#SIAMOAFRIN

Il Collettivo Universitario Refresh organizza la proiezione di Binxêt – Sotto il confine, il film documentario di Luigi D’Alife con la voce di Elio Germano per un momento di controinformazione in cui continuare a parlare della rivoluzione confederale e di ciò che sta succedendo in Siria del Nord a sostegno della campagna di solidarietà SiAmo Afrin.

28 maggio 2018 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia (aula da definirsi)

▶️Ore 18:00:
Proiezione del docu-film “Binxêt – Sotto il confine” distribuito da OpenDDB (Distribuzioni dal Basso)
Trailer: https://vimeo.com/205059760

▶️A seguire momento di dibattito e piccolo rinfresco all’esterno della Facoltà

(I fondi raccolti verranno versati a sostegno della campagna SiAmo Afrin) 

#SiAmoAfrin:

“In seguito al lancio dell’”Operazione Ramoscello d’Ulivo” da parte della Turchia, il pacifico, multiculturale e democratico cantone di Afrin in Rojava (Nord Est della Siria) è stato invaso, saccheggiato, bruciato e distrutto. Si stima che circa 450.000 persone siano fuggite terrorizzate, dopo che le forze turche e i loro alleati jihadisti, molti con radici in Al-Quaeda e nelle frange dell’ISIS, hanno preso il controllo della città. Gli sfollati attualmente vivono all’aperto, senza beni di prima necessità, come cibo, acqua e latte in polvere per bambini. Malattie come la tubercolosi non sono solamente presenti, ma si diffondono con una certa velocità e allo stesso tempo c’è una mancanza di medicinali e attrezzature mediche. Le ONG locali, come la Kurdish Red Crescent (KRC) e la Hêvî Foundation stanno tentando con i pochi mezzi che hanno a disposizione di sostenere gli sfollati. A Shahba la KRC ha messo in piedi due campi di accoglienza: Berxwedan e Seredem. Tuttavia non riescono a far fronte a tutte le necessità, soprattutto alla luce della totale inerzia delle ONG internazionali, molte delle quali presenti in Siria. In migliaia ancora vivono all’aperto, sotto rifugi di fortuna costruiti con la plastica.

L’invasione di Afrin non solo ha portato a una massiccia crisi umanitaria, ma aha anche messo in pericolo la democrazia pacifica, multiculturale e radicale basata sulla parità fra uomini e donne e la sostenibilità ecologica in Rojava. L’invasione – con annessa pulizia etnica – era sì rivolta al popolo curdo, ma allo stesso tempo ha colpito anche le altre minoranze etniche e religiose presenti sul territorio, come gli Yazidi ed i Cristiani, i quali sono attualmente sottoposti a conversioni forzate all’islamda parte delle forze turche e degli jihadisti alleati. L’occupazione turca ha delle implicazioni a livello globale e se da una parte le unità di difesa popolare curde YPG e YPJ sono state quelle hanno ottenuto i maggiori successi nella lotta contro l’ISIS, dall’altra dopo quello che è successo ad Afrin ora sono impegnate a proteggere i civili e questo purtroppo comporta un preoccupante aumento delle attività di Daesh.

Davanti al continuo silenzio della comunità internazionale che non ha condannato l’invasione turca di Afrin, davanti al fallimento delle organizzazioni umanitarie internazionali che non si sono mobilitate per fornire aiuti umanitari ai civili sfollati, tutti i gruppi, gli attivisti e associazioni di solidarietà hanno lanciato una chiamata globale e un invito a partecipare alla campagna “SiAmo Afrin” “We Are Afrin).

La campagna vede la partecipazione di due importanti Ong: una italiana, il GUS (Gruppo Umana Solidarietà) e una in Rojava chiamata Hêvî Foundation. La campagna partirà dall’Italia il 25 aprile in coincidenza con il 73 ° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, e punta a diffondersi a livello globale; si concluderà poi con una delegazione internazionale che punta ad arrivare in Rojava il 2 giugno per consegnare i fondi raccolti.

Gli obiettivi della campagna sono:

–          Raccogliere fondi per gli sfollati di Afrin

–          Condannare il silenzio globale e l’inattività del governo

–          Condannare la mancanza di aiuti internazionali ad Afrin

–          Inviare una delegazione internazionale di solidarietà a Rojava

–          Evidenziare l’ipocrisia mediatica silente su quanto successo ad Afrin.”

 Inoltre per sostenere la campagna è attivo un croefunding (qui il link:https://www.retedeldono.it/it/progetti/gus/siamoafrin) a cui possiamo contribuire tutt*.

UN PAESE DOVE I NERI VENGONO UCCISI PER STRADA

Firenze. Un uomo, incensurato, di 65 anni, (dopo un sospettabile progetto di
suicidio) decide di incamminarsi armato su ponte Amerigo Vespucci e di sparare alla
prima persona che incontra, ammazzando, Idy Diene, 54enne nero, colpendolo con
sei colpi di pistola.
In apparenza e sui giornali, nessun movente razziale e xenofobo. Il reo ha
successivamente motivato il suo gesto dicendo di essere stufo dei continui litigi con la moglie per un presunto debito di 30.000 euro.
Ma il caso vuole che la vittima sia senegalese. Come Senegalesi erano Samb Modou e Diop Mor che nel 13 dicembre 2011 sono morti sparati nella stessa Firenze, per mano di Gianluca Casseri, militante di Casapound. Il caso vuole, o forse non è del tutto colpa del caso, che quest’omicidio accada a un mese di distanza dalla tentata strage fascista di Macerata, quando Luca Traini, nazifascista legato politicamente alla Lega di Salvini, decide di fare giustizia sul tragico femminicidio di Pamela Mastropietro sparando a 6 persone, tutte di colore .

La vicenda di Firenze impone la riflessione riguardo alcuni aspetti. In primo luogo, l’omicidio accade in un clima generale di intolleranza, di odio e di razzismo, alimentato da settimane e mesi di campagna elettorale e dichiarazioni pubbliche di chi oggi si appresta a fare, forse, il presidente del consiglio. In secondo luogo, il risultato elettorale di Domenica 4 marzo ci dà l’idea di come in questo Paese si stia diffondendo un sentimento di rabbia e di intolleranza generale, strumentalizzato e continuamente fomentato da quella classe dirigente che poi è risultata vincitrice alle urne.

Non è un caso che la comunità senegalese abbia da subito classificato questo
episodio come fortemente razzista e discriminatorio, a loro va tutta la nostra
solidarietà e appoggio. Non vogliamo lasciarl* sol*, e non perché, ogniqualvolta un immigrato sia vittima di violenza, ci interessi dire la nostra, ma perché la suddetta comunità è riuscita, senza troppa fatica, ad individuare e a sollevare il problema dell’odio razziale che si respira per le strade delle nostre città .

E poco importa se in Senato viene eletto un senatore nero, perché, indipendentemente dal colore della sua pelle, le sue posizioni politche rispecchiano e rispecchieranno direttamente le posizioni di un partito che fino all’altro ieri sosteneva la pulizia di massa strada per strada, quartiere per quartiere, volendo eliminare “gli indesiderati” –così come vengono chiamati i nuovi poveri, tra cui migranti, sex workers, senzatetto- per mettere fine a una situazione che viene presentata come caotica, “di degrado” e fuori controllo.
Un Paese in cui la Lega passa dal 4% al 18%, grazie alla retorica della guerra tra
poveri è un Paese accecato e disorientato. Le cause, possono derivare da molteplici ​fattori: dall’impoverimento generale, dalla mancanza di posti di lavoro, dalle
difficoltà che si hanno nel completare il proprio corso di studi, dalla mala gestione
dei flussi migratori. Tutti questi problemi vengono abilmente strumentalizzati dal
partito xenofobo di turno, che abilmente indirizza il malcontento generale
attaccando il più povero, categoria sociale entro la quale rientra sicuramente la
composizione migrante di questo paese, e in cui rientra anche il pensionato Roberto
Pirrone che ha commesso l’ omicidio.
Andando oltre alla storia personale dell’omicida però, quello che ci preme
sottolineare sono le continue retoriche fondate sulla paura e di conseguenza
sull’odio che identificano di volta in volta il degrado, la sicurezza, la legittima difesa, le migrazioni forzate, come fenomeni sociali il cui capro espiatorio ha sempre la pellescura, e mai bianca (eccetto per il caso delle zecche dei centri sociali), portando così una popolazione a essere perennemente in conflitto con se stessa e a frammentarsi, diventando ultra-individualista e xenofoba, per definizione: paurosa del diverso, e in questo tipo di società il diverso è chiunque. Questi anni di crisi e di feroce sfruttamento delle classi più povere, hanno permesso alla classe dominante e alla stampa sensazionalistica di far diventare la paura un sentimento quotidiano, che sovrasta e disintegra la solidarietà. Più ci spaventano, più alziamo muri e più siamo incapaci di leggere in maniera critica la realtà che ci circonda. Per fare un esempio concreto, durante la protesta legittima dei senegalesi, il problema più grande pare siano state delle fioriere danneggiate, distrutte in seguito ad una rabbia verso l’ennesimo omicidio razziale, ma che la comunità senegalese ha già provveduto a ripagare, attraverso un’autotassazione. Non c’è bisogno di eventi tragici ed “eccezionali” come la morte di un uomo, basta scendere al bar sotto casa, in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città per trovare chi inneggia ed elogia Luca Traini, attentatore di Macerata, dicendo che il suo unico sbaglio è stato quello di non averl* ammazzat* e di aver preso male la mira.

Siamo arrabbiat* perché siamo stanch* di piangere le vittime del razzismo di questo
paese. Siamo convint* che sia necessario e urgente aprire luoghi e spazi di confronto
su questi temi, mettendo in piedi un ragionamento che vada al di là del semplice “è
successo e ne prendo atto”, ma che punti a costruire anticorpi reali al razzismo,
attraverso il confronto e la mobilitazione.

Ci troverete tutti i giorni ai nostri posti a lottare per un mondo diverso, partendo da una via, un quartiere, una città, una scuola, un’università, in cui si abbattono i muri dell’intolleranza e si costruisce solidarietà e accoglienza.
Per questi motivi rilanciamo l’assemblea universitaria antifascista antirazzista e
antissessista il 12/03 alle ore 18.00 a sociologia in aula 10. Una nuova possibilità di combattere il razzismo sta nascendo all’interno dell’università di Trento e noi siamo pront* a cogliere questa sfida e a sostenere questo percorso.

Alle donne del mondo: trasformiamo il XXI secolo nell’era della libertà delle donne!

Dalle montagne del Kurdistan, nelle terre dove la società si è sviluppata con la guida delle donne, vi salutiamo con la nostra grande libertà, passione, ambizione e lotta indissolubile. Dai quartieri del Rojava alle foreste del Sud America, dalle strade europee alle pianure dell’Africa, dalle valli del Medio Oriente alle piazze del Nord America, dalle montagne dell’Asia agli altipiani australiani; con il nostro amore che non conosce confini e con i nostri sentimenti più rivoluzionari, abbracciamo tutte le donne che rafforzano la lotta per la libertà e l’uguaglianza.
In occasione dell’8 marzo 2018, Giornata internazionale della lotta per le donne, commemoriamo tutte le donne che hanno dato la vita nella ricerca della libertà, nella resistenza contro la schiavitù, lo sfruttamento e l’occupazione. Da Rosa Luxemburg a Sakine Cansız, da Kittur Rani Chennamma a Berta Caceres, da Ella Baker a Henan da Raqqa, da Djamila Bouhired, alla palestinese Sana’a Mehaidli a Nadia Anjuman, siamo sempre grate alle immortali guerriere della lotta di liberazione delle donne. La loro luce squarcia l’oscurità che ci è stata imposta. Sul sentiero che hanno illuminato davanti a noi, marciamo verso la libertà. Insieme a loro, commemoriamo tutte le donne
che sono state assassinate nel corso di un regime patriarcale di cinquemila anni, attraverso ogni sorta di violenza maschile, guerre, terrore di Stato, occupazioni coloniali, poteri mascherati religiosamente, bande di uomini, mariti e cosiddetti amanti.
È il loro ricordo che spinge la nostra incrollabile determinazione a porre fine al femminicidio, la più antica guerra del mondo.

Care donne, compagne, sorelle,
siamo nel bel mezzo di un processo di trasformazione epocale. Il sistema patriarcale, coetaneo della civiltà statalista, sta attraversando una profonda crisi strutturale. Come donne, dobbiamo diagnosticare questa crisi sistemica con le sue cause e conseguenze, stabilire analisi forti e sviluppare prospettive che accelerino la nostra lotta. Perché, se la crisi strutturale del sistema costituisce una grande minaccia per le donne di tutto il mondo, offre anche opportunità per affermare la libertà delle donne. Opportunità che forse si presenta solo una volta ogni secolo.
Possiamo trasformare il 21° secolo nell’era della liberazione delle donne! E non è un sogno o un’utopia. È una realtà. Ma affinché si realizzi dobbiamo creare un programma di liberazione delle donne per il XXI secolo.
Per questo, dobbiamo prima di tutto cogliere pienamente, nella loro interezza, le contraddizioni e le caratteristiche fondamentali dell’epoca in cui viviamo. Quali possibilità e quali rischi queste contraddizioni e caratteristiche costituiscono dal punto di vista della liberazione delle donne? Che tipo di responsabilità dobbiamo assumere in questo senso, come organizzazioni e movimenti globali delle donne?
Nel XXI secolo il sistema mondiale è entrato in una profonda crisi, tanto che si parla di “nuovo ordine del mondo”.
Cercando di riorganizzarsi per uscire dalla crisi, la modernità capitalista per prima cosa tentò di applicare questo nuovo ordine in Medio Oriente sotto il nome di “Grande progetto per il Medio Oriente”. Ebbene, denominiamo il processo iniziato con gli interventi in Afghanistan e in Iraq, proseguito con la primavera araba in Nord Africa e intensificato negli ultimi anni in Siria, Iraq e Kurdistan, “terza guerra mondiale”. Mentre i regimi dello Stato-nazione in Medio Oriente, creati dagli Stati occidentali cento anni fa per riprodurre il caos e la crisi in modo permanente, cercano di
proteggere lo status quo, le potenze straniere tentano di dividere nuovamente la regione.
Nominare l’attuale periodo in Medio Oriente “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali. Oltre a ciò, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalista in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale. Il sistema mondiale contemporaneo o la modernità capitalista non è un fenomeno degli ultimi 500 anni. Il suo seme ha messo radici nella forma del primo Stato risalente a 5000 anni fa in Mesopotamia e da allora ha
subìto diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi.
Per questo motivo, difendere la Soluzione Confederale Democratica come “terza via” contro lo status quo-ismo degli stati regionali e l’interventismo riprogettato delle potenze straniere, costituisce una responsabilità fondamentale per tutte e tutti noi, e supera i confini della Siria e del Medio Oriente. Il sistema di autonomia democratica che si sta attualmente costruendo con la leadership delle donne nel Rojava e nel Nord della Siria, in tali condizioni di guerra e resistenza, è l’unico modello risolutivo che ha il potenziale per porre fine alle crisi, al caos, alle contraddizioni e ai conflitti che si sono sistematicamente riprodotti nella regione durante il secolo scorso. Non solo gli
Stati-nazione che sono stati creati insieme ai confini disegnati artificialmente dopo la prima guerra mondiale non riflettono la composizione etnica, culturale, religiosa e sociale della regione, ma hanno anche mirato a far saltare in aria la nostra millenaria cultura della vita comune. Oggi, nel Nord della Siria, per la prima volta viene costruito un sistema basato sulla partecipazione paritaria e libera delle donne, sul pluralismo etnico e religioso e sulla democrazia partecipativa. Come alternativa democratica, questo modello pone una soluzione ai problemi obsoleti del Medio Oriente, contro i regimi maschili, sessisti, monistici, nazionalisti, settari, che sono stati alimentati dal sistema globale per decenni.
Questo è il motivo per cui lo Stato turco, che ha il secondo più grande esercito nella NATO, ha lanciato con tutta la sua forza un’operazione contro il Rojava, ad Afrin, nel Nord della Siria, il 20 gennaio 2018. Questo è anche il motivo per cui potenze straniere come USA, Russia e UE non stanno ostacolando gli attacchi militari ad Afrin. Perché in Afrin si costruisce un modello di società democratica che mette al centro la liberazione delle donne. La resistenza di Afrin rappresenta la rivolta delle donne contro la vita capitalista della modernità. Le città e i villaggi circostanti ad Afrin
resistono al fascismo, alla misoginia, allo sradicamento dei valori culturali e all’inimicizia tra i popoli. Ed è chiaro che non è solo lo Stato turco e gli alleati delle bande islamiste reclutati che si scontrano con le unità di difesa femminile e popolare di Afrin: in un piccolo pezzo di geografia come Afrin, due sistemi mondiali, due ideologie, due progetti futuri si stanno battendo. Mentre unoè basato sulla liberazione, l’ecologia e il pluralismo delle donne, l’altro è fatto di misoginia, potere maschile, monismo, dominio e sfruttamento. Uno brilla con tutti i colori della vita, mentre l’altro rappresenta l’oscurità. Pertanto, è di vitale importanza e significativo per le donne del mondo
rivendicare e difendere la crescente resistenza contro il fascismo ad Afrin. Poiché ciò che è sotto attacco e che viene difeso, sono valori universali della libertà delle donne. In questa occasione, come KJK, salutiamo e ci congratuliamo con le/i combattenti per la libertà, che assumono la guida della resistenza ad Afrin, e con il popolo di Afrin che difende eroicamente le sue terre dagli invasori. Le donne e l’unità vinceranno. Il fascismo perderà.
Il processo rivoluzionario in Rojava e nel Nord della Siria mostra questa verità a tutte e tutti noi: le vere rivoluzioni devono essere rivoluzioni femminili. I tentativi rivoluzionari che non si basano sulla liberazione delle donne non hanno possibilità di successo. La ragione fondamentale dell’incapacità dei movimenti socialisti e rivoluzionari del ventesimo secolo di realizzare obiettivi desiderati nonostante i loro innumerevoli sacrifici, dedizione e programmi, è il fatto che non hanno messo la liberazione delle donne al centro delle loro lotte. La questione delle donne non è un problema secondario, bensì è alla base di tutte le altre questioni. Le donne sono la prima classe
oppressa, asservita, sfruttata, colonizzata e dominata. Tutte le altre forme di sfruttamento iniziano dopo lo sfruttamento delle donne. Per questo motivo, condurre una lotta efficace contro il sistema egemonico sarà possibile solo nel quadro di una forte ideologia e programma di liberazione, in cui l’organizzazione autonoma e separata delle donne gioca un ruolo attivo. La nostra esperienza di lotta
ideologica e pratica trentennale come Movimento per la libertà delle donne del Kurdistan ci mostra questo.

Care donne, care compagne,
il seme del sistema globale basato sulla modernità capitalista si trova in Medio Oriente, in particolare in Mesopotamia. È in questa regione che l’attuale crisi sistemica si mostra direttamente,così com’è. Ma poiché la crisi del sistema mondiale patriarcale-capitalista ha una qualità globale, non esiste terra risparmiata dal sentire questa crisi, nessun lago, montagna o fiume lasciato intatto,nessuna società che non sia stata influenzata dai tentativi di dominio. Tuttavia, quelle più colpite dalla crisi sono le donne. E ciò è direttamente connesso al carattere sessista della modernità capitalista. Il sistema sta cercando di superare la crisi sfruttando e abusando delle donne in modo
ideologico e materiale ancora più forte, e così cerca di garantire la sua esistenza.
Contro le affermazioni comuni, il liberalismo, come una delle ideologie fondamentali dello Statonazione, non ha portato alcun contributo positivo alla liberazione e all’uguaglianza delle donne. Al contrario, è proprio in quest’epoca liberale che il sessismo è stato rafforzato e usato come elemento ideologico. È una grande bugia che il liberalismo libera le donne. La mercificazione della donna, in
tutto il suo corpo, personalità e anima, costituisce la forma più pericolosa di schiavitù.
In questo contesto, la modernità capitalista costituisce il più alto stadio del sistema patriarcale. In nessun punto della storia della civilizzazione le donne sono state soggette allo sfruttamento tanto quanto lo sono state nell’era della modernità capitalista. Dalla prospettiva delle donne, esiste una colonizzazione che è aumentata di mille volte nella sua profondità e nei suoi scopi. Il sessismo nella società dello stato-nazione mentre assegna all’uomo il massimo potere ha trasformato la società
nella colonia più inferiore attraverso la figura della donna. In questa dimensione, nella storia della civilizzazione in generale e nella modernità capitalista in particolare, la donna è nella posizione di essere la più vecchia e la più nuova nazione colonizzata. Dalla prospettiva del sistema egemonico una ragione per quest’insostenibile crisi è la colonizzazione delle donne.
Le donne e la liberazione delle donne costituisce il fondamentale potere che si oppone al sistema patriarcale e capitalista mondiale. Al cuore di tutte le forme di potere, di egemonia, di sfruttamento, di saccheggio, di schiavitù, di violenza, e di oppressione che il sistema stesso crea in sé si basa sulla dominazione della donna. La schiavitù e la proprietà imposte sulle donne passo dopo passo si diffondono complessivamente nell’intera società. Questo è il motivo per cui la lotta di liberazione delle donne, tra tutte le lotte anti-sistema ha la più grande forza di scuotere dalle fondamenta il
sistema del maschio egemonico. E, di fatto, è questa dinamica che disvela la crisi che il sistema sperimenta. Come donne, dobbiamo vedere chiaramente la forza che possediamo e gli effetti che creiamo. In questo senso, l’aumento massivo della violenza e degli attacchi contro le donne in tutto il mondo è direttamente connesso a questa situazione di crisi e alla relazione tra il sistema mondiale patriarcale capitalista e la liberazione delle donne. Il sistema sessista basato sullo sfruttamento attacca la donna che pone la più grande sfida e pericolo al suo potere. Nei fatti parliamo di una guerra di aggressione sistematica. La forma di questa guerra di aggressione può differire al livello locale ma stiamo essenzialmente di fronte ad un fenomeno universale. Dobbiamo guardare alle connessioni tra gli stupri di gruppo in Asia e la violenza di genere negli Stati Uniti. Con un approccio olistico dobbiamo esaminare le uccisioni delle donne in Latinoamerica, che hanno raggiunto il livello di un massacro, come i rapimenti e la resa in schiavitù di donne e ragazze da bande, mascherate come religiose, in Africa e in Medio Oriente. Dobbiamo analizzare insieme la crescita del fascismo, i regimi misogini e i loro attacchi ai diritti ottenuti dalle donne come risultato delle loro lotte. E dobbiamo essere profondamente consapevoli del fatto che questa guerra, guidata dal sistema patriarcale su scala globale, sta cercando di soffocare la ricerca e le lotte di liberazione
delle donne. Per questo, probabilmente, il sistema maschile dominante non è mai stato così tanto messo sotto pressione nella storia della civilizzazione. Le sue fondamenta non sono mai state scosse fino a questo punto. Analogamente, dalla prospettiva delle donne, le condizioni per assicurare la liberazione non sono mai state così mature. Le possibilità di realizzare la seconda grande rivoluzione delle donne non ha mai raggiunto questo stadio. Questo è il motivo per cui stiamo attraversando un periodo storico. Ci sono dunque grandi opportunità, ma anche i pericoli sono
altrettanto grandi.
Se questo è il caso, cosa dobbiamo fare, se vogliamo confrontare questi pericoli e effettivamente valutare le possibilità per assicurare la liberazione delle donne e attraverso questa la liberazione di
tutta la società? Come possiamo difendere noi stesse dai crescenti attacchi del sistema? In questo caso, l’autodifesa non va intesa in senso passivo. E’ necessaria un’autodifesa attiva. La più grande e la più efficace forma di autodifesa è creare una vita libera e stritolare le vene del sistema dominante maschile. Dobbiamo rendere la nostra vita insostenibile per il sistema, non il contrario. Ma perchè questo possa succedere dobbiamo portare avanti una lotta ad un livello più alto. Su scala globale, la
lotta di liberazione delle donne ha creato un forte fondamento in entrambe le dimensioni teoretica e pratica. Ma ora è il momento di mettersi in marcia.
Come Movimento di Liberazione delle donne del Kurdistan siamo state impegnate in una grande lotta per più di 30 anni per approfondire l’ideologia di liberazione della donna, per rivelare la forza di autodifesa e la coscienza delle donne e per assicurare alle donne una equa e libera partecipazione nell’ambito della politica, per superare il sessismo in tutte le sfere della vita e per accelerare la libertà delle donne. All’interno di questo cammino abbiamo sempre compreso l’enorme importanza e senso di condividere i nostri risultati e conclusioni con tutte le donne del mondo. E ora, con grande entusiasmo, gioia e determinazione per trasformare il 21 secolo nell’era della donna liberata, per portare alla seconda grande rivoluzione delle donne, noi miriamo di essere all’altezza della missione del movimento universale di liberazione delle donne.

Care donne,
è assolutamente essenziale che ci organizziamo ad un livello universale per creare un sistema di donne globale e equo contro il sistema mondiale capitalista sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità e i nostri colori, non c’è nulla che – se non come un mosaico, allora come un artefatto di marmo – il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere. Perché questo possa accadere, dobbiamo sviluppare
alleanze democratiche tra donne. Dobbiamo sviluppare modi, metodi, e prospettive appropriate alle condizioni, secondo le caratteristiche e le necessità del ventunesimo secolo. Essenzialmente, dobbiamo tutte insieme sviluppare per il ventunesimo secolo il programma di liberazione delle donne. Come movimento di liberazione delle donne del Kurdistan noi dobbiamo lo sviluppo della nostra rivoluzione come una rivoluzione di donne al nostro leader Abdullah Ocalan, che 19 anni fa è stato rapito all’interno di una cospirazione della organizzazione di bande maschile e statale chiamata  NATO ed è ancora in ostaggio in Turchia in condizioni di isolamento che non hanno precedente
storico.
È il sistema di analisi di Ocalan, le sue prospettive di liberazione, la sua trasformazione personale, i sui sforzi senza fine per lo sviluppo del movimento per la liberazione della donna che mettono insieme la forza che sta dietro queste dinamiche che ora ispirano persone in tutto il mondo. Il suo essere rinchiuso in una prigione in un’isola negli ultimi 19 anni e il suo completo isolamento dal mondo esterno negli ultimi quasi tre anni sono connessi all’influenza delle sue idee. Però i pensieri non possono essere isolati; gli spiriti liberi non possono essere tenuti in ostaggio. Il seguente estratto dalle prospettive di Ocalan, sviluppato in condizioni di isolamento carcerario, è illuminante sotto la
prospettiva di una lotta universale di liberazione delle donne:
“Senza dubbio, la denuncia della situazione della donna è una dimensione del problema. Ma quello che è più importante riguarda la questione della liberazione. In altre parole, la soluzione del problema ha un’importanza molto più grande. Si dice spesso che il livello di libertà generale della società si può misurare dalla libertà delle donne. È corretto e importante considerare come si possa riempire questa affermazione. La liberazione delle donne e l’uguaglianza non semplicemente
determina la libertà ed uguaglianza della società. Per questo sono necessari la teoria, programmi, organizzazioni, e pianificazione di azioni. Più importante, mostra che non possono esserci politiche democratiche senza le donne e inoltre che, nei fatti, la politica di classe rimarrà inadeguata, e natura e pace non possono essere sviluppate e protette.”

Come movimento di liberazione delle donne curde, in occasione dell’8 marzo 2018, lanciamo un appello alle donne del mondo: mettiamoci assieme e assieme sviluppiamo la necessaria teoria, programmi, organizzazione, e piani di azione per la liberazione della donna. Con la coscienza che solo una lotta organizzata può portarci risultati, aumentiamo l’organizzazione in tutte le sfere della vita. Collettivizziamo le nostre coscienze, forza di analisi, esperienze di lotta, e prospettive per
creare le nostre alleanze democratiche. Non lottiamo le une separate dalle altre – lottiamo assieme.
E, lungo il percorso, trasformiamo il ventunesimo secolo nell’era della liberazione della donna!
Perché questo è esattamente il momento giusto! È il momento per la rivoluzione delle donne!

Afrin è ovunque, e ovunque è resistenza!

Evviva la lotta universale di liberazione delle donne!

Jin, jiyan, azadi! Donne, vita, libertà!

8 marzo 2018

Komalên Jinên Kurdistan (KJK)

A FIANCO DELLE VITTIME DEL TERRORISMO FASCISTA

Lo stile potrebbe essere avvicinabile a quello dell’ISIS, ma la matrice è di natura puramente nostrana: fascista e razzista. Non che l’ISIS non sia allo stesso modo una forma di fascismo ma la tentata strage di Macerata, per mano (e proiettili) di Luca Traini, trova fondamento nella cultura d’odio e intolleranza che si respira nelle strade e sui mezzi d’informazione, da fin troppo tempo. Occorre allargare lo sguardo e uscire dalla dinamica personale che ha portato l’ex candidato leghista marchigiano a sparare a Jennifer Odion, Nigeria, 25 anni; Mahamadou Toure, Mali, 28 anni; Wilson Kofi, Ghana, 20 anni; Festus Omagbon, Nigeria, 32 anni; Gideon Azeke, Nigeria, 25 anni; Omar Fadera, Gambia, 23 anni.
Per farlo partiamo proprio dai nomi delle vittime, dimenticate e ignorate nei giorni successivi dalla maggior parte dei media e dalle istituzioni, salvo poi cominciare passerelle elettorali al capezzale di chi quotidianamente viene accusato di essere responsabile di tutte le nefandezze della penisola: mancanza di lavoro, violenza sulle donne, problema abitativo, disuguaglianza giuridica.
La politica e le sue rappresentanze non riescono ad assumersi la paternità di queste problematiche, ma lascia che altri incolpino gli ultimi. Nessuna scusa è stata portata a loro, nessun politico, testata o singolo giornalista si è assunto la responsabilità di aver permesso che il concime che ogni giorno esce dalle bocche dei fascisti, dei razzisti -e dal confronto democratico con loro- finisse cosparso sul terreno in cui è maturato il frutto dell’azione di Luca Traini. Ma è lo stesso sudicio terreno in cui si radicano le politiche securitarie di un governo PD, che attraverso il suo Ministro dell’Interno dichiara che “non ci si può fare giustizia da soli”, suggerendo come si dovrebbero considerare colpevoli di qualcosa tutti quelli con la pelle scura, ma che loro ci stanno già pensando: c’è il Decreto Minniti-Orlando votato a cacciare legittimi richiedenti asilo dai progetti d’accoglienza e utile a marginalizzare ogni persona o realtà indesiderata dai lucidi centro-città a colpi di DASPO urbani. Ma c’è anche l’infame accordo con la Libia, che legittima campi di concentramento sulle coste del Mediterraneo e dona soldi e mezzi a bande armate che sparano sui barconi. Su questo infatti si dovrebbe trovare d’accordo anche Matteo Salvini, che condanna la violenza sempre. Ma se ieri sparare era legittima difesa, oggi diventa una conseguenza dell’esasperante scontro sociale, creato anche e soprattutto da lui.
Alla fine è successo, era solo questione di tempo. Il primo attentato in Italia nei confronti di inermi persone disarmate è avvenuto. È per questo che Forza Nuova si è subito schierata a sostegno dell’attentatore, portandogli l’onore che solo certi camerati che sparano alle spalle possono permettersi. Nulla di nuovo insomma. Il terrorismo fascista esiste da decenni, e la runa Wolfsangel tatuata sulla scatola vuota (o piena di letame, a seconda delle prospettive) che Traini porta sul collo ce lo ricorda bene: il simbolo che dalle SS porta al gruppo terroristico fascista degli anni ’80 Terza Posizione è ben noto a Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova e Terza Posizione nella quale militò giusto gli anni necessari a partecipare a qualche strage prima di farne 19 di latitanza assieme a Mario Adinolfi, anche lui di Terza Posizione, ora ideologo di Casapound. Forse però tutte queste cose messe insieme hanno fatto passare la voglia ai giornalisti di usare laparolaconlaF, nel mentre che raccontavano dettagliatamente della mano a paletta che usciva dal tricolore sotto al monumento ai caduti di Macerata in cui ha deciso di farsi arrestare uno che 80 anni fa la guerra l’avrebbe condotta contro gli ebrei. Dal terreno concimato da questo tipo di letame che ogni giorno viene legittimato da questa democrazia nostalgica, il primo frutto marcio è venuto alla luce, ed era pelato.
Occorre riprendere a calpestarci sopra per non permettere che altri piccoli diglett infestino il suolo.
Per farlo bisogna liberare la terra dai germi, abolendo la schiavitù dell’uomo sull’uomo che sfrutta, impoverisce e reprime chi non conosce gli strumenti per la propria emancipazione. Chi studia è privilegiato, e può venirne in possesso. In un sistema dell’istruzione classista che non permette l’accesso libero e gratuito ai saperi, chi ha la possibilità di studiare deve prendere coscienza della responsabilità che gli è affidata. Gli strumenti culturali necessari all’opposizione di ideologie intolleranti e ignoranti si acquisiscono nelle aule, per poi metterli a disposizione di chi viene escluso dalla catena di distribuzione della ricchezza protetta dai fascisti. Solo un’emancipazione culturale può davvero regalare le prospettive di un futuro che sia affrancato dai fascismi. Ma quel giorno non è oggi.
Quel futuro è tutto da costruire, di quegli strumenti ci dobbiamo ancora riappropriare. Cominciamo a farlo, partendo dalle aule e dalle piazze, a fianco delle vittime di Macerata, sabato 10 febbraio, di fronte alla facoltà di Sociologia, ore 15.00.

Nell’università delle eccellenze i posti studio non sono un diritto

 

È già passato un anno dal provvedimento che ha portato alla riduzione dell’orario di apertura della Biblioteca Cavazzani (CIAL) in seguito all’apertura della BUC e come studenti e studentesse di questo ateneo anche quest’anno ci siamo trovat* a fronteggiare la carenza di aule studio. Un problema che certo non è nuovo, ma che si fa sentire ogni anno di più, pronto ad esplodere con la puntualità della sessione. Come CUR-Collettivo Universitario Refresh-, l’anno scorso abbiamo ottenuto la riapertura del CIAL di via Verdi, invitando studenti e studentesse a proseguire nello studio, garantendo noi l’apertura prolungata dell’aula studio. Tuttavia il taglio di 150 posti è stato imposto con rigoroso successo anche quest’anno e il Rettore, pur riconoscendo il problema dei posti studio come reale, continua a prendere decisioni escludendo la maggioranza della componente universitaria e proponendo soluzioni-tappabuco provando a far tacere le lamentele.

Quest’anno nuovamente ci ritroviamo con lo stesso problema, visibilmente aggravato dalla chiusura di alcune aree della BUC in determinati orari (la sera e durante i weekend). Abbiamo dunque sentito l’esigenza di riprendere in mano la questione e di confrontarci per capire come rompere questo silenzio, intraprendendo così un lavoro di inchiesta che ci ha messo di fronte a numeri alquanto preoccupanti: nell’ateneo trentino le iscrizioni ammontano a 16396 studenti e studenetesse e i posti studio disponibili nel polo di città sono solamente 1777. È nata così l’idea di raccogliere firme, opinioni, lamentele e desideri nelle varie facoltà del centro e davanti alle biblioteche provando ad immaginare un percorso collettivo che miri alla risoluzione del problema dei posti studio, rivendicando, soprattutto durante i momenti in cui l’esigenza è maggiore, la necessità di maggiori spazi adatti allo studio. In centinaia, per la precisione 300, hanno accolto la nostra idea, condividendo la nostra proposta inclusiva e percependo la questione aule studio come un problema risolvibile. Ciò che ora vogliamo fare è confrontarci con chi ha firmato e con chi avrebbe voluto farlo, vedendosi negato un diritto, al pari di borse di studio e posti alloggio. Per farlo abbiamo deciso di organizzare un momento di confronto aperto e libero in università, Martedì 13 febbraio, alle 18.00 nella facoltà di Sociologia, affrontando il tema delle aule studio e, più in generale, del diritto allo studio. Condividendo assieme l’idea di un’università costruita sulle esigenze di chi la attraversa e non di chi la amministra.

  

Da Lettere alla Scaletta, lo stesso paradigma escludente.

Al secondo piano della Facoltà di Lettere e Filosofia esposte sul lato Ovest sono presenti, tra le altre, due particolari fotografie. 

Entrambe in bianco e nero, rappresentano due momenti di libera aggregazione e socialità studentesca di una Trento ormai lontana nel tempo. La prima è una veduta di piazza S.Maria ripresa a livello del terreno dove si contano numerosi probabili studenti e studentesse sedute per terra con qualche birra in lattina, magari accompagnata da un buon numero di sigarette. L’altra è un’istantanea della folla che si radunava in Vicolo Colico, davanti all’Ex bar Accademia, dove spesso si rimaneva irretiti e costretti a rallentare il passo per poter procedere oltre.

A fianco di queste due fotografie, poco più a sinistra, sono presenti i bagni dell’ateneo. Sulla maniglia della porta di questi, come di altri servizi della facoltà, ci sono i dispositivi di lettura del badge universitario, che permettono o meno l’accesso. Praticamente per andare a pisciare è necessario esibire un documento.

Ebbene, cosa lega una porta ad apertura elettronica con due fotografie in bianco e nero appese ad un muro nemmeno troppo in vista? Vediamo di procedere con ordine, partendo dalla porta, per poi aprire un portone. 

Lo scorso 3 Dicembre, dalle pagine di un noto quotidiano locale1, il Direttore di Dipartimento di Lettere e Filosofia Fulvio Ferrari spiegava i motivi di un provvedimento preso in seguito ad un fatto accaduto qualche tempo prima: un eroinomane era stato rinvenuto in una pozza di sangue dentro ad un bagno della facoltà. In seguito a questo fatto, 15 bagni su 20 sono stati chiusi, lasciando “accessibili” solamente quelli con apertura elettronica tramite badge che, in caso di momentaneo smarrimento, poteva essere sostituito dall’esibizione di un documento d’identità presso la segreteria. Succede così che un gruppo di studenti di lingue moderne si lamentino di questo provvedimento, chiamando in causa il Corriere del Trentino, che a sua volta chiede spiegazioni a Ferrari il quale dice che quello dell’eroinomane è solo l’ultimo di una serie di episodi “sgradevoli” che costringono a chiudere i bagni. Gli studenti in questione infatti danno corda e rincarano dichiarando che di “frequentazioni a rischio di persone poco per bene, quali eroinomani o prostitute² che spesso si trovano nelle panchine al di fuori dell’edificio” se ne vedono fin troppe. Tant’è che “l’ultima cosa desiderata -da Ferrari- era quella di militarizzare l’ateneo” ma che per loro “anche se il Dipartimento è un luogo pubblico questo non vuol dire automaticamente dire che ci possa entrare chiunque” e che pertanto “sarebbe opportuno che chi di competenza prendesse seri provvedimenti, che vadano al di là della chiusura dei servizi igienici”. A queste si aggiungono le dichiarazioni allucinanti³ del sindacato studentesco, l’Udu, che assieme al rappresentante degli studenti di Lettere, Masseo Purgato, dichiara: “Il consiglio è quello di farsi il badge”. Quindi Crotti, presidente del consiglio degli studenti: “Se il Comune non interviene in modo fermo per risolvere la situazione di degrado in cui versa la zona della Portella e Santa Maria, dove è situato il dipartimento, noi possiamo fare bene poco, se non presidiare gli spazi.”
Dichiarazioni che sembrano quasi suggerire l’attuazione di una sorta di Daspo Accademico -se non urbano- nei confronti degli indesiderat*. Interessante cambio di rotta rispetto alle posizioni antibadge che nel 2014 solcavano tra Udu e Atreju un divario che in campagna elettorale faceva comodo mantenere.
Ora, premettendo che eravamo rimast* a quando “pubblico” voleva dire di tutt*, ci rattristiamo ancora una volta nel vedere come sex worker e tossicodipendenti vengano trattati da pericolosi criminali “poco per bene” che minacciano la sicurezza e la tenuta democratica dell’ateneo tutto a tal punto da richiederne l’allontanamento con “seri provvedimenti”, dopo aver negato loro l’accesso ai bagni. A questo punto però, immaginando già la polemica sterile pronta a sentenziare a riguardo, è doveroso per noi concedere che ritrovarsi una persona in una pozza di sangue nel bagno non sia una situazione facile da affrontare. Tuttavia ciò che più turba i nostri brevi sonni non è tanto la risposta repressiva e punitiva dell’istituzione-università che, come ha già sottolineato Ferrari, adotta una soluzione tampone, ma è l’approccio degli studenti e delle studentesse alla questione. L’assenza di un’interazione critica orientata alla comprensione, che dovrebbe spingere a interrogarsi sul perché l’ateneo sia frequentato non solo da student*, è figlia di un distaccamento dell’Università dai problemi sociali. A onor del vero, un radicale sovvertimento della società e delle istituzioni è stato perseguito da studenti e studentesse in passato. Ma, se è vero che l’Ateneo in primis ha in più occasioni cercato di inquinare e depotenziare la memoria storica e collettiva della contestazione del ’68 che partì proprio dall’occupazione del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale nel ’66 (la prima in Italia), dall’altra parte non è perdonabile che la componente studentesca che tutti i giorni attraversa il piano terra di Lettere non si interroghi sui motivi delle agitazioni raffigurate nelle gigantografie dell’epoca. Ve n’è una in particolare di Giorgio Salomon esposta nell’atrio di Lettere: gli ultimi due a destra sono Marco Boato e Mauro Rostagno.

La memoria collettiva ricorda come studenti e studentesse di allora avessero a cuore proprio il tema del sapere: come viene elaborato, trasmesso, a cosa e a chi serve, quali i suoi rapporti con la società e con il potere. Sorge quindi spontaneo chiedersi quando l’impeto d’indagine critica della realtà sia stato ucciso dentro l’università. Forse quando si è preferito affiggere Rostagno sui muri di Lettere, salvo poi relegarlo al secondo piano di Sociologia. Quand’è successo che gli studenti e le studentesse, oltre che l’Università come calderone di saperi, hanno cominciato a chiudere gli occhi di fronte alle dinamiche che portano alle dipendenze o ai ricatti giocati sui corpi delle donne che lavorano davanti alla facoltà? Forse quando studiare è diventato un mezzo e non un fine. Un mero passaggio di acquisizione nozionistica per poter ottenere CFU.

Da qui si apre il portone. Il bianco e nero che tinge gli ormai ex frequentatori e frequentatrici di Santa Maria e della vecchia Accademia è lo stesso che tinge le prime linee di Rostagno e Boato. La scelta stilistica sembra quasi voler suggerire la medesima dislocazione temporale di due momenti in realtà separati da una manciata di decenni: il passato. La piazza che una volta era affollata da studenti e studentesse sedut* a sorseggiare birra d’asporto oggi è perennemente vuota, eccetto durante il periodo natalizio. Come scomparsa è anche la gioventù che riempiva Vicolo Colico e che ora invece riempie le cantine del nuovo locale. Per divertirsi a Trento occorre andare sottoterra. Lontano dagli occhi, lontano da tutto. Pertanto chi, tra gli studenti e le studentesse, si azzarderebbe oggi a dire che l’ennesima limitazione di un’attività commerciale (come la Scaletta) a causa del “degrado” studentesco sia giusta? Qualche manciata di firme è stata sufficiente per imporsi su un più grande numero di utenti dell’unico bar non sotterraneo aperto dopo le 22.00 e costantemente frequentato. Non è poi così distante il momento in cui a fianco di Santa Maria e a Vicolo Colico verrà affissa anche la foto della Scaletta piena. Sia chiaro: lungi da noi tutelare l’immagine e il nome di un’attività commerciale che in fin dei conti mira solo a far soldi e che della condizione studentesca poco gliene cale. Potrebbero esserci centinaia di settantenni ubriach* in via Santa Maria Maddalena, e non cambierebbe di molto. La socialità studentesca non si dispone attorno alla frequentazione di attività commerciali, ma al contrario è la presenza di universitar* nelle strade che favorisce i bar e i circoli. Anzi, li tiene proprio in vita.
Tuttavia, non si può però a questo punto non puntualizzare riguardo a queste dinamiche repressive: l’attacco ad eroinomani e sex worker in un’università e la marginalizzazione di studenti e studentesse dalle vie notturne della città sono approcci escludenti. C’è una continuità nelle pratiche repressive messe in campo dalle istituzioni che detengono il potere amministrativo e politico degli spazi pubblici (Comune e Università). Le misure adottate non tengono conto dei bisogni e delle necessità delle persone, oltre che delle dinamiche sociali ed economiche che costringono a vivere in strada o sotto ricatto. Chi studia invece, chi indaga la realtà, chi si interroga e non accetta una trasmissione mummificata del sapere dovrebbe farlo. C’è bisogno, oggi più che mai, di rimettere in discussione temi cruciali del sapere e del potere. È una necessità impellente, che fa mancare il respiro. Con quale legittimità ci si può oggi lamentare della chiusura di un bar a causa della “molestia alcolica” procurata mentre allo stesso tempo si auspica un’espulsione di soggetti sgradevoli dalle nostre facoltà? L’università e il comune stanno applicando lo stesso paradigma di esclusione degli indesiderat*. Solo che vi è un cortocircuito, una miopia, una contraddizione di pensiero quando si applicano due atteggiamenti diversi davanti ad un’unica e uguale repressione. Non la si può legittimare da un lato e condannarla dall’altro. Serve riacquistare una coscienza studentesca, che nasca dalla condivisione di saperi e opinioni e che sappia indirizzare la propria rabbia verso l’alto, verso chi ogni giorno perpetua un giogo fatto di restrizioni e aumenti delle spese, non verso chi sta peggio. C’è un filo rosso che colora il bianco e nero delle fotografie di Rostagno e di Santa Maria ed è il filo che solo una componente studentesca ribelle, critica e consapevole sa tessere. Non siamo numeri di matricola, non siamo solo utenti di un bar, non siamo portafogli da svuotare in tasse e affitti. Siamo corpi e teste pensanti e come tali pretendiamo di avere voce in capitolo su come viviamo la nostra quotidianità, ma soprattutto su come vivremo il nostro futuro.
Il primo filo è stato teso, il prossimo lo intrecceremo nelle lotte.
NOTE:

(1) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171203/281530816348673

(2) Da questo punto in poi sostituiremo il termine prostituta con quello di sex worker in ragione dei seguenti motivi:

  1. Etimologia del termine prostituta, dal latino prostĭtŭĕre: 1. mettere davanti, esporre 2. prostituire 3. disonorare. L’ultima voce suggerisce un’accezione marcatamente negativa del termine.
  2. Il termine sex worker non si connota moralmente, né dal punto di vista di genere (diversamente potremmo dire invece per l’italiano lavoratrice/lavoratore del sesso), include il riconoscimento di un’attività che investe tempo ed energie (lavoro) anche se spesso priva di tutele, contratto e salario.

(3) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171124/281535111298125