cortocircuito legale sulla natura della piattaforma come fornitore di servizi o semplice intermediario, che si traduce in incapacità di normazione, speculazione dei palazzinari (aka multihost), gentrificazione.

Tutto questo ben giustificato e camuffato da un lato dalla zuccherosa retorica pseudo comunitaria dell’azienda, dall’altro dal mito dell’aiuto ad una classe media impoverita, quella che deve arrotondare e quindi affitta, che si risolleva grazie alla leva della sharing economy (ossia l’economia collaborativa, detta in maniera bestiale: tramite una piattaforma che ci mette in contatto ,“condividiamo le spese per la benzina”, “condividiamo la stanza”, “la lavatrice”, “tutto ciò che può essere consumato in maniera condivisa”, “conviene a te e a me e ci arrangiamo fra di noi, senza il bisogno di un erogatore di servizi dall’alto, pubblico o privato che sia”. La convenienza è infatti il principale propulsore di tale strategia).

Gli unici due fattori limitanti della sharing economy sono quindi la potenza del supporto tecnologico (piattaforma), che permetterà la messa in contatto fra le persone, e la “merce in palio” ossia quel bene da condividere, quel pezzetto del puzzle da cui estrarre valore. La magia accade qui: soffermandoci su quest’ultimo fattore potremmo chiederci, se avessimo i mezzi tecnici per farlo, quante sono le cose da cui potremmo estrarre valore condividendole? Molte, moltissime, parliamoci chiaro, noi mettiamo già a valore gran parte del nostro modo di vivere senza accorgercene, basti pensare al meccanismo dei cookies e delle recensioni, attraverso la condivisione (nel senso di sottrazione pervasiva e senza remore) dei nostri dati di navigazione offriamo la possibilità a chiunque sia capace di elaborarli, di propinarci delle pubblicità mirate. Pubblicità = Soldi.

Bon il pizzone l’abbiamo fatto e pure male, ma che c’entrano i cookies con Airbnb? C’entrano nella misura in cui sono due modi compatibili di mercificare dei beni appartenenti ad una sfera, privata o comune, che si fa sempre più ampia, estendendosi alla casa, alla città, ai nostri interessi privati, producendo concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.

Per questo si dice che il capitalismo – l’ha detto veramente? – si lascia stare che palle. – ha trovato il modo di estrarre ricchezza non solo dalla nostra manodopera e dalla nostra conoscenza, ma dal nostro bios. Ciò che si cerca di ridurre a merce da vendere e quindi mettere a valore è la nostra vita stessa. Tutto questo per 24 ore al giorno, non 8 come in un normale lavoro… In poche parole: ci dovete 16 ore di straordinari.

Altro mito da sfatare è proprio la retorica plasticosa ed intensa che Airbnb costruisce, attraverso lo story telling, intorno alla sua fondazione e al suo brand, o come direbbe qualcuno “our vision”. L’affitto breve di un appartamento dove nessuno abita, viene spacciato per un’esperienza indimenticabile, frutto della riappropriazione di un contatto umano che trova sempre meno spazio nelle città di oggi, le quali dinamiche frenetiche e di gentrificazione, che Airbnb contribuisce ad alimentare, hanno atomizzato gli individui metropolitani. Airbnb si propone allora come soluzione a tale problema, con la missione di riavvicinare le persone attraverso un atto di fiducia, talmente potente che normalmente lo riserveremmo solo alla nostra cerchia più intima, ossia la condivisione della propria casa. Tutto è fiabesco, colorato e furbetto. Finché c’entrano i soldi. Creazione di una narrazione comunitaria (Aribnb Citizen direbbero…) attraverso la distruzione di comunità reali. Ciò è un cortocircuito e un cane che si morde la coda e la gente ci crede.                                                                                                         Ma lasciamo la parola a quel giovanotto rampante, imprenditore miliardario, galletto della Sylicon Valley, CEO e co-fondatore di Airbnb, nonché filantropo scarso,

signore e signori ecco a voi: Brian Cheskyyyy!!!

– “immaginate se poteste costruire una città condivisa, dove le persone del posto diventano micro-imprenditori […] e le mamme e i papà tornano a fiorire” –

Questa retorica intrisa di calvinismo e radicata nell’ideologia neoliberale, per cui ognuno è imprenditore di se stesso, occulta il semplice fatto che le piattaforme hanno trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse. Producendo le conseguenze viste prima.

Non sorprende d’altronde che di classe media impoverita che arrotonda con Airbnb ce ne sia ben poca, infatti da come emerge dalla quasi totalità delle analisi, effettuate sui pochi dati rilasciati da Airbnb (perché Airbnb non li rilascia a meno di feroci battaglie legali o di inquinamento intenzionale  dei dati stessi), gli host non residenti, che affittano casa tutto l’anno e non solo occasionalmente, come propugnato dalla retorica dell’azienda (e quindi sottraendo le case al mercato immobiliare) sono la maggior parte.

In molti casi inoltre si viene a parlare di multihost, ossia proprietari di più appartamenti messi a disposizione, palazzinari, quelli che i soldi ce li hanno, li hanno sempre avuti e continuano a farseli con il mercato degli affitti brevi.

Il problema che si pone in questi casi tuttavia, è dare una definizione di quello che effettivamente è un affitto breve, o un multihost o Airbnb stesso (intermediario o fornitore di servizi?) e da questa definizione essere in grado di normare il fenomeno. Se non so cos’è non posso nemmeno dirgli cosa non può fare. La mancanza di regolamentazione a livello europeo lascia infatti la gestione del fenomeno relegata alla responsabilità delle varie amministrazioni locali, il che crea un cortocircuito legale che di certo non aiuta.

Per concludere: opporsi all’avanzata di Airbnb significa cercare di invertire la retorica attraverso cui la piattaforma stessa si auto-legittima. Di questo si sta parlando e questa è la posta in gioco. Perché diciamocelo, noi non ci crediamo, noi sappiamo che ciò non è reale e che non esistono vincitori, sappiamo che non è neanche lontanamente desiderabile la vittoria a questo gioco, quello della speculazione abitativa, rifiutiamo l’idea di ridurci ad imprenditori di noi stessi tanto quanto rifiutiamo l’idea di essere dei servi.

Per dirla con le parole della Gainsforth:

 “la retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza”

Questo articolo, con tutti i limiti del caso, spera di essere un piccolo passo verso questa prospettiva. Tuttavia, c’è anche da dirsi questo: se la retorica gioca un ruolo importante, il motivo principale per cui Airbnb continua ad espandersi si è detto all’inizio ed è la convenienza. Ad oggi le alternative ad Airbnb (hotel, B&B, residence, tutte, esclusa Couchsurfing, forse, che però è un’altra storia) sono meno convenienti economicamente e lo saranno sempre. Inoltre, se vogliamo trovare una soluzione non dobbiamo nemmeno abbandonarci alla facile equazione: “Airbnb è brutta, quindi vogliamo gli alberghi”. Perché i risvolti sarebbero i medesimi, la gentrificazione infatti esiste da ben prima che Airbnb nascesse. Il vero nocciolo della questione è questo: Airbnb si innesta su un modo di intendere la città e lo spazio urbano di un certo tipo, se vogliamo cambiare le cose dobbiamo ripensare questo modello.

Semplificando: Vogliamo una città per tutti o solo per alcuni? Per tutti o ad uso e consumo della triade: evento/immagine/turismo

“Em gehort die Stadt?” come recita la vernice sui muri delle città tedesche da qualche anno a sta parte:

“a chi appartiene la città?”

Se il motto di Airbnb negli ultimi tempi è diventato “belong anywhere”, appartieni ovunque, ebbene forse è necessario scomporre questo mantra e farlo nostro per ricomporlo in tutt’altra direzione. Per tornare a riappropriarci dello spazio urbano che ci è stato sottratto, della ricchezza e del comune che è in noi,

non è diritto naturale, ma verità etica, la città ci appartiene e noi ce la riprendiamo.

Questo è quanto, non vi è spazio per il curioso da bar, per lo sciacallo da talk-show, per l’annoiato che in queste righe cercava delle facili risposte, non vi è alcuna rivelazione messianica, non ne abbiamo e non ci crediamo. La ricerca di risposte reali passa attraverso miriadi di vicoli ciechi, abbagli, arresti, ripartenze. Le soluzioni le stiamo ancora passando all’affilatoio della nostra immaginazione, ma con la cocciutaggine e la curiosità che ci distinguono, abbiamo iniziato a porre le domande.

Non vi preoccupate, ci rifaremo presto vivi.

a presto

POLIZIA NEGLI STUDENTATI? NO GRAZIE!

Si dice che, a volte, la realtà superi la fantasia. Ebbene questo è uno di quei casi. È notizia di questi giorni l’ordine esecutivo con il quale Fugatti, il re sole de noantri, predispone la cessione di 16 stanze dello studentato Mayer per ospitare la nuova truppa di poliziotti che arriverà a Trento (erano forse quelli destinati ai corsi di genere nelle scuole superiori?). Naturalmente questi uomini in divisa, verranno a rendere più sicuro quel bronx che è il capoluogo trentino.

Come Collettivo Universitario Refresh, riteniamo indecente e inaccettabile la nuova genialata della giunta provinciale, ma soprattutto ci sorgono spontanee alcune domande. Se la sicurezza è tanto cara alla Lega trentina, quale sicurezza ci può essere nel vedersi negato un proprio diritto, come il diritto allo studio e all’alloggio? Quale sicurezza può esserci nel vedersi buttat* fuori dalla stanza in si è abitato per mesi, in una città in cui il problema di alloggi e affitti e student* è ormai lampante per tutt* ? Quale sicurezza ci può essere nel condividere uno studentato con i prodi agenti della polizia italiana, celebre per il rispetto dei più basilari diritti?

Sappiamo bene che queste domande non riceveranno alcuna risposta da parte di una giunta provinciale in grado esclusivamente di reprimere, tagliare ed escludere. Oltre alla rabbia e all’indignazione, il nostro pensiero va a quelle persone che dovranno lasciare lo studentato e continueremo a seguire la vicenda perché se la Lega pensa di poter fare i propri porci comodi in università ha proprio sbagliato a capire e troverà sempre studentesse e studenti ad opporsi alle sue decisioni.