Young Leghistino sbarca in università

È notizia degli ultimi giorni che, dopo un lancio in grande stile all’Hotel America alla presenza e con il placet dell’assessore Mirko Bisesti, la Lega aprirà la propria lista universitaria, LiberaMente – Alternativa per il Futuro, che, alla prima occasione utile, si candiderà alle elezioni studentesche imponendosi come il terzo attore politico della rappresentanza.

Questa notizia è passata quasi in sordina. Perché allora il Collettivo Universitario Refresh decide di darle rilevanza, spendendoci fiumi di inchiostro? Perché non abbiamo nulla da fare? Assolutamente no. Perché la Lega ci è indigesta? Mentiremmo se rispondessimo no, ma, anche in questo caso, non è la risposta corretta. La motivazione è che, a nostro modesto modo di vedere quest’operazione non è così innocente come vorrebbe apparire.

Ma andiamo con ordine. La lista universitaria della Lega non è il primo tentativo di entrare e imporsi in Università. Da quando la Lega è al governo numerosi sono stati gli episodi di entrismo: dalla nomina del nuovo presidente dell’Opera Universitaria all’attrito con il Rettore dell’Università riguardo alla futura Facoltà di Medicina, passando per i poliziotti allo Studentato Mayer. Un elemento comune a tutti gli episodi citati è l’opposizione di quei kommunisti di Udu. Quindi molt* di voi potrebbero pensare che questi young leghistini non vogliano farsi rappresentare da una lista, che, a parole, si dichiara di sinistra. Ci dispiace ancora ma no non è questo il punto. Infatti, per la Lega le attuali liste universitarie non costituiscono poi un problema, come, ahi noi, si è visto in occasione del secondo invito di Fausto Biloslavo. Allora quale caspita può essere il punto centrale della questione? Bene, è molto semplice.

L’assessore con il codino, Mirko Bisesti, ha capito che per poter asservire completamente l’Università ai desideri della Lega ha bisogno di persone all’interno dell’istituzione universitaria che fungano da diretta cinghia di trasmissione del partito provinciale e che lavorino come sponda all’interno degli organi d’Ateneo. Non a caso le persone presenti all’Hotel America sono state incensate e descritte come “brave persone che lavorano per il bene comune, in sinergia con le istituzioni provinciali e comunali”. Ma la decisione di lanciare LiberaMente nasconde un altro lato ancor più pericoloso e sottile del primo. Infatti, come la Lega ha fatto con l’invito a Fausto Biloslavo, è chiaro e lampante il tentativo di far entrare pubblicamente in Università la sua cultura, basata su falsificazioni storiche, discriminazione, elogio del nazionalismo e strizzatine d’occhio al neofascismo italico, attraverso momenti pubblici utili a sdoganare posizioni che, fino a questo momento, all’interno dei luoghi di formazione, vengono ancora considerate irricevibili dalle e dai più. È un caso che uno dei nomi proposti come candidato sindaco per Trento sia stato proprio Armanini, un docente di Unitn? Noi crediamo proprio di no.

Come Collettivo Universitario Refresh, abbiamo la pessima abitudine di imparare dalle nostre esperienze e, purtroppo per la Lega, non solo non vogliamo tanti piccoli young bisestini in università, ma abbiamo anche capito quale sia la strategia dietro il lancio di un’innocente lista universitaria di rappresentanza. Sappiano Francesco Dellagiacoma e accoliti che, da parte nostra, troveranno una ferma opposizione alla loro operazione di sdoganamento della cultura fascioleghista e alla presenza dell’estrema destra dentro le aule universitarie. Detto questo non nascondiamo la nostra curiosità nel sapere quanti e quali fascistelli popoleranno le liste di LiberaMente, nascondendosi dietro la retorica delle brave persone che hanno a cuore il benessere di chi studia, possibilmente bianchi e itagliani sia chiaro. Beh che dire noi siamo pront* ad opporci alla loro presenza e al loro tentativo di egemonia culturale e voi?

Se lo siete anche voi incontriamoci, parliamoci e organizziamoci e se volete trovarci siamo ogni lunedì dalle 18:00 alle 20:00 in atrio a Sociologia.

Patrick libero subito! Contro la repressione del governo egiziano

Patrick Zaky, 27 anni, è un giovane ricercatore egiziano, traferitosi a Bologna per un master presso l’Università in studi di genere. Il 7 febbraio è tornato in Egitto per andare a trovare la propria famiglia, ma è stato arrestato non appena atterrato all’aeroporto, con l’accusa di istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione. Patrick è un attivista presso l’iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr). Dopo l’arresto il ragazzo sparisce per 24 ore e si hanno nuovamente sue notizie dopo 24 ore, quando viene portato alla procura di Mansoura.

Le accuse deriverebbero da alcuni post pubblicati dal ragazzo sulla propria pagina Facebook e dalla sua collaborazione con un’ONG egiziana che si occupa di diritti umani. I reati sarebbero quelli di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo. Pare inoltre che Patrick sia stato picchiato e torturato e che abbiano usato su di lui l’elettroshock, chiedendogli informazioni sui suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni.  Ad oggi Patrick è ancora in carcere, è stato trasferito in un altro commissariato e non si hanno notizie certe sul suo stato di salute psico-fisica. La prossima data cruciale per la vicenda di Patrick Zaky è il 22 febbraio. In quella data infatti, scadono i 15 giorni della prima ordinanza di detenzione e si terrà quindi a Mansoura un’udienza per decidere se rinviare a giudizio il ricercatore, se prorogare di altri 15 giorni la detenzione o nel caso più favorevole predisporne il rilascio. Se decideranno invece di mandarlo a processo con le accuse di istigazione alle proteste e propaganda di terrorismo rischia dai 13 ai 25 anni di carcere.

Il governo egiziano ha messo in piedi una vera e propria macchina repressiva, uno stato di eccezione permanente in cui la libertà di espressione e di ricerca sono limitate e messe a tacere con l’utilizzo della violenza. Arresti arbitrari e prolungati sono all’ordine del giorno, con violazioni continue dei diritti umani.

Questa vicenda ci porta nuovamente a riflettere sul ruolo che l’Italia e l’Europa hanno nel mantenere rapporti con un governo che costantemente viola i diritti e le libertà individuali. Dopo la morte di Giulio Regeni infatti le relazioni economiche tra lo stato italiano ed egiziano sono aumentate invece che diminuite. Il silenzio che ormai regna sul caso Regeni e il fatto che ancora non si sappia la verità su quella vicenda, così come il fatto che Patrick è ancora in carcere senza un regolare processo, pone in luce come l’Italia sia da considerare complice di questa repressione e violazione dei diritti, non essendo in grado di assumere una posizione contro lo stato d’eccezione presente in Egitto.

Chiediamo l’immediata liberazione di Patrick e pretendiamo che le istituzioni prendano una posizione chiara su questa vicenda affichè Patrick non diventi il nuovo Giulio e possa tornare libero.

Rivendichiamo inoltre la libertà di ricerca e vogliamo che tutt* i/le ricercatori/trici siano liber* di muoversi, di studiare e di produrre sapere critico in tutti gli ambiti di studio.

Patrick libero subito!!

Nei CPR si muore, e noi sappiamo chi è stato

Il 18 gennaio 2020 giunge la notizia che un migrante detenuto nel CPR di Gradisca è morto mentre era ricoverato in ospedale a causa di una rissa. Nei giorni seguenti sono arrivate le testimonianze degli altri detenuti, secondo le quali le lesioni che avrebbero portato alla morte del ragazzo sarebbero state inflitte dalle guardie del centro. Il tutto parte da una cosa piccola piccola come il telefono, V. non lo trova più e inizia a lamentarsi con le guardie, che non lo ascoltano e lo riportano nella sua cella. Lui per protesta si colpisce da solo con una mazza di ferro allo stomaco. Viene portato in infermeria, ma quando torna le lesioni sono evidenti e, di certo, non dipendono dal colpo che si è autoinflitto. Nei due giorni successivi sta visibilmente male, chiede aiuto, ma nessuno gli presta soccorso. Allora comincia a ribellarsi, gridando per attirare l’attenzione dei poliziotti, ma quando arrivano scoppia una rissa con il compagno di cella, che lui credeva stesse collaborando con le guardie. Loro intervengono per separarli, lo picchiano ancora, lo bloccano a terra e gli mettono le manette, e lo trascinano fuori dalla cella, quasi fosse un pezzo di carne.

Nessuno ha più notizie, V. non torna più in cella, e poco dopo si scopre che è morto, origliando delle conversazioni.

È chiaro chi siano i responsabili di questa morte, è chiaro come il fatto che fosse un migrante non sia una casualità, è chiaro come la polizia ancora una volta abbia abusato del proprio potere. Nei CPR le violenze e gli abusi sono all’ordine del giorno, i CPR sono centri di detenzione e non serve a nulla chiamarli Centri di permanenza per il rimpatrio, perché noi sappiamo bene cosa rappresentano in realtà. Sono la diretta rappresentazione di anni di politiche securitarie, in cui i migranti sono visti come un rischio o un pericolo da cui proteggersi. La morte di questo ragazzo è un chiaro segnale, purtroppo uno dei tanti, di come la politica internazionale, ma soprattutto quella italiana, stiamo prendendo una deriva sempre più razzista e discriminatoria nei confronti di chi viene identificato come diverso.

La detenzione dei migranti con l’unica finalità del rimpatrio e senza che abbiano effettivamente compiuto un qualche reato, è una pratica lesiva dei diritti umani e della libertà individuale di fronte a cui non è più possibile rimanere in silenzio. Così come i continui atti di violenza e gli abusi di potere in divisa non possono più essere ignorati o nascosti sotto il tappeto, utilizzando la scusa del tragico incidente o del “era una persona problematica”. L’Italia si conferma un paese in cui se sei straniero vieni discriminato, vieni rinchiuso in una cella, vivi in centri di accoglienza senza alcuna dignità e, “se necessario”, ucciso. L’Italia si conferma il paese in cui se hai una divisa puoi sentirti libero di usare violenza, di privare chiunque della propria libertà e dignità, di picchiare, abusare e utilizzare metodi disumani, e rimarrai impunito, nonché elogiato per il servizio reso alla comunità.

A noi però le divise non sono mai piaciute e ci siamo sempre schierati dalla parte di chi lotta per la propria libertà, per questo esprimiamo tutta la nostra vicinanza alla moglie e alla famiglia del migrante ucciso e ribadiamo a gran voce che i CPR e tutti i centri di detenzione dei migranti debbano essere chiusi immediatamente!!

Ve l’avevamo detto. Riflessioni su fascismo e antifascismo.

Le ultime due settimane sono state settimane intense, nelle quali, purtroppo, ci siamo ritrovati a dover dire “ve l’avevamo detto”, ma fidatevi che per tutti noi sarebbe stato più facile ammettere di avere torto.

Ma procediamo per gradi e partiamo dalla piccola realtà cittadina in cui vivo, Trento. Il 30 ottobre il rettore dell’università di Trento ha deciso di riorganizzare la conferenza sulla situazione della Libia, invitando nuovamente Fausto Biloslavo[1]. Il fatto che Paolo Collini, massima autorità dell’ateneo trentino si sia così tanto premurato per far sì che Biloslavo avesse la possibilità di parlare a Sociologia a Trento, ha fatto sì che esponenti dell’estrema destra, riconducibili a Casa Pound, insieme a giovani leghisti e a un consigliere provinciale della Lega Trentino, si sentissero liberi di presentarsi in 40 fuori dall’università, attrezzati con ombrelli rinforzati, mazze di pvc e bottiglie di vetro, e aggredire gli studenti e le studentesse, i quali, si erano spontaneamente ritrovati in difesa dell’università dopo aver scoperto della tutt’altro che piacevole visita dei fascisti. Il gruppo di studenti e studentesse, nonostante l’aggressione di stampo chiaramente squadrista, è riuscito a respingere per quanto possibile (non essendo dotati di tutta l’attrezzatura, di cui invece si erano dotati i bravi ragazzi di Casapound e Lega), ma due ragazzi sono rimasti feriti al volto e alla testa. Ma la serata non si è conclusa così e, come si suol dire, oltre il danno la beffa, i giovani leghisti, complici dell’aggressione tanto quanto gli squadristi di Casa Pound sono stati scortati dentro l’aula della conferenza dalla sicurezza, trovando alcuni posti prenotati e tenuti in caldo appositamente, al fianco dell’assessore Mirko Bisesti (Lega Trentino). Gli studenti e le studentesse che, invece, si erano appena sobbarcati un’aggressione, sono stati bloccati sulla porta dell’aula, un’aula universitaria. Trento, nel suo piccolo ha dimostrato che avevamo ragione quando in questi anni abbiamo continuato a parlare di antifascismo e dell’importanza di non lasciare spazio a soggetti politici come la Lega o Casa Pound o Forza Nuova. Avevamo ragione perché non appena Fausto Biloslavo è stato legittimato a intervenire in un’università pubblica, il fascismo si è palesato nella sua forma più classica, quella della violenza squadrista.

Ma purtroppo Trento e l’Università di Trento non sono state le uniche a darci ragione in queste ultime settimane. Infatti, la settimana scorsa nel quartiere Centocelle di Roma si sono verificati due incendi: il primo alla libreria La Pecora Elettrica, il secondo al Bakara Bistrot, che aveva espresso solidarietà con la libreria vittima del primo attentato. La natura neofascista di questi due episodi è chiara, così come il modus operandi utilizzato: mettere in atto azioni violente, muscolari, machiste al solo scopo di intimidire, di “colpirne uno per educarne cento”. E non è un caso che, seppur in modo diverso, siano stati colpiti due luoghi del sapere: l’università e una libreria. Sarà mica perché perfino i fascisti sanno che il sapere nasce per essere critico, nasce per accettare le differenze, per esaltarle e coltivarle, nasce per tutti e tutte, senza discriminazioni basate sul proprio genere, sulla propria nazionalità, sul proprio credo religioso e il proprio orientamento sessuale. Il sapere fa inevitabilmente paura a chi vorrebbe creare una società chiusa, con un’idea precisa di uomo e donna, sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista del ruolo che ognuno debba avere nella società. Fa paura a chi non vede nelle differenze una ricchezza. E la solidarietà a queste forme di sapere fa ancora più paura e va attaccata, e da qui ne deriva il secondo incendio al Bakara Bistrot.

Ma non finisce nemmeno qui perché sempre la scorsa settimana giunge la notizia che a Liliana Segre sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti sia stata affidata la scorta, a seguito dei numerosi commenti e minacce ricevute su internet. Anche in questo caso qua l’attacco è al sapere, al sapere della storia, a quello che potrebbe o, meglio, dovrebbe insegnarci. E tante persone sono rimaste stupite, si sono indignate (giustamente) di fronte al fatto che una donna di novant’anni, sopravvissuta ai campi di sterminio debba sentirsi in pericolo nel 2019.

Fidatevi che chi come me si riconosce come una militante antifascista avrebbe di gran lunga preferito dover ammettere di avere torto e mai avrebbe voluto dire “ve l’avevamo detto, il fascismo esiste e ne siamo circondati”. Ma ora che, forse, ce ne siamo resi conto, ora che ha manifestato la sua più becera faccia (anche se per me il limite era già stato superato tempo fa), che risposta vogliamo dare a tutto questo? Finalmente si potrà costruire una nuova resistenza al fascismo, fatta non solo di belle parole, ma di conflitto, di corpi che scendono in piazza, di teste che diffondono idee e di lotte in tutte le città, scuole, università, luoghi di lavoro, le quali abbiano come parola d’ordine l’antifascismo?

 

Note:

[1] Fausto Biloslavo era stato precedentemente invitato da Udu Trento, sindacato degli universitari e avrebbe dovuto parlare alla conferenza “Gli Occhi della Guerra”. Il Collettivo Universitario Refresh e altre realtà studentesche hanno fatto uscire nei giorni precedenti alcuni volantini che criticavano la sua presenza in università, a causa delle sue idee filofasciste e delle sue frequentazioni in gioventù con gruppi legati al MSI a Trieste.

Invita un fascista e te ne arriveranno altri

Invita un fascista, e te ne arriveranno altri. Perché non è nient’altro che così che poteva andare, visti gli sforzi. La caparbietà istituzionale dimostrata dall’Università di Trento e dal suo rettore Paolo Collini, nel voler inscenare a tutti i costi una farsesca conferenza di ripiego con Fausto Biloslavo, è il risultato delle pressioni politiche fatte dalla politica leghista cittadina e provinciale su tutta la faccenda.

L’attacco squadrista condotto con ombrelli, tubi in PVC, bottiglie di vetro, lucchetti e catene è stato respinto da chi si trovava in un’università. Ma ciò non rende meno grave il fatto che membri della PAT (Devid Moranduzzo, LEGA) e giovani leghisti pettinati fossero lì a guardare fascisti  vecchi e nuovi venuti (anche) da altre città, nella stessa piazza. I tentativi di dissociazione da parte di quest’ultimi non sono mancati, ma già lo scorso febbraio Mirko Bisesti (assessore all’istruzione PAT, LEGA) incontrava il Blocco Studentesco (CPI). La saldatura tra destra istituzionale e destra organizzata si fa sempre più stretta ed è sotto gli occhi di tutti. La nostra solidarietà va a chi ha resistito davanti all’Università, mentre la Polizia stava a guardare.

Per quanto riguarda Fausto Biloslavo beh, che dire? Un giornalista che la notizia se la crea, che se  la cerca strillando sui social e incassando solidarietà da tutto il parco giochi parlamentare sovranista, dalla stampa reazionaria e dall’editoria neofascista, ci rende la cifra del personaggio. Da uno pronto a “denunciare” le condizioni dei campi di detenzione libici, ma con parole infamanti verso le ONG e chi salva le vite in mare, plaudendo alla cosiddetta “guarda costiera libica” che dovrebbe essere lasciata in pace a fare il proprio lavoro, no, grazie, non la vogliamo sentire la lezione.

Perché su tutto quello che è stato scritto, masticato e sputato sulla vexata quaestio “Biloslavo a Sociologia” ovunque si coglie la solita manfrina del “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”, come se a prescindere dalla propria idea politica uno potesse essere un qualsiasi bravo lavoratore, un professionista, un tecnico, di cui ascoltare l’opinione. Rifiutiamo questa logica scadente e ci avvaliamo invece di una disposizione critica nei confronti di chi ci ritroviamo davanti. Ci interroghiamo sul ruolo che hanno nella società personaggi come Biloslavo, a cui viene dato spazio in quanto “esperto”. La banalità con cui si fa il proprio mestiere, alla luce del ruolo sociale, per alcun* invece è molto più importante.

Ci chiediamo che ruolo abbia avuto il Rettore nell’accondiscendere alle pressioni della politica (non sarà mica colpa della Provincializzazione?) ad imporre una presenza tanto scomoda ad una comunità studentesca che ne aveva espresso la criticità. Il dialogo verso chi ha invitato Biloslavo, chiedendone la sostituzione, a dirla tutta, è stato intrapreso in prima istanza da noi. Ma siamo rimasti inascoltat*.
Ci chiediamo quindi che ruolo possano assumere aggregazioni studentesche come UDU Trento, quando altre pongono il problema della presenza di personaggi che si augurerebbero che le persone venissero riportate nell’inferno libico. Come si fa a conciliare la presenza di questi personaggi con la contemporanea presa di posizione a fianco di chi salva le vite in mare?

Un’ultima nota poi sulla stucchevole narrazione anacronistica, possiamo chiamarla “brigatista”, della vicenda. Che l’utilizzo strumentale di avvenimenti storici passati per la narrazione del presente sia, ormai, prassi frequente tra le fila di chi non è in grado di argomentare se non con ambigui paragoni di cui non conosce i termini, è cosa nota. E dovrebbero ben saperlo i giornalisti di destra, prima di avventurarsi in accostamenti ridicoli, che trattamento veniva riservato alle penne reazionarie, dalle BR. Biloslavo non ci sembra di certo finito come Montanelli, né su una Reanult 4, a giudicare dalle vignette che si trovano su il Giornale. Invitiamo quindi Biloslavo, l’assessore Bisesti e tutta la compagine leghista a riaprire i libri di storia. Scoprirebbero che il mito delle “BR nate a Sociologia” è una bella panzana che fa tanto comodo tramandare. Curcio e Cagol lasciarono Trento già alla fine del ’68 per trasferirsi prima a Verona e poi a Milano, quando ancora nessun’azione rivendicata dalle BR era stata compiuta. L’esperienza della lotta armata in Italia può considerarsi conclusa da tempo ormai, ma lo studio degli ideali rivoluzionari è compito di chi non accetta il tempo presente e lo desidera cambiare, nell’attesa di una nuova aurora.

SOLIDARIETA’ AGLI/ALLE ANTIFASCIST*

ALLES BLOCKIEREN! BLOCCHIAMO TUTTO! Note sul Climate Stike di Darmstadt

E’ una giornata particolarmente soleggiata a Francoforte.

Me ne accorgo quando, uscendo dalla metropolitana, mi tolgo la felpa a causa del caldo e sento  rinfrescarsi sulla pelle la brezza proveniente dal Meno.

Nei giorni precedenti ascoltavo una conversazione tra due signore su quanto sia strano il tempo in questo periodo. Qualche mese fa le temperature in Germania hanno toccato il record assoluto di 40 °C. In quei giorni fecero il giro del mondo le immagini dell’asfalto delle autostrade tedesche che si scioglieva a causa del caldo estremo.

Tuttavia nessuno sembra preoccuparsi, qualche giornata di sole in più prima dell’arrivo dell’autunno non farà male a nessuno.
Due giorni prima ero andato a Oetinger Villa, un centro culturale situato nella città di Darmstadt che da vent’anni è il centro della vita politica della città ed è la casa di collettivi antifascisti, anarchici, femministi, LGBT*QI e ambientalisti. Lì avevo conosciuto ragazze e ragazzi della mia età. Mi spiegano che  fanno parte di un gruppo antifascista “Offenes Antifaschistisches Treffen Darmstadt”. In tutta la città erano affissi i flyers del Climate strike programmato per il 20 Settembre in tutta la Germania (e tutto il mondo), gli chiedo se parteciperanno.

“Certo, vieni con noi, sarà una bella giornata!”.

“Genau, ci sarò!”.

Avviso la prof di tedesco che andrò via dalla lezione in anticipo per il climate strike. E’ entusiasta. In cinque abbandoniamo la classe per prendere il treno. Il bar autogestito da studenti a fianco l’università è un via-vai di carretti, cartelli per la giustizia climatica e persone.

Si respira un aria di festa.

Arriviamo a Darmstadt, raggiungiamo la piazza del concentramento di Ostbahnof.

E’ uno dei tre punti di raccolta dai quali partiranno i cortei che convergeranno in unica piazza. Individuo subito i ragazzi e le ragazze dell’OAT grazie alle bandiere antifasciste che svettano sulla testa del lungo corteo. Mi spiegano che la scelta di avere tre concentramenti diversi è strategica.

Vogliono bloccare tutta la città.

Il corteo parte. La marcia è scandita da slogan e interventi di vari attivist* e militant*.

Le rivendicazioni sono chiare: vogliamo giustizia climatica, e la vogliamo subito.

Il corteo è animato da diversi gruppi e tematiche. Ci sono gli/le attiviste di Extincion Rebellion e Friday for Future; collettivi femministi e queer come Feministisches Kampftag Bündnis; Seebrücke Darmstadt, collettivo solidale con i/le migrant* vittime del razzismo e della follia dei confini dell’Europa fortezza; l’OAT e Frauen – und Queerstreik Darmstadt, un altro gruppo che ha fatto della villa la sua casa politica.

L’eterogeneità della dimostrazione mi fa riflettere sul come chiedere giustizia climatica significhi molte cose.

Significa avere consapevolezza di un’emergenza che va affrontata immediatamente. Consapevolezza di una crisi provocata dalle elitè politiche ed economiche che ci governano, ma le cui conseguenze si abbatteranno, e si abbattono già, sulle classi più povere, in maniera più o meno fatalista.

Significa rendersi conto che il riscaldamento globale è un acceleratore della storia e delle sue dinamiche. Secondo alcuni dati un terzo della popolazione sarà costretta a migrare nei prossimi due decenni a causa dell’avanzare della desertificazione, delle carestie e delle guerre causate dalla scarsità di risorse, ben altra cosa a livello numerico rispetto alla tanto destabilizzante crisi migratoria di questo decennio.

Per far fronte a questi problemi e mantenere l’ordine sociale, la trasformazione in senso (ancora più) autoritario dei regimi esistenti sarà una costante che proverà a mettere a tacere ogni dissenso, ogni rivolta, ogni grido di disperato di umanità; a normalizzare e uniformare ogni corpo e pensiero.

Chiedere giustizia climatica significa intrecciare le lotte, perché oltre a cambiare un sistema economico va abbattuto il sistema di pensiero che lo alimenta: fascismo, sessismo, razzismo  sono gli strumenti culturali e cognitivi che nutrono il capitale ed il suo sfruttamento, che perseguitano e attaccano ogni giorno i nostri corpi e la natura.

Ma i nostri corpi sono qui, incrocio dopo incrocio, a bloccare tutto.

 

S’intonano cori contro il capitalismo e lo stato.  Cantiamo Bella ciao!; ci guardiamo intorno, che sia in Italiano, in tedesco o in inglese siamo tutt* antifascist*.

Arriviamo nella piazza centrale dove una band inizia a suonare. Mangiamo velocemente alcuni involtini di crauti, ma non c’è tempo per fermarsi. Dobbiamo bloccare tutto.

Un compagno mi da un biglietto, c’è scritto il nome di una via ed un numero da chiamare nel caso avessimo problemi con la polizia. Andiamo a bloccare lo stabilimento della Mercedes Benz.

Al nostro arrivo entrambe le entrate sono bloccate da una sessantina di persone vestite con delle tute bianche ed una mascherina. C’è un clima gioioso, le casse risuonano canzoni di lotta tedesche e cibo e acqua passano di mano in mano tra tutti i presenti. Un clima che nemmeno l’arrivo repentino della polizia riesce a surriscaldare. Una ragazza prende in mano il megafono. Parla di guerra, quella in Yemen, finanziata anche dalla Germania per difendere i suoi approvvigionamenti di carburante nel golfo di Hormuz, dove passano le flotte di petroliere che mandano avanti l’economia mondiale.

La guerra è la spietata distruzione della vita umana e dell’ambiente. Essa è la conseguenza della distribuzione diseguale delle risorse, ed il suo fine è quello di mantenere, attraverso la violenza, lo status quo. Parla della Turchia che, anche grazie ai finanziamenti dell’UE per “fronteggiare la crisi migratoria”, minaccia il Rojava e la sua rivoluzione femminista  ed ecologista. Parla delle morti nel Mar Mediterrano.

La norma che regola il gioco è la seguente: quando le persone avranno la folle idea di ribellarsi o spostarsi per avere una vita dignitosa, troveranno davanti carri armati, muri e fili spinati, tutto per difendere gli interessi, a brevissimo termine, di pochi. Ed i governi e le multinazionali occidentali sono i primi responsabili dello sfruttamento sistematico ai danni del sud del mondo. Come la Mercedes, che trae profitto da ciò producendo carri armati e altri veicoli per la guerra che vengono venduti a 23 stati, e che adesso prova a trarre profitto pubblicizzando una “svolta green” dovuta all’essere al primo posto nella produzione di auto elettriche. Cazzate.

La crisi climatica è capitalismo, ed il capitalismo è guerra, la spietata distruzione dell’uomo e della natura.

Le code di automobili in entrata ed in uscita iniziano ad essere insofferenti. Un uomo, a bordo della sua Mercedes, ci mostra il dito medio. Gli rispondiamo che è buona norma spegnere il motore dell’auto quando si è incolonnati.

La polizia in antisommossa, anche loro arrivati a bordo di furgoni Mercedes, ci intima di alzarci. Ma noi non ci muoviamo. A fianco a me, steso per terra a bloccare una macchina, c’è un ragazzino. Inizio a parlarci. Ha 13 anni. Gli chiedo se è agitato per quello che potrebbe fare la polizia. Mi risponde ridendo: “sono qui per difendere il pianeta”.

Un poliziotto si avvicina, ci dice che se non ci spostiamo la polizia utilizzerà ogni mezzo a disposizione per farlo coattivamente. Mi guardo intorno, nessuno è preoccupato per quello che potrebbe succedere. La protesta è non violenta e si animano le discussioni sul da farsi. Cosa è violento?

La polizia ci circonda. Poco importa se ci sono bambini in mezzo a noi. Il loro compito è fare in modo che il sistema torni a girare.

Bloccare una fabbrica che collabora a guerre e distruzione è violento? Sabotarla è violento? E resistere alla polizia per farlo?

Manca mezz’ora alla fine del turno lavorativo, ci alziamo lentamente e torniamo a marciare con al nostro seguito i furgoni mercedes della polizia. Blocchiamo di nuovo la strada principale, semaforo dopo semaforo, incrocio dopo incrocio. Al megafono un ragazzo ci comunica i numeri del climate stike. Nella sola Germania oggi hanno manifestato un milione e mezzo di persone. Ci sono state dimostrazioni in 125 paesi. E’ la manifestazione più grande di sempre.

Arriviamo nella piazza, dove ci accolgono gli altri gruppi con un applauso. E noi cantiamo, abbracciandoci e lanciando per aria le tute e le mascherine.

“We are unstoppable, another world is possible!