È nato: L’AFFITTO DEMMERDA

Affitti di merda? È ora di vendetta.

Paghi uno sproposito per un appartamento che cade a pezzi? Sono mesi che il tuo vecchio locatore latita e non accenna a restituirti la caparra? Il tuo padrone di casa cerca di farti pagare spese e/o danni al locale che competerebbero a lui (imbiancaggio, lavori di idraulica etc)?.

In una città universitaria dove il prezzo degli affitti continua ad aumentare e gli appartamenti disponibili sono sempre meno, c’è chi lucra sulle spalle degli studenti fuorisede. Agenzie immobiliari, palazzinari, padroni di casa il cui unico scopo è aumentare il loro profitto sulla nostra pelle.

Nel Luglio 2019 sono state raggiunte cifre di 420€ per una stanza singola. A Trento Airbnb sottrae al mercato immobiliare oltre 70 case, affittate -illegittimamente- unicamente a turisti. Il contratto di locazione per studenti, varato dal comune è insufficiente e non pone un prezzo massimale, nonostante i benefici fiscali di chi affitta. Insomma, la realtà è conosciuta da molti e molte: l’affitto costa troppo.

Dal punto di vista economico le opzioni sono due o vivi sulle spalle dei tuoi familiari oppure lavori in modo da sostenere le spese per università e affitto. Pagare l’affitto uno sproposito può determinare la possibilità di studiare all’università o meno.

Molto spesso per chi ha un locatore di merda è molto difficile far valere i propri diritti, alcuni padroni di casa sono sfuggenti, non rispondono al telefono, o semplicemente si nascondono dietro a cavilli legali.  Allo stesso tempo non vi è alcuna figura istituzionale o organo a cui uno studente possa rivolgersi per chiedere aiuto. Ci si rende conto di non poterci fare nulla e l’unica soluzione rimane il cambio d’appartamento.

La rabbia provata nel vedere il proprio vecchio appartamento, che cadeva a pezzi, rimesso a disposizione sui vari gruppi Facebook e spacciato per nuovo dopo la nostra uscita, è ben nota a molti.

Ebbene è giunto il momento di farla pagare ai nostri vecchi e nuovi locatori di merda, per questo motivo abbiamo voluto creare questa pagina Facebook, in modo da raccogliere più testimonianze possibili e iniziare a smascherare chi fa profitto, sulle nostre spalle e su quelle dei nostri genitori, dietro la narrazione di Trento città universitaria. Creiamo degli strumenti per tutelarci contro i soprusi di lor signori, riappropriandoci della nobile arte plebea del lancio dei pomodori. Intaccare la loro immagine vuol dire rompere il muro di silenzio intorno al problema degli affitti ed evitare che altri studenti come noi cadano tra le mani di questi imbroglioni. Vuol dire ribaltare i ruoli di potere.

E quindi cosa devo fare?

  • Scrivi alla nostra pagina e racconta la tua esperienza con il tuo padrone di casa nonchè pezzo di fango
  • Inviaci foto dell’appartamento, documenti, i dati del tuo locatore e l’indirizzo della casa, tutto ciò che può essere utile a smerdarlo
  • Noi verificheremo il materiale e garantiremo il tuo anonimato
  • Pubblicheremo la tua storia sulla pagina facebook in modo che tutti possano leggerla.

L’idea è quella di creare una comunità che possa muoversi su questo terreno scivoloso, in modo da darsi una mano tutti assieme e ribaltare le dialettiche di potere corrente. Perché se frequentare l’università è un diritto che dovrebbe essere garantito, lo è anche avere un tetto sotto il quale stare, senza dissanguare le nostre finanze. Iniziamo a fare in modo che le prepotenze dei disonesti non le paghino solo i poveracci.

Perché come diceva Quintiliano: odiare i mascalzoni è cosa nobile

“Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale”

Lo scritto che segue è un contributo alla riflessione intorno ai temi trattati nel libro “Airbnb città merce: storie di resistenza alla gentrificazione digitale” di Sarah Gainsforth, in vista della presentazione che si terrà il 15 febbraio presso la libreria duepunti di Trento. A seguire è prevista la pubblicazione di un altro elaborato riguardo l’operato di Airbnb a Trento.

Bando alle ciance e via col pizzone…

Dunque… cos’è Airbnb?

  • Ma come! Lo sappiamo tutti: Airbnb è una piattaforma digitale il cui scopo è mettere in contatto persone in cerca di alloggio, generalmente per brevi periodi, con persone disposte a mettere a disposizione una loro proprietà immobiliare “inutilizzata” (che sia una camera o un appartamento intero) in cambio di denaro. In cambio di questa intermediazione la piattaforma trattiene una percentuale variabile intorno al 5%. E questo garantisce ai privati di arrotondare e arrivare a fine mese, hai una stanza in più che non usi? La metti su Airbnb e tiri due euri.

 

  • Vuoi dire tipo Booking?

 

  • NO! Booking&Co sono dei SITI che mettono in contatto delle strutture specifiche del settore (Hotel, B&B, ostelli etc) con le persone in cerca di alloggio, quindi vedi, non vi è contatto umano, il denaro va direttamente dalle tasche del consumatore a quelle del proprietario dei grandi alberghi, nelle tasche dei soliti insomma… Inoltre, il sito trattiene una percentuale maggiore, anche il 30%. Airbnb invece è molto più democratico, distribuisce la ricchezza attraverso l’economia collaborativa, è orizzontale, si limita a fare da intermediario, mentre booking tende ad assomigliare più ad un erogatore di servizi.

 

  • Ma scusa alla fine non sono un po’ la stessa cosa? E poi mi pare di aver visto delle case messe su Airbnb apparire anche su Booking…

 

  • NOOO, certo che sei proprio de coccio oh. Airbnb è diverso… pensa che i fondatori della compagnia hanno avuto l’idea iniziale affittando dei posti letto, su dei materassi ad acqua, a dei turisti nel loro bilocale. In un momento di difficoltà economica hanno sfruttato l’intuizione che li ha fatti diventare miliardari tutti da soli. Dei piccoli geni che grazie alle loro perseveranza e capacità individuale si sono fatti largo nel feroce mondo della finanza e hanno vinto.

 

  • Apparte il fatto che non mi sembra sia andata proprio così e che non hai risposto alla mia domanda… ma scusa mettiamo il caso che io possieda 4 appartamenti dei miei parenti morti anzi un palazzo intero di appartameti, non potrei tipo metterli su Airbnb e svolgere praticamente la stessa funzione di un residence? Cioè ci guadagnerei di più che affittarli a degli studenti scampati de casa che si fumano le canne dentro e fanno casino.

 

  • Si certo.

 

  • Ok ma in questo caso, in assenza di regolamentazione, non ci sarebbe il rischio che tutti coloro che possiedono degli appartamenti in centro storico smettano di affittare ai residenti e agli studenti in favore dei turisti ricchi, influenzando il mercato degli affitti fino a far innalzare di brutto i canoni di locazione delle zone turistiche? Magari da far sì che nessun normale lavoratore precario, studente o disoccupato possa permettersi di alloggiare in quelle zone e sia costretto ad emigrare in periferia? Tutto questo contribuendo allo sviluppo di città bancarella, dove secondo il mantra de: “il turismo genera ricchezza” vengono giustificate l’espulsione degli strati di popolazione medio-poveri dal centro, la retorica del decoro e la costruzione di città resort, spersonalizzate ad uso e consumo dei turisti. Questo è il significato del termine gentrificazione di cui si sente tanto parlare…

 

  • Oh, ma sei mica uno di quegli stronzi del CUR? E poi la gentrificazione non esiste, è solo una storiella inventata da dei fannulloni che non hanno voglia di lavorare e che per non pagare l’affitto occupano le case ricorrendo a scuse pretestuose come questa.

 

  • Scusa ma ti rendi conto di ciò che stai dicendo? Cioè se non riesco a pagar l’affitto cazzo devo fare restar per strada in attesa di una casa popolare che non arriva e…

 

  • “Siete ancora ed oggi, come sempre dei poveri comunisti!”

 

  • Come prego!?

 

  • Vai a lavorare coglione…

 

  • …..

 

Anche se tragicomico, lo scambio di battute soprastanti cerca di riassumere alcune delle questioni e delle problematiche, che Airbnb ha portato dalla sua nascita nel 2007 ad oggi. La piattaforma infatti ha contribuito ad accelerare delle trasformazioni in corso nelle città e nello spazio urbano. Il dialogo soprastante cerca di sintetizzare le principali critiche mosse ad Airbnb e lo fa in maniera grottesca perché grottesche (nel senso di drammatiche) sono le conseguenze prodotte dal colosso digitale: cortocircuito legale sulla natura della piattaforma come fornitore di servizi o semplice intermediario, che si traduce in incapacità di normazione, speculazione dei palazzinari (aka multihost), gentrificazione.

Tutto questo ben giustificato e camuffato da un lato dalla zuccherosa retorica pseudo comunitaria dell’azienda, dall’altro dal mito dell’aiuto ad una classe media impoverita, quella che deve arrotondare e quindi affitta, che si risolleva grazie alla leva della sharing economy (ossia l’economia collaborativa, detta in maniera bestiale: tramite una piattaforma che ci mette in contatto ,“condividiamo le spese per la benzina”, “condividiamo la stanza”, “la lavatrice”, “tutto ciò che può essere consumato in maniera condivisa”, “conviene a te e a me e ci arrangiamo fra di noi, senza il bisogno di un erogatore di servizi dall’alto, pubblico o privato che sia”. La convenienza è infatti il principale propulsore di tale strategia).

Gli unici due fattori limitanti della sharing economy sono quindi la potenza del supporto tecnologico (piattaforma), che permetterà la messa in contatto fra le persone, e la “merce in palio” ossia quel bene da condividere, quel pezzetto del puzzle da cui estrarre valore. La magia accade qui: soffermandoci su quest’ultimo fattore potremmo chiederci, se avessimo i mezzi tecnici per farlo, quante sono le cose da cui potremmo estrarre valore condividendole? Molte, moltissime, parliamoci chiaro, noi mettiamo già a valore gran parte del nostro modo di vivere senza accorgercene, basti pensare al meccanismo dei cookies e delle recensioni, attraverso la condivisione (nel senso di sottrazione pervasiva e senza remore) dei nostri dati di navigazione offriamo la possibilità a chiunque sia capace di elaborarli, di propinarci delle pubblicità mirate. Pubblicità = Soldi.

Bon il pizzone l’abbiamo fatto e pure male, ma che c’entrano i cookies con Airbnb? C’entrano nella misura in cui sono due modi compatibili di mercificare dei beni appartenenti ad una sfera, privata o comune, che si fa sempre più ampia, estendendosi alla casa, alla città, ai nostri interessi privati, producendo concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi.

Per questo si dice che il capitalismo – l’ha detto veramente? – si lascia stare che palle. – ha trovato il modo di estrarre ricchezza non solo dalla nostra manodopera e dalla nostra conoscenza, ma dal nostro bios. Ciò che si cerca di ridurre a merce da vendere e quindi mettere a valore è la nostra vita stessa. Tutto questo per 24 ore al giorno, non 8 come in un normale lavoro… In poche parole: ci dovete 16 ore di straordinari.

Altro mito da sfatare è proprio la retorica plasticosa ed intensa che Airbnb costruisce, attraverso lo story telling, intorno alla sua fondazione e al suo brand, o come direbbe qualcuno “our vision”. L’affitto breve di un appartamento dove nessuno abita, viene spacciato per un’esperienza indimenticabile, frutto della riappropriazione di un contatto umano che trova sempre meno spazio nelle città di oggi, le quali dinamiche frenetiche e di gentrificazione, che Airbnb contribuisce ad alimentare, hanno atomizzato gli individui metropolitani. Airbnb si propone allora come soluzione a tale problema, con la missione di riavvicinare le persone attraverso un atto di fiducia, talmente potente che normalmente lo riserveremmo solo alla nostra cerchia più intima, ossia la condivisione della propria casa. Tutto è fiabesco, colorato e furbetto. Finché c’entrano i soldi. Creazione di una narrazione comunitaria (Aribnb Citizen direbbero…) attraverso la distruzione di comunità reali. Ciò è un cortocircuito e un cane che si morde la coda e la gente ci crede.                                                                                                         Ma lasciamo la parola a quel giovanotto rampante, imprenditore miliardario, galletto della Sylicon Valley, CEO e co-fondatore di Airbnb, nonché filantropo scarso,

signore e signori ecco a voi: Brian Cheskyyyy!!!

– “immaginate se poteste costruire una città condivisa, dove le persone del posto diventano micro-imprenditori […] e le mamme e i papà tornano a fiorire” –

Questa retorica intrisa di calvinismo e radicata nell’ideologia neoliberale, per cui ognuno è imprenditore di se stesso, occulta il semplice fatto che le piattaforme hanno trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse. Producendo le conseguenze viste prima.

Non sorprende d’altronde che di classe media impoverita che arrotonda con Airbnb ce ne sia ben poca, infatti da come emerge dalla quasi totalità delle analisi, effettuate sui pochi dati rilasciati da Airbnb (perché Airbnb non li rilascia a meno di feroci battaglie legali o di inquinamento intenzionale  dei dati stessi), gli host non residenti, che affittano casa tutto l’anno e non solo occasionalmente, come propugnato dalla retorica dell’azienda (e quindi sottraendo le case al mercato immobiliare) sono la maggior parte.

In molti casi inoltre si viene a parlare di multihost, ossia proprietari di più appartamenti messi a disposizione, palazzinari, quelli che i soldi ce li hanno, li hanno sempre avuti e continuano a farseli con il mercato degli affitti brevi.

Il problema che si pone in questi casi tuttavia, è dare una definizione di quello che effettivamente è un affitto breve, o un multihost o Airbnb stesso (intermediario o fornitore di servizi?) e da questa definizione essere in grado di normare il fenomeno. Se non so cos’è non posso nemmeno dirgli cosa non può fare. La mancanza di regolamentazione a livello europeo lascia infatti la gestione del fenomeno relegata alla responsabilità delle varie amministrazioni locali, il che crea un cortocircuito legale che di certo non aiuta.

Per concludere: opporsi all’avanzata di Airbnb significa cercare di invertire la retorica attraverso cui la piattaforma stessa si auto-legittima. Di questo si sta parlando e questa è la posta in gioco. Perché diciamocelo, noi non ci crediamo, noi sappiamo che ciò non è reale e che non esistono vincitori, sappiamo che non è neanche lontanamente desiderabile la vittoria a questo gioco, quello della speculazione abitativa, rifiutiamo l’idea di ridurci ad imprenditori di noi stessi tanto quanto rifiutiamo l’idea di essere dei servi.

Per dirla con le parole della Gainsforth:

 “la retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza”

Questo articolo, con tutti i limiti del caso, spera di essere un piccolo passo verso questa prospettiva. Tuttavia, c’è anche da dirsi questo: se la retorica gioca un ruolo importante, il motivo principale per cui Airbnb continua ad espandersi si è detto all’inizio ed è la convenienza. Ad oggi le alternative ad Airbnb (hotel, B&B, residence, tutte, esclusa Couchsurfing, forse, che però è un’altra storia) sono meno convenienti economicamente e lo saranno sempre. Inoltre, se vogliamo trovare una soluzione non dobbiamo nemmeno abbandonarci alla facile equazione: “Airbnb è brutta, quindi vogliamo gli alberghi”. Perché i risvolti sarebbero i medesimi, la gentrificazione infatti esiste da ben prima che Airbnb nascesse. Il vero nocciolo della questione è questo: Airbnb si innesta su un modo di intendere la città e lo spazio urbano di un certo tipo, se vogliamo cambiare le cose dobbiamo ripensare questo modello.

Semplificando: Vogliamo una città per tutti o solo per alcuni? Per tutti o ad uso e consumo della triade: evento/immagine/turismo

“Em gehort die Stadt?” come recita la vernice sui muri delle città tedesche da qualche anno a sta parte:

“a chi appartiene la città?”

Se il motto di Airbnb negli ultimi tempi è diventato “belong anywhere”, appartieni ovunque, ebbene forse è necessario scomporre questo mantra e farlo nostro per ricomporlo in tutt’altra direzione. Per tornare a riappropriarci dello spazio urbano che ci è stato sottratto, della ricchezza e del comune che è in noi,

non è diritto naturale, ma verità etica, la città ci appartiene e noi ce la riprendiamo.

Questo è quanto, non vi è spazio per il curioso da bar, per lo sciacallo da talk-show, per l’annoiato che in queste righe cercava delle facili risposte, non vi è alcuna rivelazione messianica, non ne abbiamo e non ci crediamo. La ricerca di risposte reali passa attraverso miriadi di vicoli ciechi, abbagli, arresti, ripartenze. Le soluzioni le stiamo ancora passando all’affilatoio della nostra immaginazione, ma con la cocciutaggine e la curiosità che ci distinguono, abbiamo iniziato a porre le domande.

Non vi preoccupate, ci rifaremo presto vivi.

a presto

Zone Rosse nelle Città

PER SOFFIARE SUL FUOCO DELLA GUERRA TRA POVERI, PER SPIANARE LA STRADA AD ABUSI IN DIVISA, PER GETTARE BENZINA SUL FUOCO DELLA PROPAGANDA.

Con una nuova direttiva il Ministro dell’odio, Salvini, sollecita le prefetture delle città italiane a sotituirsi ai sindaci per emanare ordinanze “antidegrado”, istituendo delle zone rosse all’interno del quale sarà possibile potenziare le attività contrasto a fenomeni di “degrado e antisocialità”con stumenti, si legge, “di natura straordinaria, contingibile ed urgente”.
Una storia già sentita, che segue la strada della repressione in nome del “degrado” tracciata da anni dai governi e dalle amministrazioni, anche di centrosinistra, nelle nostre città.
Quali saranno queste zone rosse lo dice la stessa direttiva, che parla di luoghi nel quale “si registrano, di frequente, fenomeni antisociali e di inciviltà lesivi del buon vivere, particolarmente in determinati luoghi caratterizzati dal persistente afflusso di un notevole numero di persone, sovente in condizioni di disagio sociale”, ovvero i luoghi di socialità, i presidi sanitari, i centri storici. In questo modo viene consegnato nelle mani della prefettura un nuovo strumento di repressione, dopo l’istituzione del daspo urbano e del reato di accattonaggio.
In nome della sicurezza e del decoro si distrugge la socialità, si militarizzano le città, si alimenta la guerra fra poveri soffiando sul fuoco della propaganda, si fa un favore a sbirri, ricchi e palazzinari, spianando la strada alla gentrification urbana e alla costituzione delle città vetrina.
Attaccare gli spazi per attaccare le soggettività ribelli, i senzatetto,gli immigrati, i tossicodipendenti.
Una situazione che a Trento conosciamo bene e che alla luce dei fatti accaduti nelle ultime settimane ci inquieta e ci fa rabbia.
Noi continueremo a portare avanti le nostre iniziative per rivendicare spazi di socialità e per rompere la narrazione sul degrado.
Le città sono di chi le vive, è questa la nostra sicurezza.

Per saperne di più

https://www.popoffquotidiano.it/2019/04/18/le-zone-rosse-delluomo-nero-la-nuova-direttiva-di-salvini/

 

https://www.facebook.com/1549246885289776/posts/2301366536744470?sfns=cwmo

 

Degrado a Trento? Ora parliamo noi!

Ed eccoci a dover prendere parola per l’ennesima volta su una questione per noi molto importante, ma altrettanto dibattuta.
Pare che nell’ultimo periodo a Trento sia ritornato alla centralità del dibattito pubblico e politico il fenomeno della socialità studentesca. Dal provvedimento di chiusura anticipata del locale “La Scaletta” alla mozione presentata in comune da parte di tutti i partiti di opposizione (M5S, Lega, Forza Italia, Civica e Progetto Trentino) sembra di ritrovarsi in una città catapultata nel degrado più becero.
Purtroppo per noi non si è parlato per nulla si spazi di aggregazione per studenti e studentesse, ma di come reprimere la loro affluenza per le vie della città durante gli orari notturni. Non si è minimamente accennato a come, da più tempo a questa parte, le voci studentesche si facciano sentire in svariati modi per proporre e stimolare un dibattito costruttivo e risolutivo di una situazione che di fatto, si è cristallizzata da anni e vede soltanto i partiti politici strumentalizzare (a ruota) l’assenza di soluzioni, il tutto per una manciata di voti alle elezioni successive. Perchè di questo si tratta, i provvedimenti repressivi da loro proposti non porteranno a nessuna soluzione, ma serviranno al prossimo appuntamento elettorale per passare dall’essere opposizione al governare la città.
Ormai il PD (o quel che ne resta) ha ceduto sulla questione sicurezza, trovandosi a rincorrere le prerogative di chi si è posto a difensore della paura “surreale” dei residenti trentini spaventati da chi, alla fine dei conti, non ha nessuna voce in capitolo a livello istituzionale.
Chi vive la città da un po’ di anni, si è reso conto di come la repressione sia sempre stata la risposta al bisogno di socialità. Ne abbiamo scritto anche altrove (https://curtrento.noblogs.org/post/2017/12/11/da-lettere-alla-scaletta-lo-stesso-paradigma-escludente/), e lo abbiamo visto con i nostri occhi. Purtroppo non ci resta che ribadire la nostra contrarietà alla miopia di certe misure istituzionali, in quanto superficiali e poco efficaci.
Esprimiamo anche forte preoccupazione nei confronti di quei residenti che si sono mobilitati per chiedere l’immediato intervento del prefetto del questore e del presidente della Provincia.
Ci teniamo a sottolineare come la mancanza di idee e progettualità non possano essere sostituite da telecamere e coprifuoco e divieto di alcolici, in quanto non vanno minimamente ad affrontare il problema, anzi lo peggiorano.
Per noi l’unica soluzione è far emergere questo bisogno e lottare affinché Trento possa diventare una città in cui studenti e residenti riescano a convivere e vedersi reciprocamente come valore aggiunto per la città. Dobbiamo rompere la logica che obbliga gli studenti e le studentesse ad essere dei/delle meri/e consumatori e consumatrici perché oltre ai soldi degli affitti e delle tasse universitarie portiamo molto di più.  Portiamo una spinta innovatrice e di cambiamento che spaventa tanto i conservatori. Orrori legati a periodi bui del passato diventano realtà ed è per questo che non è possibile stare in silenzio. Portiamo con noi il cambiamento ed è per questo che continueremo a rivendicare a voce alta il nostro diritto a vivere la città.

Complici e solidali con le e gli scioperanti del servizio bar e mensa universitaria.

Complici e solidali con le e gli scioperanti

Il 15 maggio 2018 alle ore 11:00 è giunta la notizia della decisione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici dei bar e delle mense universitarie di entrare in sciopero per le giornate del 15 e del 16 maggio 2018. La notizia è stata diffusa al termine di un’assemblea sindacale svoltasi nel corso della mattina del 15 maggio 2018 che vedeva come nodo centrale della discussione l’ormai annosa vertenza che contrappone le lavoratrici e i lavoratori dei bar e delle mense universitarie e l’azienda Sma ristorazione, appaltatrice dell’Opera Universitaria, di cui sono dipendenti.

A differenza di altre organizzazioni, in questa occasione non ci importa  concentrare la nostra attenzione sul possibile disagio che questo sciopero può aver provocato alle avventrici e agli avventori del servizio ristorazione dell’Opera Universitaria. Ciò a cui vogliamo dare il maggior risalto possibile sono la situazione lavorativa a cui queste lavoratrici e questi lavoratori sono costrett* e le responsabilità politiche dell’Opera Universitaria il cui silenzio e immobilismo non  hanno certo contribuito a migliorare la  situazione. La Sma ristorazione divenne appaltatrice dell’ente trentino per il diritto allo studio nel 2011 e da allora col passare degli anni, oltre alla diminuzione della qualità dei pasti è corrisposto un peggioramento delle condizioni in cui le e i 70 dipendenti dell’azienda si trovano a lavorare. Una situazione fatta di cassa integrazione a rotazione dal 2015, ferie e straordinari non pagati e poche garanzie per il futuro, visto che alle richieste avanzate dalle rappresentanze sindacali la controparte aziendale non ha fornito nessuna risposta né ha mostrato alcuna intenzione di trovare possibili soluzioni. L’Opera Universitaria, che tanto si fregia di essere a livello nazionale uno degli enti per il diritto con i migliori risultati per quanto riguarda lo student housing, sul fronte della ristorazione delle mense non vantare risultati altrettanti eccellenti. Infatti, nonostante il numero dei pasti erogati sia in calo, l’O.U. ha accuratamente evitato di prendere posizione evitando di affrontare le spinose questioni che riguardano il settore mense. L’ente per il diritto allo studio non ha messo in campo nessuna azione per tentare di invertire la tendenza della diminuzione del numero di pasti erogati. Come, d’altro canto, nulla è stato fatto per il miglioramento delle strutture fatiscenti in cui si trovano le mense e che data questa condizione pregiudicano il lavoro.

Come Collettivo Universitario Refresh, in quanto student* che hanno attraversato in plurime occasioni le mense universitarie per un pasto o un volantinaggio, non possiamo tutta la nostra complicità e solidarietà a tutt* coloro che hanno deciso di aderire a questa due giorni di scioperare per rivendicare quella dignità che l’azienda per cui lavorano vorrebbe negare loro. Noi che quotidianamente ci organizziamo all’interno di Unitn per rivendicare e lottare un’università e un mondo diverso siamo al loro fianco e daremo loro tutto il supporto che necessiteranno fino a che non vinceranno la loro vertenza.

Rompiamo il ricatto, costruiamo il riscatto!

DASPO URBANO? Capiamoci qualcosa

DASPO URBANO

Il seguente testo non ha la pretesa di essere un’analisi organica ed esaustiva sulla questione del Daspo urbano quanto piuttosto vuole essere un contributo alla discussione su questo strumento repressivo. Con questo piccolo documento abbiamo voluto condividere con tutt* voi le nostre discussioni e analisi sul Daspo e sui dati politici che siamo stat* in grado di individuare come Collettivo Universitario Refresh

Da alcune settimane il dibattito politico cittadino si è concentrato sulla proposta d’introduzione della misura del Daspo urbano nel regolamento di polizia municipale di Trento. Sulla scia delle polemiche scatenate dagli incontri di boxe non autorizzati, tra bande di spacciatori in Piazza Dante, dalla fine di Giugno abbiamo assistito all’ennesimo teatrino dell’assurdo da parte della politica trentina sul tema della sicurezza, che ha ridotto un serio problema sociale a una mera questione di ordine pubblico diventando l’ennesima occasione per le diverse forze politiche per alimentare la campagna elettorale permanente che a Trento si combatte sul falso problema della cosiddetta sicurezza urbana e del degrado. Sorvolando per questioni di decenza sulle aberrazioni con le quali i diversi esponenti sia di destra che di sinistra hanno alimentato un sentimento di insicurezza che da troppo tempo serpeggia tra le e gli abitanti della città, il sindaco Andreatta, pressato dall’insofferenza del Prefetto, del Questore e dei suoi alleati, ha partorito l’idea di applicare il Daspo Urbano che prevede l’allontanamento dei soggetti indesiderati da un’area delimitata di città.

Dal Daspo sportivo al Daspo urbano. L’evoluzione dello strumento repressivo

In seguito all’approvazione della legge Minniti-Orlando, in Italia esistono diverse tipologie di Daspo, siano esse previste dalla legge oppure sperimentazioni fatte a partire da quest’ultima. Allo stato attuale si possono individuare tre tipi di Daspo. Il Daspo sportivo, il primo ad essere applicato, il Daspo di piazza e, ultimo ma non meno importante, il Daspo urbano.

Il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive (DASPO) è una misura prevista dalla legge italiana al fine di contrastare il fenomeno della violenza durante le manifestazioni sportive, in particolare durante le partite calcistiche. L’esigenza di contrastare la violenza durante le manifestazioni sportive sorse dopo i tragici fatti che caratterizzarono la finale della Coppa dei campioni del 1985. Il 29 maggio di quell’anno, mentre Juventus e Liverpool si affrontavano per la conquista del titolo allo stadio di Bruxelles, la violenza degli ultrà della squadra inglese causò la morte di 39 tifosi, quasi tutti italiani. Quest’episodio scosse l’opinione pubblica a livello europeo e condusse all’elaborazione e alla firma, avvenuta il 19 agosto 1985 a Strasburgo, della Convenzione Europea sulla violenza e i disordini degli spettatori durante le manifestazioni sportive, segnatamente nelle partite di calcio. La Convenzione Europea in questione si pone l’obiettivo specifico della prevenzione e controllo non soltanto dei fenomeni durante le partite di calcio ma anche inerenti agli altri sport e manifestazioni sportive, tenuto conto delle loro esigenze specifiche in cui si temano, appunto violenze o disordini degli spettatori. La Convenzione pone un punto fermo sulle modalità di elaborazione e di attuazione di tali provvedimenti, enfatizzando una maggiore presenza dei servizi d’ordine” e l’adozione, nel caso in cui o si ritenga opportuno, di una legislazione che commini pene appropriate o, all’occorrenza, provvedimenti amministrativi appropriati alle persone riconosciute colpevoli di reati legati alla violenza o disordini degli spettatori. La Convenzione Europea entrò in vigore in Italia l’1 gennaio 1986, ma la legge che sancì l’introduzione del Daspo sportivo fu la legge 13 dicembre 1989 n. 401, ad essa ne seguirono altre che perfezionarono gli strumenti di controllo da applicare sui i tifosi e sulle curve calcistiche, trasformando gli stadi in laboratori in cui sperimentare forme sempre più efficaci di repressione. La Legge n.401 del 13 dicembre 1989 prevede l’utilizzo dello strumento del Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive (DASPO) che vieta al soggetto ritenuto pericoloso di accedere ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive, siano esse ad elevato grado di rischio o meno. Questo tipo di misura consiste in un provvedimento del Questore che, senza alcuna pronuncia giudiziaria, impedisce ai tifosi ritenuti pericolosi di andare allo stadio per un periodo che va da uno a cinque anni. Il carattere preventivo di questa misura ha sempre suscitato proteste da parte della tifoseria organizzata, nonché sollevato dubbi di legittimità costituzionale negli ambienti giuridici, anche se la Consulta, nel 2002 attraverso un suo pronunciamento, ne ha sancito la compatibilità con la Costituzione.

Visti i discreti risultati del Daspo sportivo e la relativa pacificazione degli stadi, negli anni scorsi venne la tentazione a chi ci governa di elaborare uno strumento simile per reprimere il dissenso. Infatti ogni volta che nel corso di una manifestazione si verificano scontri di piazza si evoca l’idea di approvare leggi speciali di prevenzione. Una delle ultime occasioni in cui venne espressa pubblicamente questa volontà fu dopo il corteo No Expo del Primo Maggio 2015 a Milano. In quell’occasione l’allora Ministro degli Interni Angelino Alfano dichiarò che il Governo stava lavorando per elaborare divieti preventivi come avviene per le partite di calcio. Nel caso in cui ci fosse stato un alto grado di pericolosità sarebbe stato proibito sfilare nel centro delle città come avviene quando si impedisce ai tifosi di andare in trasferta. L’ipotesi era quella di estendere ai manifestanti il Daspo con la chiara volontà di applicarlo a livello politico subordinando il diritto al legittimo dissenso ad una valutazione del governo in carica, dando, quindi, al potere un’ulteriore arma di controllo del dissenso capace di allontanare i soggetti ritenuti scomodi e riducendo le manifestazioni di piazza a ordinate e disciplinate sfilate da passerella. Nonostante la proposta del Daspo politico non avuto alcun seguito, le questure italiane hanno iniziato a sfruttare le nuove regole sul Daspo per colpire chi è impegnat* nelle lotte sociali. La nuova regolamentazione fu introdotta con la riforma dell’agosto 2014, in cui è contemplata la possibilità di estendere il provvedimento a “tifosi” denunciati o condannati per reati contro l’ordine pubblico o coinvolti in episodi violenti. Il risultato il Daspo di piazza dal momento che alcune questure hanno disposto il Daspo o avviato procedimenti amministrativi che possono portare a quest’ultimo nei confronti di persone che avevano preso parte a manifestazioni politiche. Possiamo citare almeno due casi. Il primo avvenne a Livorno dove quattro compagni furono denunciati per partecipato alla contestazione contro Matteo Salvini, avvenuta il 14 luglio 2015. Nell’ottobre dello stesso anno, oltre alle accuse di lesioni aggravate e porto d’arma impropria, ai quattro venne recapitata anche una diffida in quanto, secondo la Questura livornese frequentatori abituali dello stadio. Il secondo, invece, avvenne a Pisa dove, nel gennaio 2016, sei compagn* vennero raggiunte dalla diffida per aver partecipato a una manifestazione contro un comizio della Lega Nord, tenutosi il 14 novembre dell’anno precedente, in cui ci furono scontri con la polizia. L’accusa fu quella di aver istigato a delinquere e aver avuto una condotta violenta. Nel caso delle e dei compagn* pisan* il Tar annullò il provvedimento. In entrambi i casi i e le manifestanti sono stat* colpit* da questi provvedimenti in via sperimentale dovendo subire inedite misure di controllo. Questi nuovi strumenti di limitazione della libertà sono stati applicati sui settori più vulnerabili della società e sui quali è più facile la speculazione mediatica e politica.

È in questo contesto che si inserisce il Daspo urbano, partorito da Minniti e contenuto nella Legge 13 aprile 2017 n.46 che mira a prevenire i fenomeni di criminalità diffusa e a promuovere la legalità e il rispetto del decoro urbano. L’ex Decreto sicurezza poi convertito in legge contiene una serie di provvedimenti volti a rafforzare i poteri del sindaco in materia di strumenti a disposizione per garantire la sicurezza sul territorio. Il rafforzamento del ruolo dei primi cittadini su questa materia costituisce un ulteriore passo verso la piena realizzazione della figura di quello, che alcuni anni fa, veniva chiamato sindaco-sceriffo. La norma più importante del pacchetto sicurezza targato Minniti è probabilmente il cosiddetto il “DASPO urbano”, con cui un sindaco in collaborazione con il prefetto potrà multare e poi stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione di aree e infrastrutture pubbliche, viene trovato in stato di ubriachezza, compie atti contrari alla pubblica decenza o esercita abusivamente l’attività di commerciante o di posteggiatore. La definizione è molto ampia e quest’ultima potrebbe essere utilizzata contro diverse tipologie di abitanti del territorio. Inoltre viene introdotto l’arresto in flagranza differita (entro 48 ore) che sarà esteso anche alle manifestazioni di piazza. Nonostante sia da poco entrato in vigore il Daspo urbano è già stato applicato, il primo episodio fu il 25 marzo 2017 quando, in occasione della manifestazione dei movimenti sociali, svoltasi a Roma in occasione dei festeggiamenti del 60° anniversario della firma del Trattato di Roma, venne utilizzato questo strumento per bloccare l’arrivo di un centinaio di manifestanti, tenuti in ostaggio senza alcuna motivazione nel complesso della Questura di Roma. Altri episodi in cui si è vista l’applicazione del Daspo urbano si sono verificati a Napoli e a Saronno.

Il Daspo urbana in salsa trentina

La proposta di Daspo urbano in discussione in questi giorni nel Consiglio Comunale di Trento prevede l’allontanamento per 48 h da una zona perimetrata del centro storico per chi compie atti indecorosi quali il danneggiamento di arredi urbani, i comportamenti lesivi dell’incolumità delle persone, il bivacco e l’occupazione di panchine con comportamenti contrari alla decenza, del decoro e dell’igiene, salire su monumenti e fontane, fare accattonaggio molesto e orinare per strada. La zona della città che deve rispondere a criteri di decoro è quella che indicativamente va da Piazza Dante al quartiere delle Albere

Chi si renderà colpevole di uno degli atti sopracitati verrà prima allontanato dalla zona soggetta a Daspo per un periodo di 48 ore e nel caso in cui non rispetti il decreto di allontanamento verrà sanzionato con una multa che varia da 300 a 900 euro. Se non la pagherà interverrà il questore che potrebbe ordinare il divieto di ingresso nell’area per un minimo di sei mesi.

Perché opporsi al Daspo

Come militanti politici, però, quello che ci interessa sottolineare in questa sede non è tanto il dato tecnico-giuridico che lasciamo volentieri ad altri quanto più il dato politico che, secondo noi, traspare da questo strumento repressivo. L’origine di questo provvedimento risiede nella volontà di combattere il degrado e ristabilire il decoro nelle aree urbane. Come il concetto di degrado, anche il concetto di decoro è una categoria molto ampia che si presta alle interpretazioni più diverse ed è proprio in questo suo carattere flessibile che risiede il primo dato da rilevare, cioè che il concetto storico di decoro diventa un canone stabilito dalle forze politiche in carica che volta per volta possono decidere di usarlo per definire chi è ben accetto e chi no all’interno delle aree del centro, sfruttando questo margine di agibilità per i propri scopi politici. Questa definizione da parte delle forze politiche del concetto di decoro pone in luce alcuni aspetti. Il primo è la valenza esplicitamente politica che assume la misura repressiva del Daspo urbano. Il secondo è la definizione di un palese criterio di distinzione tra i soggetti sociali che vivono la città, che vengono divisi in desiderati, cioè coloro che rispettano i canoni del decoro e sono ammessi a vivere le aree soggette a Daspo, e gli indesiderati. Con questa suddivisione la politica istituzionale si toglie definitivamente la maschera e utilizza un criterio classista, se mai avesse smesso di farlo, mascherandolo con motivazioni “estetiche”, secondo una logica che ricorda molto quella del merito che grazie alle ultime riforme abbiamo visto introdotta nelle scuole superiori. Questa divisione tra desiderati e indesiderati nasconde un aspetto ancor più preoccupante ed è quello della normazione degli stili di vita delle e degli abitanti delle città. Infatti se vuoi poter vivere l’area soggetta a Daspo devi conformarti a un certo codice di comportamento altrimenti fuori, sei espulso. Naturalmente questo codice, sebben in linea generale rivolto a tutt*, in realtà è pensato principalmente per i soggetti sociali “deboli”. Tant’è che il concetto di decoro, come quello di merito, non è altro che un tentativo, a parer nostro maldestro, di camuffare la vecchia e mai abbandonata divisione fatta su base economica. La divisione immateriale basata sul concetto di decoro trova il suo corrispettivo materiale nella divisione dello spazio urbano attraverso l’introduzione di un perimetro all’interno della città, che costituisce un confine interno. La suddivisione tra due tipologie di aree cittadine coincide tendenzialmente con la classica frattura tra centro e periferia andandola a rafforzare. Infatti lo strumento del Daspo urbano si affianca alle misure di gestione dello spazio urbano, come la gentrificazione, che abbiamo conosciuto in questi anni. In quest’ottica il centro città vetrina viene fisicamente “fortificato” approfondendo sempre di più la distanza con la periferia che diventa la discarica dei problemi sociali delle città nella speranza che allontanando le problematiche esse magicamente svaniscano. In questo processo di “fortificazione” del centro cittadino cambia anche il ruolo delle forze dell’ordine che assumono la funzione di esercito di difesa del centro politico ed economico delle città.

Di fronte a questo scenario che molto probabilmente andrà sempre più cristallizzandosi, se non è attraverso l’azione di Minniti lo sarà con l’azione di altri politici che hanno fatto del securitarismo e della repressione la loro crociata, sorge il problema di come essere all’altezza dei tempi che corrono e di essere in grado di opporsi efficacemente ai piani scellerati della controparte. Partendo dalle nostre vite, l’unica opzione percorribile, per quanto ardua possa essere, non è piegarsi e concedere terreno ma anzi è quella di far saltare il perimetro, sia esso materiale o immateriale, con il quale vogliono dividere le nostre città e le sue e i suoi abitanti attraverso la rottura come metodo, il conflitto come pratica quotidiana e la militanza come stile di vita.

I compagni e le compagne del Collettivo Universitario Refresh