Fuori i fascisti dalla città e dall’università. No alle ronde di Casapound

Nella sera dello scorso 3 maggio, una ventina di militanti di CasaPound hanno deciso di inaugurare la loro nuova campagna “antidegrado” presentandosi in una delle note piazze antifasciste della città: Piazza Santa Maria Maggiore, spesso attraversata da student* universitar*, ma centro delle polemiche (e delle retoriche) cittadine sulla sicurezza. La settimana successiva si è ripetuto il medesimo siparietto grottesco in Piazza Dante (luogo altrettanto dibattuto), un’altra ronda squadrista giustificata dall’instancabile guerra al degrado cittadino; sarebbe forse meglio chiamarla caccia al diverso: all’immigrato, al/alla omosessuale, alla sex worker e in generale a tutt* quell* che non rientrano nello standard di normalità e decoro sancito da CasaPound. Che si tratti di orientamenti sessuali, di precarietà sociale o di colore della pelle, per i neofascisti de Il Baluardo, sempre di “feccia” si parla, e pertanto va allontanata per rendere più sicure le strade cittadine. A seguito di questi due episodi sono state fatte ben altre due ronde, a Roncafort e nella zona del parco di Melta.
Casapound è un partito dichiaratamente neofascista e razzista che professa odio contro i migranti, alimentando un clima di intolleranza fatto di menzogne e strumentalizzazioni. La difesa dell’italianità spazia dal confinamento del diverso all’aggressione fisica e personale. Ce lo mostrano Filippo Castaldini e Maurizio Zatelli, noti aggressori della sezione trentina del partito, soliti ad aggirarsi nella notte armati di coltello, pronti a difendere le strade, senza paura di infilare lame ben dentro alle pance di chi, a loro avviso, è feccia. La scia di sangue e violenze lasciata da questi “bravi ragazzi” si protrae dal 2013, anno di apertura della sede Il Baluardo. Costellata di intimidazioni, azioni squadriste, pestaggi e accoltellamenti, la politica da due soldi che professa Casapound vede come ultima campagna quella del “riempire le culle, svuotare i centri d’accoglienza”. Così come la Lega Nord anche Casapound infatti si è schierato contro l’accoglienza dei venti richiedenti asilo ospitati a Vela, attaccando la struttura che dovrebbe ospitare i/le migranti sul territorio trentino, da sempre solidale e accogliente.

Noi li conosciamo bene e non abbiamo intenzione di lasciare loro alcuno spazio, agibilità politica o militare che sia, all’interno della nostra città. Riteniamo che le strade di Trento, la sua Università e i suoi spazi debbano mantenersi liberi da idee intolleranti, da pratiche squadriste e vigliacche. La paranoia del degrado che assilla il dibattito pubblico, e che funge da pretesto per i militanti di Casapound per scorrazzare liberi per le strade, è in realtà inquinata, distorta e costruita per alimentare la guerra dei penultimi contro gli ultimi, dei poveri contro i più poveri.

Pur senza ignorare la presenza di fenomeni economici e sociali che costringono a vivere in precarietà, non accettiamo che la soluzione sia allontanare, marginalizzare o picchiare chi è abbandonato e represso da una società civile incapace di scagliarsi contro chi, invece, quei fenomeni li ha prodotti. L’attitudine a rinchiudersi nella bolla di perbenismo ipocrita che legittima l’azione di questi facinorosi in nome del decoro urbano e della difesa di libertà che democratiche non sono, ci costringe a considerare colpevoli anche tutti coloro (media, stampa, organi istituzionali, gruppi politici, associazionismo universitario e non) che non si assumono la denuncia e la condanna della presenza di Casapound e simili in città. Riteniamo che gli orientamenti repressivi dell’amministrazione locale e nazionale, l’aumento della militarizzazione per le strade, la diffusione di isterie securitarie siano risposte velleitarie che vagheggiano nel tentativo di eliminare gli/le indesiderat*, allontanare gli/le indesiderabil* e punire i/le dissenzient*.

Occorre invece praticare forme di riappropriazione degli spazi urbani lasciati al controllo poliziesco o squadrista, riempiendo le strade di socialità libera aperta all’incontro, rifiutando logiche d’esclusione e intervenendo laddove chi è emarginato possa trovare sponda per una rivendicazione di maggiori tutele sociali, lotta per i diritti fondamentali e possibilità d’integrazione e autodeterminazione personale e collettiva. La guerra al diverso non dà garanzie di un futuro degno, né tantomeno la discriminazione regala maggiori aspettative di benessere collettivo. Il lavoro, i diritti e la libertà sono egualmente negati da una minoranza di potenti a danno di tutt*.

Casapound ha dichiarato di volersi riprendere Trento, ma non ha fatto i conti con chi ancora crede negli ideali antifascisti e nelle pratiche che vi conseguono. Come student* universitar* riteniamo necessaria una riflessione attenta ai rischi che corrono la città e la sua Università nel momento in cui personaggi e gruppi politici di questo tipo si sentono legittimati ad aggirarsi liberamente per le strade. Non smetteremo mai di considerarci, in quanto student* universitar*, abitanti a tutti gli effetti di Trento e, pertanto, non permetteremo mai che ideali e pratiche veicolate da Casapound e simili, possano mettere piede all’interno degli spazi universitari e cittadini.

VOGLIAMO UN’UNIVERSITÀ E UNA CITTÀ LIBERA DAL FASCISMO, DAL RAZZISMO E DAL SESSISMO.

Allarme gender a UniTn? Ma fateci il piacere!

ACCADEMIA LGBT – Università gender con i soldi UE. Alla lobby gay 1,2 milioni di euro”. In questo modo Patrizia Floder Reitter titola un suo articolo apparso il 4 maggio scorso su La Verità, quotidiano di Maurizio Belpietro, e ripreso integralmente da La Voce del Trentino qualche giorno fa.
In questo articolo, il cui titolo lascia poco spazio all’immaginazione circa il contenuto, si parla di come pare essere arrivato il virus del gender all’Università di Trento, il quale rischia di infettare intere generazioni di giovani menti. Nello specifico, messi sotto la lente di ingrandimento sono tre personaggi, la Prof.ssa Barbara Poggio, l’avvocato Alexander Schuster e l’assessora Sara Ferrari. Quella che è definibile come una vera e propria schedatura di tutti i personaggi in realtà riguarda il ruolo che hanno, almeno a detta dell’autrice dell’articolo, attorno e all’interno al Centro Studi interdisciplinari di Genere (CSG) dell’Università di Trento. Ad essere messi in discussione dall’autrice sono due aspetti principali.
Il primo è il contenuto e le tematiche affrontate dai vari seminari organizzati negli anni dal CSG e dai suoi progetti di ricerca. Nell’articolo infatti la Floder Reitter sciorina tutta una serie di titoli di seminari o riporta virgolettati estrapolati da ben più complesse relazioni, imputando a questi la duplice colpa di propagandare messaggi devianti e di avere una ingenua platea di studenti e studentesse presenti in quanto interessati/e al riconoscimento di un tot di CFU. Secondo l’autrice dell’articolo infatti, parlare di omosessualità, bullismo omo-trans fobico, genitorialità omosessuale o di altre maschilità significa che la platea di ascoltatrici e ascoltatori verrà automaticamente “convertita” ad uno stile di vita omosessuale, deviato, non ortodosso e non tradizionale.
Il secondo aspetto ad essere messo in discussione è il finanziamento dei seminari e delle ricerche del CSG, fondi che spesso (e fortunatamente) sono pubblici, siano essi provenienti dall’UE, dalla Provincia o dal Comune. La Floder Reitter infatti considera il finanziamento a tale campo di indagine accademica e del CSG come un finanziamento alle “lobby gay” le quali hanno tutto l’interesse di infilarsi all’interno del sistema della pubblica istruzione per deviare giovani menti.
Questo il senso dell’articolo, vaneggiamento più, vaneggiamento meno.
Chiariamoci: da La Voce del Trentino e da La Verità non ci aspettiamo del giornalismo decente, qualsiasi cosa questo significhi. Ci aspettiamo menzogne travestite da notizie utili alla propaganda politica di qualche destrorso di turno o a veicolare e incrementare un clima generale di bigottismo, intolleranza, odio fra poveri e paura. Ciò detto, la lettura dell’articolo ci spinge a prendere una posizione per due ordini di motivi. In primo luogo, sebbene siamo consapevoli che questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi e aspre critiche che il CSG ha dovuto subire negli ultimi anni e di un clima di terrore generico in Trentino sull’allarme gender, è anche vero che questa notizia va ufficialmente oltre i confini della provincia autonoma e sbarca sul nazionale… per quanto il giornaletto di Belpietro probabilmente avrà una manciata scarsa di lettrici e lettori (o almeno ci auguriamo che sia così). In secondo luogo, le parole della Floder Reitter, per quanto deliranti e visionarie, attaccano in ogni caso la produzione accademica, la professionalità e la disponibilità di professionisti e professioniste del CSG che abbiamo anche avuto modo di incrociare non poco tempo fa, durante lo sciopero dei e dai generi dell’otto marzo. E questo non può starci bene. Perché se è vero che il campo di indagine di genere può non piacere o non interessare, ricamarci dietro arzigogolati discorsi di educazione alla devianza e finanziamento delle lobby gay significa attaccare la ricerca accademica (oltre che essere folgorati, diciamocelo). E non un tipo di ricerca qualunque ma quella che si interroga profondamente sulle dinamiche di genere e spesso prova anche a delineare dei piani per superare pregiudizi e abbattere muri, dentro e fuori l’accademia. Strumenti che possono piacere o meno, possono essere criticati o osannati, ma comunque è un tipo di ricerca dinamica che se è vero che prende dal pubblico, anche in termini economici, è vero anche che si propone di restituire qualcosa di utile alla comunità di riferimento, concependo così anche la ricerca accademica stessa in un altro modo, non come un qualcosa che sta nelle più alte stanze di una torre d’avorio ma come qualcosa che può essere, insieme ad altro, fattore di cambiamento e rinnovamento. Questo fa il CSG e questo fanno molti ricercatori e ricercatrici che lavorano sulle questioni di genere. E questo ci piace. E va difeso, anche dai vaneggiamenti di una “giornalista”.
Inoltre, se non piacciono i finanziamenti pubblici a questo tipo di ricerca inevitabilmente dobbiamo riprendere un discorso che ai/alle neoliberali non piacerà molto. La ricerca DEVE essere pubblica. E basta. Perché peggio che vedere fondi pubblici usati per un tipo di ricerca che qualche mente bigotta stigmatizza, c’è vedere fondi e strumenti pubblici, in combo con grossi nomi di privati, finanziare e fare ricerca su robe seriamente dannose. Le stesse che poi sedicenti esportatori di democrazia o difensori di valori patriottici utilizzano per fare la guerra al primo nemico-costruito di turno, col solo scopo di continuare a far funzionare l’industria della guerra che, quella sì, ingrassa tasche e pance di pochi.

Per quello che vale, ci schieriamo con il CSG e la ricerca di genere, ci schieriamo con chi dentro l’università prova a rivedere il mondo con occhi diversi, provando a disinnescare pezzo dopo pezzo le strutture di potere relazionali, e non, che derivano dal semplice binario maschio/femmina. Ci schieriamo con il CSG perché prima di andare a fare i conti in tasca ad alcuni personaggi che provano ad educare alle diversità, ci piacerebbe che sedicenti “giornalisti/e” alla Floder Reitter andassero a inchiestare e a ficcare il naso lì dove si ricerca e perfezionano gli strumenti di guerra. Infine ci piacerebbe anche che la difesa di una certa parte di accademia, libero pensiero, libera ricerca venissero difesi dall’intera comunità universitaria. Perché, per quanto ci riguarda, una buona università non è fatta di ranking e cerimonie patinate. Una buona università è fatta dal sapere critico. In quanto studenti e studentesse universitarie abbiamo preso una posizione. Lasciamo il passo ad altri e altre.

La libertà di espressione non si arresta, Gabriele libero!

Mentre un’opposizione ridotta all’osso accusa il governo di brogli e chiede l’annullamento del referendum, la commissione elettorale, forte dell’irreversibilità del “voto popolare”, pesta le mani alle arrancanti voci contrarie confermando i risultati della consultazione. Il tappeto rosso sembra ora srotolarsi su un terreno già solcato o, più precisamente, consunto.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si congratula con Erdoğan per l’ottimo lavoro. L’Osce grida “al ladro!”. La diplomazia italiana gioca al telefono senza fili con Ankara affinché un giornalista ignorato dalla stampa nazionale venga rispedito al mittente, possibilmente privo dell’elegante cappotto di legno all’egiziana.

A Istanbul si protesta contro la costituzionalizzazione di una dittatura e in Italia si cerca di ricomporre un puzzle degno di solidalizzare con il connazionale arrestato il 9 aprile. In questo giorno infatti Gabriele Del Grande, documentarista indipendente e regista di “Io sto con la sposa”, è stato arrestato in Turchia, precisamente ad Hatay, con accuse deboli e pressoché insostenibili. La verità la conosciamo bene, è la stessa verità di Giulio Regeni, è la stessa verità degli accademici arrestati e della repressione che vive il mondo della ricerca e della formazione. Quanto successo a Gabriele Del Grande non è nulla di inaspettato: la sua vicenda si svolge su un terreno già saturo di inquietanti presupposti; un terreno pronto al totalitarismo che non ha mai esitato a rendere manifeste le proprie intenzioni. La totale sospensione delle libertà democratiche a cui hanno fatto seguito migliaia di arresti finalizzati ad imbavagliare bocche scomode, non è certo un fatto nuovo.

È tristemente noto a tutti come dopo il fallito golpe di luglio 2016, circa 1600 tra professori, presidi e rettori universitari (tra cui quello di Ankara) siano stati licenziati, allontanati o incarcerati. Con la purga delle università, si è consumata anche quella delle emittenti televisive, seguite dagli arresti dentro le sedi giornalistiche, poi chiuse per sempre.  La fobia gulenista sembra aver mostrato -sotto la spinta di rivalsa post golpista- una prassi di conquista del potere e di deriva autoritaria che le dittature del XX secolo ci mostrarono ben prima che il mondo oggi si svegliasse con un Erdogan dittatore dopo voto democratico. Si sta parlando dell’annullamento dell’opposizione, della repressione della libertà d’espressione, di stato di polizia permanente nei grandi centri urbani, di propaganda mistificatoria, fino ad arrivare al taglio delle teste pensanti dentro le scuole e le università. E con la proposta di reintroduzione della pena di morte, il taglio di queste teste è probabile che diventi molto di più di una macabra metafora.

Una dittatura si è confezionata sotto ai nostri occhi e non possiamo negare l’indifferenza con cui ne abbiamo osservato la genesi. La maggioranza risicata che ha regalato a Erdoğan la vittoria ha incorniciato una sequenza di eventi che affonda le proprie radici ben oltre la scadenza del 16 aprile e ben più a fondo rispetto al golpe del luglio 2016.

È evidente come non siano state certo briciole a suggerire la via di una deriva totalitaria della Turchia di Erdoğan: i crimini perpetrati contro la minoranza curda e contro i migranti, i numerosi arresti che hanno mutilato l’ambito accademico, l’ondata di repressione e l’aria di censura non sono indizi da poco. Ma, come spesso accade, nessuno si accorge delle suole sozze dell’invitato finché questo non varca la soglia con le scarpe sporche di merda.

E quanto spesso tra i massimi organi dello Stato -e in generale dentro le democrazie europee- ci si è turati il naso davanti ad accordi commerciali con tale sanguinario dittatore o davanti all’emergere di nuovi fascismi in proprio seno? Nel richiedere la liberazione di Del Grande ci ricordiamo che la libertà di ricerca accademica, come la libertà d’espressione, non sono suppellettili che una democrazia può scegliere se includere o meno nella propria struttura di diritti fondamentali tutelati.

Di quanti Giulio Regeni abbiamo bisogno per prendere una posizione decisa nei confronti delle derive autoritarie che si stanno confezionando sotto ai nostri sguardi imbambolati?

 

 

Sbirri a Sociologia…. e DIANI COSA DICE?

Di questi tempi accadono cose strane al Dipartimento di Sociologia di Trento. E a quanto pare c’entra sempre una divisa. Ma andiamo per gradi.

È lunedì, tardo pomeriggio-prima serata, e nel cortile interno di Sociologia si svolge un aperitivo organizzato da una associazione studentesca. Ad un tratto, spuntano quattro poliziotti in divisa dentro al cortile, guidati da un signore “vestito normale” (anzi, chiamiamolo col suo nome, poliziotto in borghese) che indica loro un ragazzo, uno studente universitario per l’esattezza. A quanto pare, la polizia era stata chiamata poco prima da un ragazzo presente in cortile dicendo loro di aver riconosciuto chi, a suo dire, gli aveva rubato la bicicletta qualche tempo prima, il cui furto aveva denunciato proprio alla polizia. Riconoscimento avvenuto sulla base di un video di sorveglianza di pessima qualità, aggiungiamo. Insomma, gli zelanti poliziotti si presentano quindi a Sociologia, si dirigono dal ragazzo e, tolto lui il telefono, se lo portano via. In volante. Senza una denuncia a suo carico. Senza un pezzo di carta in cui spiegano cosa e perché. Solo con un sospetto in tasca (e il cellulare del ragazzo). Nel silenzio più totale di chi era in cortile e guardava la scena. Anzi, no, il silenzio in effetti non c’era, visto che la festa ha continuato come se nulla fosse, con tanto di musica.
Ma la stranezza non finisce qui. Infatti, la polizia ha messo piede in università senza tante cerimonie, pure portandosi via uno studente, senza poterlo fare. È noto a tutt@ infatti che affinché la polizia possa entrare in università per una qualsivoglia operazione, essa deve ricevere il permesso dal rettore o dal direttore del Dipartimento in questione. Gli zelanti sbirri della nostra storia, una volta arrivati in via Verdi, avrebbero dovuto andare in portineria, spiegare il motivo della loro presenza e chiedere al/alla funzionario/a presente di avvertire il direttore di dipartimento, in questo caso il Prof. Mario Diani. Solo con l’assenso di quest’ultimo avrebbero potuto procedere con “l’operazione”. Chissà… eccesso di zelo, voglia di combattere la criminalità, voglia di fare qualcosa oltre a presidiare Piazza Santa Maria Maggiore… insomma, la comunicazione non è mai stata data, la direzione del Dipartimento non è mai stata allertata, il permesso di entrare in università agli sbirri non è mai arrivato.

Chissà per quale strana formula uno studente o studentessa qualsiasi si trova davanti un iter burocratico infinito per usare uno spazio dell’università, senza il quale le porte delle aule non si aprono fuori lezione, ma degli uomini in divisa possono fottersene degli iter e fare quello che gli pare in uno spazio che DECISAMENTE non appartiene loro. Chissà.

Riteniamo inaccettabile che nella nostra università la polizia entra ed esca, portandosi via anche uno studente, senza che chi di dovere sappia cosa sta succedendo. Soprattutto, riteniamo inaccettabile che la polizia possa entrare così facilmente all’università, senza che nessuno abbia fatto notare loro che sì, diamine, il permesso per mettere piede all’interno di un dipartimento LO DEVONO CHIEDERE.

Ci chiediamo e chiediamo al direttore del Dipartimento di Sociologia, Prof. Mario Diani, se è al corrente di quanto accaduto lunedì scorso all’interno del Dipartimento di cui è direttore. Chiediamo al Prof. Diani dunque di esprimersi sull’argomento e se ritiene normale che la polizia entri all’interno del Dipartimento, senza comunicare niente a nessuno.

Per quanto ci riguarda, lo abbiamo detto più volte nelle scorse settimane e continueremo a dirlo: FUORI GUARDIE E SBIRRI DALL’UNIVERSITA’!

Speriamo che Diani sia dello stesso avviso…

Solidarietà agli antifascisti e alle antifasciste roman@!

A pochi giorni dalla manifestazione del 25 marzo, in cui all’incirca 150 compagn* di diverse regioni furono sequestrat* dalle forze dell’ordine, la mattina del 30 marzo la Questura di Roma ha riacceso la macchina repressiva. Ieri mattina un’operazione di polizia ha colpito 13 compagne e compagni antifascist*, elargendo 9 obblighi di firma giornalieri e 4 arresti domiciliari. Cotanta generosità da parte della Questura si deve ai fatti relativi al corteo CASAPOUND NOT WELCOME avvenuta il 21 maggio 2016. In quella giornata migliaia di persone scesero in piazza per opporsi con coraggio e determinazione alla sfilata dei fascisti di Casapound Italia e di altri gruppi neofascisti giunti da tutta Europa.

In quella giornata Roma vide il dispiegamento di un ingente apparato di polizia che non solo ha permesso a Casapound di portare i suoi contenuti razzisti e xenofobi nella più totale tranquillità, ma che ha anche protetto le continue provocazioni della feccia fascista che hanno costellato tutto il percorso del corteo antifascista. L’unica colpa dei compagni e delle compagne antifascist* è stata quella di essersi autodifes* respingendo le provocazioni al mittente affermando in modo limpido e inequivocabile che i fascisti, di qualsiasi colore, forma o provenienza essi siano, non possono circolare impunemente per le strade.

A chi è stato colpito da queste misure repressive va tutta la nostra solidarietà e complicità. Noi, come Collettivo Universitario Refresh, rigettiamo la logica secondo la quale è illegittimo contestare un’organizzazione dichiaratamente fascista per il semplice fatto che si presenti al teatrino delle elezioni. Noi non siamo disposti a lasciare che organizzazioni di questo genere possano parlare ed esistere liberamente siano all’interno o all’esterno dell’università. Nonostante il periodo storico che viviamo veda la concessione di sempre maggiore spazio a forze fasciste, razziste e xenofobe per noi vale ancora la promessa contenuta nello slogan “fascisti carogne tornate nelle fogne” e faremo di tutto perché ciò avvenga. L’antifascismo non si arresta

LIBER* TUTT*, LIBER* SUBITO

Con i territori che resistono: solidarietà ai NoTAP

In questi giorni in Puglia , vicino San Foca, si sta consumando una violenza inaudita su un territorio e la sua intera popolazione. È infatti proprio a San Foca e nei territori limitrofi che dovrebbe passare una parte del TAP (Trans Adriatic Pipeline), mega condotto di gas, in parte sotterraneo, che dal Mar Caspio dovrebbe portare il gas in Europa. Le ragioni dei comitati notap che si oppongono alla grande opera, sono varie e riguardano vari temi, da quelli ambientali a quelli più strettamente economici.
In questi giorni, nonostante l’assenza delle perizie ambientali richieste, le ruspe della ditta incaricata di iniziare i lavori sono state scortate dalla polizia per sradicare centinaia di ulivi, in modo da liberare il campo per i lavori di costruzione del condotto. Student@, lavorat@, contadin@ e persino i sindaci della zona hanno provato ad impedire alle ruspe di entrare nelle terre preposte all’opera. I presidio però è stato violentemente strattonato e anche manganellato dalla polizia, che ha così permesso alle ruspe di iniziare lo sradicamento.
In quanto student@ riteniamo anche nostra la responsabilità di prendere posizione. Ci schieriamo contro chi devasta e saccheggia i territori per proprio profitto, ci schieriamo contro un modello di sviluppo che svilisce le bellezze naturali, ci schieriamo contro la logica dello sfruttamento delle risorse a tutti i costi. Stiamo dalla parte dei salentini e delle salentine, che hanno e continuano a mostrarci la forza di un corpo collettivo che si prende cura dei propri territori. Le barricate costruite questa notte atte a bloccare i lavori ci dimostrano che resistere è possibile, nonostante la bruta violenza poliziesca.
NO TAP, SIAMO CON VOI!