Valore legale della laurea? Capiamoci qualcosa

È di qualche settimana fa la notizia che il ministro dell’interno Salvini, appoggiato dal Movimento 5 Stelle, abbia dichiarato di voler abolire il valore legale della laurea. Sentendo la notizia abbiamo provato a interrogarci su cosa questo provvedimento potrebbe comportare e siamo arrivat* ad alcune semplici conclusioni.

Abolire il valore legale della laurea è un provvedimento che porterà le università ad essere ancora più elitarie di quanto già non siano, privando i laureati e le laureate di qualsiasi tutela legale una volta all’interno del mondo del lavoro. Si creerà infatti un divario, d’altra parte già presente, tra università pubbliche e private e tra università prestigiose e non. Non è tuttavia ben chiaro in che modo e chi stabilirà il prestigio dei singoli atenei. Senza una tutela legale, i laureati delle università “di serie B” non avranno le stesse possibilità e le stesse garanzie contrattuali di chi risulta laureat* nelle università considerate di “serie A”.

Questo meccanismo porterà gli atenei a divenire sempre più competitivi e ad innalzare inevitabilmente le tasse di iscrizione impedendo l’accesso a tutt* coloro che non si trovano in una condizione economica tale da poter affrontare la spesa. Piano piano si andrà a perdere quell’idea di università pubblica e accessibile, che già ora è difficile da raggiungere a pieno. Neolaureat* si troveranno a essere sempre più precar* all’interno di un mondo del lavoro che non offrirà alcuna tutela legale e alcun riconoscimento dei sacrifici fatti in anni di studio.

Ci stupisce come due partiti come la Lega e il M5S, partiti che da sempre si fanno promotori degli interessi de* più debol*, del popolo italiano, scagliandosi in più occasioni contro le élite, siano promotori di un provvedimento che priverebbe l’università di qualsiasi uguaglianza, promuovendo una becera discriminazione di stampo classista, la quale favorirà solo le élite e le fasce economicamente più alte della società.

Per noi che da anni ci battiamo per un’università aperta e accessibile a tutti e tutte, questo provvedimento è inevitabilmente inaccettabile. Probabilmente ai ministri di Lega e M5S fa paura l’idea che l’università possa essere un luogo libero e aperto, libero da discriminazioni e imposizioni. Probabilmente si ha paura che le nuove generazioni, studiando e sviluppando un sapere critico, possano costruirsi gli anticorpi necessari per debellare l’ondata di regressione e odio che questo governo ci sta proponendo. Probabilmente risulta più comodo rendere l’università un luogo elitario, escludendo tutte quelle fasce della società che si trovano ai margini.

Complici e solidali con le e gli scioperanti del servizio bar e mensa universitaria.

Complici e solidali con le e gli scioperanti

Il 15 maggio 2018 alle ore 11:00 è giunta la notizia della decisione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici dei bar e delle mense universitarie di entrare in sciopero per le giornate del 15 e del 16 maggio 2018. La notizia è stata diffusa al termine di un’assemblea sindacale svoltasi nel corso della mattina del 15 maggio 2018 che vedeva come nodo centrale della discussione l’ormai annosa vertenza che contrappone le lavoratrici e i lavoratori dei bar e delle mense universitarie e l’azienda Sma ristorazione, appaltatrice dell’Opera Universitaria, di cui sono dipendenti.

A differenza di altre organizzazioni, in questa occasione non ci importa  concentrare la nostra attenzione sul possibile disagio che questo sciopero può aver provocato alle avventrici e agli avventori del servizio ristorazione dell’Opera Universitaria. Ciò a cui vogliamo dare il maggior risalto possibile sono la situazione lavorativa a cui queste lavoratrici e questi lavoratori sono costrett* e le responsabilità politiche dell’Opera Universitaria il cui silenzio e immobilismo non  hanno certo contribuito a migliorare la  situazione. La Sma ristorazione divenne appaltatrice dell’ente trentino per il diritto allo studio nel 2011 e da allora col passare degli anni, oltre alla diminuzione della qualità dei pasti è corrisposto un peggioramento delle condizioni in cui le e i 70 dipendenti dell’azienda si trovano a lavorare. Una situazione fatta di cassa integrazione a rotazione dal 2015, ferie e straordinari non pagati e poche garanzie per il futuro, visto che alle richieste avanzate dalle rappresentanze sindacali la controparte aziendale non ha fornito nessuna risposta né ha mostrato alcuna intenzione di trovare possibili soluzioni. L’Opera Universitaria, che tanto si fregia di essere a livello nazionale uno degli enti per il diritto con i migliori risultati per quanto riguarda lo student housing, sul fronte della ristorazione delle mense non vantare risultati altrettanti eccellenti. Infatti, nonostante il numero dei pasti erogati sia in calo, l’O.U. ha accuratamente evitato di prendere posizione evitando di affrontare le spinose questioni che riguardano il settore mense. L’ente per il diritto allo studio non ha messo in campo nessuna azione per tentare di invertire la tendenza della diminuzione del numero di pasti erogati. Come, d’altro canto, nulla è stato fatto per il miglioramento delle strutture fatiscenti in cui si trovano le mense e che data questa condizione pregiudicano il lavoro.

Come Collettivo Universitario Refresh, in quanto student* che hanno attraversato in plurime occasioni le mense universitarie per un pasto o un volantinaggio, non possiamo tutta la nostra complicità e solidarietà a tutt* coloro che hanno deciso di aderire a questa due giorni di scioperare per rivendicare quella dignità che l’azienda per cui lavorano vorrebbe negare loro. Noi che quotidianamente ci organizziamo all’interno di Unitn per rivendicare e lottare un’università e un mondo diverso siamo al loro fianco e daremo loro tutto il supporto che necessiteranno fino a che non vinceranno la loro vertenza.

Rompiamo il ricatto, costruiamo il riscatto!

Riflessioni a freddo sull’adunata degli alpini

La scorsa settimana la città di Trento era in fermento. Si è registrata un’affluenza da record con persone venute da ogni dove per prendere parte alla 91 esima adunata degli alpini. Le stradeerano invase da cori, stand e locali aperti 24h e da un senso di machismo dilagante. Pare infatti che buona parte dei partecipanti avesse deciso di aderire all’iniziativa non solo per sfoggiare il proprio orgoglioso senso d’appartenenza al corpo militare ma anche per sfoggiare orgogliosamente tutta la propria maschilità negativa.  In quei giorni infatti non è stato raro camminare per le strade senza imbattersi in molteplici sguardi viscidi, avvertendo improvvisamente la sensazione di essere diventate carne da macello a causa della libido altrui. Non è stato raro essere fermate per commenti inopportuni e indesiderati, che pare necessario e doveroso esternare anche quando non è palesemente richiesto. In quei giorni però il famoso concetto di “decoro urbano” era improvvisamente scomparso dalle strade e di questi ed altri episodi non vi era neppure l’ombra di dibattito tra l’opinione pubblica. Tutto è stato sommerso e dimenticato perché qualcosa bisogna pur sopportare per il bene e il lustro del territorio. La città ha visto anche un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine a garanzia dell’ordine pubblico, tra cui però questi episodi non sono sembrati nemmeno rientrare. Prima di uscire con questa riflessione abbiamo voluto prenderci il nostro tempo per riflettere e confrontarci e ora ci troviamo a chiederci dove siano finiti i vari slogan che qualche anno fa inneggiavano alla tutela delle “nostre” donne dall’invasore se poi il pericolo si manifesta sotto le sembianze di un uomo bianco e in divisa. Rimane solo il dispiacere di non aver potuto godere liberamente di un momento di festa collettivo e condiviso senza dover essere soggette, ancora una volta, alla mercificazione del proprio corpo che viene percepito unicamente come un oggetto da cui trarre soddisfazione per il proprio piacere personale. Certi episodi non dovrebbero mai verificarsi, indipendentemente da sesso, razza ed etnia. Eppure divengono ancora più gravi e ingiustificabili quando a compierli sono proprio determinate categorie.

Vogliamo anche condividere la testimonianza di una ragazza, studentessa universitaria, che ci è arrivata via mail e che pensiamo possa trasmettere i sentimenti delle donne in quei giorni.

ESSERE DONNA MULATTA IN TEMPI DI ADUNATA-riflessioni dal margine

Maggio 2018. Trento, sicura, silenziosa, regina di decoro urbano si prepara ad accogliere 600000 militari e simpatizzanti smaniosi di sfilare per giorni a passo di marcia.

Da settimane la città è in fermento, i camion di bitume rompono i silenzi notturni, squadre di pompieri vengono arruolate per onorare la patria e adornare la le facciate di bandiere tricolore, anche la bella e ormai succube sede di sociologia si veste a festa e da il ben venuto agli alpini. Allora via le bici, disinfetta i parchi da migranti e accattoni, scattano ordinanze su ordinanze speciali. 10 maggio è tutto pronto.

La città è luccicante e disposta a delegare interamente l’ordine pubblico all’organizzatissimo Corpo degli Alpini, legittimati in ogni loro azione dal semplice essere forze dell’ordine e di conseguenza affidabili, solidali, caritatevoli rappresentanti dell’ordine costituito.

Il capoluogo si trasforma in cittadella dell’Alpino, come per ogni grande evento il capitalismo si traveste per l’occorrenza e subdolo si appropria di ogni cosa. Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro)

Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche che intersecano razza e genere, dando vita ad una narrativa vissuta e rivissuta mille volte nei più svariati contesti. A chi importa il tuo vissuto, a chi importa da dove vieni, a chi importa chi sei, chi si ricorda di avere davanti una persona, a chi importa?

Il colore della tua pelle, i ricci ribelli, i lineamenti, l’espressione di genere sono un pass par tout per aprire le fogne , etichette incollate su ogni parte del mio corpo che legittimano qualsiasi forma di violenza razzista e sessista. Non serve altro, il discorso d’odio è servito, è tutto normale, dall’alto del privilegio maschio e occidentale è tutto consentito. Ogni angolo di quell’immenso e pericoloso formicaio era per me trappola e luogo di resistenza, i miei tratti somatici mi tradivano in continuazione, l’autodifesa mi teneva in vita, sempre vigile e attenta.

Al tavolo di ogni bar, ad ogni incrocio si potevano captare l’affanno delle poche sinapsi di branchi di energumeni messe sotto sforzo, per portare avanti una discussione che puntualmente veniva condita da una frase come: “sti negri de merda”, “non sono razzista, ma…”, “andassero tutti a casa loro”, “gli ammazzerei tutti”, ”tira fuori le tette”, “bella gnocca vieni qua” ,qualche camionata di insulti a venditori ambulanti, che corazzati da anni di resistenza continuavano imperterriti il loro lavoro, e poi via, un altro rosso , prego, che la festa continui!

Mi sono sentita ingiustamente violentata ed impotente, violentata dagli sguardi, dai commenti sessisti, dalle palpate, dal esotizzazione continua del mio corpo trasformato in oggetto sessuale che risveglia profumi di violenza tropicale, nostalgie coloniali.

Nessuno ha chiesto il mio consenso, nessuno si è sentito in dovere di farlo, nessuno si è sentito responsabile per quello che stava accadendo nello spazio pubblico che lo circondava, nessuna delle “loro (bianche) donne” mi è stata solidale. Le istituzioni complici, si sono girate dall’altra parte e con tranquillità si sono fatte servire un vino, al tavolo dell’aggressore.

Nessuno si è chiesto se fosse normale che una cameriera sottopagata dovesse sopportare per ore frasi del tipo “Che bela moreta, fammi un pompino” o semplicemente, “non mi faccio servire da una marocchina” tutto normale , tutto concesso, nobilitato dalla posizione di “salvatore della patria”, corpo solidale in caso di calamità naturale. Tutti sembravano non voler ricordare che machismo e razzismo vengono esercitati da qualsiasi corpo, tanto più se privilegiato e paramilitare.

Questi quattro giorni sono stati la cartina torna sole dell’aria che si respira a livello nazionale, dell’ansia che ogni corpo di donna o di negra sente quotidianamente nell’attraversare lo spazio pubblico, delle ondate razziste e sessiste che attraversano il paese, ma non lo scuotono, che si insinuano silenziose nel discorso politico istituzionale di ogni giorno.

Io, come moltissime altre, non ci sto! non sono disposta a dover lasciare la città perchè non è per me spazio sicuro, non sono disposta a delegare la mia sicurezza a gruppi di militari maschi e testosteronici , non sono disposta a sorridere e lasciare correre “perché in fondo si scherza”, non sono disposta ad essere complice della vostra lurida violenza quotidiana con il mio silenzio, non sono disposta a tutelare il buon costume della vostra civiltà, rispettosa solo con chi rientra nei canoni imposti. Non sono più disposta ad agognare sanguinante e invisibile perché voi possiate marciare in pace sul mio corpo e onorare la vostra patria. Siamo stanche e arrabbiate, non ci sarà più nessuna aggressione senza risposta, nessun silenzio complice.

Siamo a conoscenza del fatto che la sezione nazionale dell’ANA ha pubblicamente portato la propria solidarietà alle donne molestate e si è dissociato da qualsiasi atto di molestia. La nostra vuole essere solo una riflessione a freddo su ciò che abbiamo visto, vissuto e su cui ci siamo confrontati.

#SIAMOAFRIN

Il Collettivo Universitario Refresh organizza la proiezione di Binxêt – Sotto il confine, il film documentario di Luigi D’Alife con la voce di Elio Germano per un momento di controinformazione in cui continuare a parlare della rivoluzione confederale e di ciò che sta succedendo in Siria del Nord a sostegno della campagna di solidarietà SiAmo Afrin.

28 maggio 2018 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia (aula da definirsi)

▶️Ore 18:00:
Proiezione del docu-film “Binxêt – Sotto il confine” distribuito da OpenDDB (Distribuzioni dal Basso)
Trailer: https://vimeo.com/205059760

▶️A seguire momento di dibattito e piccolo rinfresco all’esterno della Facoltà

(I fondi raccolti verranno versati a sostegno della campagna SiAmo Afrin) 

#SiAmoAfrin:

“In seguito al lancio dell’”Operazione Ramoscello d’Ulivo” da parte della Turchia, il pacifico, multiculturale e democratico cantone di Afrin in Rojava (Nord Est della Siria) è stato invaso, saccheggiato, bruciato e distrutto. Si stima che circa 450.000 persone siano fuggite terrorizzate, dopo che le forze turche e i loro alleati jihadisti, molti con radici in Al-Quaeda e nelle frange dell’ISIS, hanno preso il controllo della città. Gli sfollati attualmente vivono all’aperto, senza beni di prima necessità, come cibo, acqua e latte in polvere per bambini. Malattie come la tubercolosi non sono solamente presenti, ma si diffondono con una certa velocità e allo stesso tempo c’è una mancanza di medicinali e attrezzature mediche. Le ONG locali, come la Kurdish Red Crescent (KRC) e la Hêvî Foundation stanno tentando con i pochi mezzi che hanno a disposizione di sostenere gli sfollati. A Shahba la KRC ha messo in piedi due campi di accoglienza: Berxwedan e Seredem. Tuttavia non riescono a far fronte a tutte le necessità, soprattutto alla luce della totale inerzia delle ONG internazionali, molte delle quali presenti in Siria. In migliaia ancora vivono all’aperto, sotto rifugi di fortuna costruiti con la plastica.

L’invasione di Afrin non solo ha portato a una massiccia crisi umanitaria, ma aha anche messo in pericolo la democrazia pacifica, multiculturale e radicale basata sulla parità fra uomini e donne e la sostenibilità ecologica in Rojava. L’invasione – con annessa pulizia etnica – era sì rivolta al popolo curdo, ma allo stesso tempo ha colpito anche le altre minoranze etniche e religiose presenti sul territorio, come gli Yazidi ed i Cristiani, i quali sono attualmente sottoposti a conversioni forzate all’islamda parte delle forze turche e degli jihadisti alleati. L’occupazione turca ha delle implicazioni a livello globale e se da una parte le unità di difesa popolare curde YPG e YPJ sono state quelle hanno ottenuto i maggiori successi nella lotta contro l’ISIS, dall’altra dopo quello che è successo ad Afrin ora sono impegnate a proteggere i civili e questo purtroppo comporta un preoccupante aumento delle attività di Daesh.

Davanti al continuo silenzio della comunità internazionale che non ha condannato l’invasione turca di Afrin, davanti al fallimento delle organizzazioni umanitarie internazionali che non si sono mobilitate per fornire aiuti umanitari ai civili sfollati, tutti i gruppi, gli attivisti e associazioni di solidarietà hanno lanciato una chiamata globale e un invito a partecipare alla campagna “SiAmo Afrin” “We Are Afrin).

La campagna vede la partecipazione di due importanti Ong: una italiana, il GUS (Gruppo Umana Solidarietà) e una in Rojava chiamata Hêvî Foundation. La campagna partirà dall’Italia il 25 aprile in coincidenza con il 73 ° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, e punta a diffondersi a livello globale; si concluderà poi con una delegazione internazionale che punta ad arrivare in Rojava il 2 giugno per consegnare i fondi raccolti.

Gli obiettivi della campagna sono:

–          Raccogliere fondi per gli sfollati di Afrin

–          Condannare il silenzio globale e l’inattività del governo

–          Condannare la mancanza di aiuti internazionali ad Afrin

–          Inviare una delegazione internazionale di solidarietà a Rojava

–          Evidenziare l’ipocrisia mediatica silente su quanto successo ad Afrin.”

 Inoltre per sostenere la campagna è attivo un croefunding (qui il link:https://www.retedeldono.it/it/progetti/gus/siamoafrin) a cui possiamo contribuire tutt*.

UN PAESE DOVE I NERI VENGONO UCCISI PER STRADA

Firenze. Un uomo, incensurato, di 65 anni, (dopo un sospettabile progetto di
suicidio) decide di incamminarsi armato su ponte Amerigo Vespucci e di sparare alla
prima persona che incontra, ammazzando, Idy Diene, 54enne nero, colpendolo con
sei colpi di pistola.
In apparenza e sui giornali, nessun movente razziale e xenofobo. Il reo ha
successivamente motivato il suo gesto dicendo di essere stufo dei continui litigi con la moglie per un presunto debito di 30.000 euro.
Ma il caso vuole che la vittima sia senegalese. Come Senegalesi erano Samb Modou e Diop Mor che nel 13 dicembre 2011 sono morti sparati nella stessa Firenze, per mano di Gianluca Casseri, militante di Casapound. Il caso vuole, o forse non è del tutto colpa del caso, che quest’omicidio accada a un mese di distanza dalla tentata strage fascista di Macerata, quando Luca Traini, nazifascista legato politicamente alla Lega di Salvini, decide di fare giustizia sul tragico femminicidio di Pamela Mastropietro sparando a 6 persone, tutte di colore .

La vicenda di Firenze impone la riflessione riguardo alcuni aspetti. In primo luogo, l’omicidio accade in un clima generale di intolleranza, di odio e di razzismo, alimentato da settimane e mesi di campagna elettorale e dichiarazioni pubbliche di chi oggi si appresta a fare, forse, il presidente del consiglio. In secondo luogo, il risultato elettorale di Domenica 4 marzo ci dà l’idea di come in questo Paese si stia diffondendo un sentimento di rabbia e di intolleranza generale, strumentalizzato e continuamente fomentato da quella classe dirigente che poi è risultata vincitrice alle urne.

Non è un caso che la comunità senegalese abbia da subito classificato questo
episodio come fortemente razzista e discriminatorio, a loro va tutta la nostra
solidarietà e appoggio. Non vogliamo lasciarl* sol*, e non perché, ogniqualvolta un immigrato sia vittima di violenza, ci interessi dire la nostra, ma perché la suddetta comunità è riuscita, senza troppa fatica, ad individuare e a sollevare il problema dell’odio razziale che si respira per le strade delle nostre città .

E poco importa se in Senato viene eletto un senatore nero, perché, indipendentemente dal colore della sua pelle, le sue posizioni politche rispecchiano e rispecchieranno direttamente le posizioni di un partito che fino all’altro ieri sosteneva la pulizia di massa strada per strada, quartiere per quartiere, volendo eliminare “gli indesiderati” –così come vengono chiamati i nuovi poveri, tra cui migranti, sex workers, senzatetto- per mettere fine a una situazione che viene presentata come caotica, “di degrado” e fuori controllo.
Un Paese in cui la Lega passa dal 4% al 18%, grazie alla retorica della guerra tra
poveri è un Paese accecato e disorientato. Le cause, possono derivare da molteplici ​fattori: dall’impoverimento generale, dalla mancanza di posti di lavoro, dalle
difficoltà che si hanno nel completare il proprio corso di studi, dalla mala gestione
dei flussi migratori. Tutti questi problemi vengono abilmente strumentalizzati dal
partito xenofobo di turno, che abilmente indirizza il malcontento generale
attaccando il più povero, categoria sociale entro la quale rientra sicuramente la
composizione migrante di questo paese, e in cui rientra anche il pensionato Roberto
Pirrone che ha commesso l’ omicidio.
Andando oltre alla storia personale dell’omicida però, quello che ci preme
sottolineare sono le continue retoriche fondate sulla paura e di conseguenza
sull’odio che identificano di volta in volta il degrado, la sicurezza, la legittima difesa, le migrazioni forzate, come fenomeni sociali il cui capro espiatorio ha sempre la pellescura, e mai bianca (eccetto per il caso delle zecche dei centri sociali), portando così una popolazione a essere perennemente in conflitto con se stessa e a frammentarsi, diventando ultra-individualista e xenofoba, per definizione: paurosa del diverso, e in questo tipo di società il diverso è chiunque. Questi anni di crisi e di feroce sfruttamento delle classi più povere, hanno permesso alla classe dominante e alla stampa sensazionalistica di far diventare la paura un sentimento quotidiano, che sovrasta e disintegra la solidarietà. Più ci spaventano, più alziamo muri e più siamo incapaci di leggere in maniera critica la realtà che ci circonda. Per fare un esempio concreto, durante la protesta legittima dei senegalesi, il problema più grande pare siano state delle fioriere danneggiate, distrutte in seguito ad una rabbia verso l’ennesimo omicidio razziale, ma che la comunità senegalese ha già provveduto a ripagare, attraverso un’autotassazione. Non c’è bisogno di eventi tragici ed “eccezionali” come la morte di un uomo, basta scendere al bar sotto casa, in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città per trovare chi inneggia ed elogia Luca Traini, attentatore di Macerata, dicendo che il suo unico sbaglio è stato quello di non averl* ammazzat* e di aver preso male la mira.

Siamo arrabbiat* perché siamo stanch* di piangere le vittime del razzismo di questo
paese. Siamo convint* che sia necessario e urgente aprire luoghi e spazi di confronto
su questi temi, mettendo in piedi un ragionamento che vada al di là del semplice “è
successo e ne prendo atto”, ma che punti a costruire anticorpi reali al razzismo,
attraverso il confronto e la mobilitazione.

Ci troverete tutti i giorni ai nostri posti a lottare per un mondo diverso, partendo da una via, un quartiere, una città, una scuola, un’università, in cui si abbattono i muri dell’intolleranza e si costruisce solidarietà e accoglienza.
Per questi motivi rilanciamo l’assemblea universitaria antifascista antirazzista e
antissessista il 12/03 alle ore 18.00 a sociologia in aula 10. Una nuova possibilità di combattere il razzismo sta nascendo all’interno dell’università di Trento e noi siamo pront* a cogliere questa sfida e a sostenere questo percorso.

Alle donne del mondo: trasformiamo il XXI secolo nell’era della libertà delle donne!

Dalle montagne del Kurdistan, nelle terre dove la società si è sviluppata con la guida delle donne, vi salutiamo con la nostra grande libertà, passione, ambizione e lotta indissolubile. Dai quartieri del Rojava alle foreste del Sud America, dalle strade europee alle pianure dell’Africa, dalle valli del Medio Oriente alle piazze del Nord America, dalle montagne dell’Asia agli altipiani australiani; con il nostro amore che non conosce confini e con i nostri sentimenti più rivoluzionari, abbracciamo tutte le donne che rafforzano la lotta per la libertà e l’uguaglianza.
In occasione dell’8 marzo 2018, Giornata internazionale della lotta per le donne, commemoriamo tutte le donne che hanno dato la vita nella ricerca della libertà, nella resistenza contro la schiavitù, lo sfruttamento e l’occupazione. Da Rosa Luxemburg a Sakine Cansız, da Kittur Rani Chennamma a Berta Caceres, da Ella Baker a Henan da Raqqa, da Djamila Bouhired, alla palestinese Sana’a Mehaidli a Nadia Anjuman, siamo sempre grate alle immortali guerriere della lotta di liberazione delle donne. La loro luce squarcia l’oscurità che ci è stata imposta. Sul sentiero che hanno illuminato davanti a noi, marciamo verso la libertà. Insieme a loro, commemoriamo tutte le donne
che sono state assassinate nel corso di un regime patriarcale di cinquemila anni, attraverso ogni sorta di violenza maschile, guerre, terrore di Stato, occupazioni coloniali, poteri mascherati religiosamente, bande di uomini, mariti e cosiddetti amanti.
È il loro ricordo che spinge la nostra incrollabile determinazione a porre fine al femminicidio, la più antica guerra del mondo.

Care donne, compagne, sorelle,
siamo nel bel mezzo di un processo di trasformazione epocale. Il sistema patriarcale, coetaneo della civiltà statalista, sta attraversando una profonda crisi strutturale. Come donne, dobbiamo diagnosticare questa crisi sistemica con le sue cause e conseguenze, stabilire analisi forti e sviluppare prospettive che accelerino la nostra lotta. Perché, se la crisi strutturale del sistema costituisce una grande minaccia per le donne di tutto il mondo, offre anche opportunità per affermare la libertà delle donne. Opportunità che forse si presenta solo una volta ogni secolo.
Possiamo trasformare il 21° secolo nell’era della liberazione delle donne! E non è un sogno o un’utopia. È una realtà. Ma affinché si realizzi dobbiamo creare un programma di liberazione delle donne per il XXI secolo.
Per questo, dobbiamo prima di tutto cogliere pienamente, nella loro interezza, le contraddizioni e le caratteristiche fondamentali dell’epoca in cui viviamo. Quali possibilità e quali rischi queste contraddizioni e caratteristiche costituiscono dal punto di vista della liberazione delle donne? Che tipo di responsabilità dobbiamo assumere in questo senso, come organizzazioni e movimenti globali delle donne?
Nel XXI secolo il sistema mondiale è entrato in una profonda crisi, tanto che si parla di “nuovo ordine del mondo”.
Cercando di riorganizzarsi per uscire dalla crisi, la modernità capitalista per prima cosa tentò di applicare questo nuovo ordine in Medio Oriente sotto il nome di “Grande progetto per il Medio Oriente”. Ebbene, denominiamo il processo iniziato con gli interventi in Afghanistan e in Iraq, proseguito con la primavera araba in Nord Africa e intensificato negli ultimi anni in Siria, Iraq e Kurdistan, “terza guerra mondiale”. Mentre i regimi dello Stato-nazione in Medio Oriente, creati dagli Stati occidentali cento anni fa per riprodurre il caos e la crisi in modo permanente, cercano di
proteggere lo status quo, le potenze straniere tentano di dividere nuovamente la regione.
Nominare l’attuale periodo in Medio Oriente “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali. Oltre a ciò, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalista in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale. Il sistema mondiale contemporaneo o la modernità capitalista non è un fenomeno degli ultimi 500 anni. Il suo seme ha messo radici nella forma del primo Stato risalente a 5000 anni fa in Mesopotamia e da allora ha
subìto diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi.
Per questo motivo, difendere la Soluzione Confederale Democratica come “terza via” contro lo status quo-ismo degli stati regionali e l’interventismo riprogettato delle potenze straniere, costituisce una responsabilità fondamentale per tutte e tutti noi, e supera i confini della Siria e del Medio Oriente. Il sistema di autonomia democratica che si sta attualmente costruendo con la leadership delle donne nel Rojava e nel Nord della Siria, in tali condizioni di guerra e resistenza, è l’unico modello risolutivo che ha il potenziale per porre fine alle crisi, al caos, alle contraddizioni e ai conflitti che si sono sistematicamente riprodotti nella regione durante il secolo scorso. Non solo gli
Stati-nazione che sono stati creati insieme ai confini disegnati artificialmente dopo la prima guerra mondiale non riflettono la composizione etnica, culturale, religiosa e sociale della regione, ma hanno anche mirato a far saltare in aria la nostra millenaria cultura della vita comune. Oggi, nel Nord della Siria, per la prima volta viene costruito un sistema basato sulla partecipazione paritaria e libera delle donne, sul pluralismo etnico e religioso e sulla democrazia partecipativa. Come alternativa democratica, questo modello pone una soluzione ai problemi obsoleti del Medio Oriente, contro i regimi maschili, sessisti, monistici, nazionalisti, settari, che sono stati alimentati dal sistema globale per decenni.
Questo è il motivo per cui lo Stato turco, che ha il secondo più grande esercito nella NATO, ha lanciato con tutta la sua forza un’operazione contro il Rojava, ad Afrin, nel Nord della Siria, il 20 gennaio 2018. Questo è anche il motivo per cui potenze straniere come USA, Russia e UE non stanno ostacolando gli attacchi militari ad Afrin. Perché in Afrin si costruisce un modello di società democratica che mette al centro la liberazione delle donne. La resistenza di Afrin rappresenta la rivolta delle donne contro la vita capitalista della modernità. Le città e i villaggi circostanti ad Afrin
resistono al fascismo, alla misoginia, allo sradicamento dei valori culturali e all’inimicizia tra i popoli. Ed è chiaro che non è solo lo Stato turco e gli alleati delle bande islamiste reclutati che si scontrano con le unità di difesa femminile e popolare di Afrin: in un piccolo pezzo di geografia come Afrin, due sistemi mondiali, due ideologie, due progetti futuri si stanno battendo. Mentre unoè basato sulla liberazione, l’ecologia e il pluralismo delle donne, l’altro è fatto di misoginia, potere maschile, monismo, dominio e sfruttamento. Uno brilla con tutti i colori della vita, mentre l’altro rappresenta l’oscurità. Pertanto, è di vitale importanza e significativo per le donne del mondo
rivendicare e difendere la crescente resistenza contro il fascismo ad Afrin. Poiché ciò che è sotto attacco e che viene difeso, sono valori universali della libertà delle donne. In questa occasione, come KJK, salutiamo e ci congratuliamo con le/i combattenti per la libertà, che assumono la guida della resistenza ad Afrin, e con il popolo di Afrin che difende eroicamente le sue terre dagli invasori. Le donne e l’unità vinceranno. Il fascismo perderà.
Il processo rivoluzionario in Rojava e nel Nord della Siria mostra questa verità a tutte e tutti noi: le vere rivoluzioni devono essere rivoluzioni femminili. I tentativi rivoluzionari che non si basano sulla liberazione delle donne non hanno possibilità di successo. La ragione fondamentale dell’incapacità dei movimenti socialisti e rivoluzionari del ventesimo secolo di realizzare obiettivi desiderati nonostante i loro innumerevoli sacrifici, dedizione e programmi, è il fatto che non hanno messo la liberazione delle donne al centro delle loro lotte. La questione delle donne non è un problema secondario, bensì è alla base di tutte le altre questioni. Le donne sono la prima classe
oppressa, asservita, sfruttata, colonizzata e dominata. Tutte le altre forme di sfruttamento iniziano dopo lo sfruttamento delle donne. Per questo motivo, condurre una lotta efficace contro il sistema egemonico sarà possibile solo nel quadro di una forte ideologia e programma di liberazione, in cui l’organizzazione autonoma e separata delle donne gioca un ruolo attivo. La nostra esperienza di lotta
ideologica e pratica trentennale come Movimento per la libertà delle donne del Kurdistan ci mostra questo.

Care donne, care compagne,
il seme del sistema globale basato sulla modernità capitalista si trova in Medio Oriente, in particolare in Mesopotamia. È in questa regione che l’attuale crisi sistemica si mostra direttamente,così com’è. Ma poiché la crisi del sistema mondiale patriarcale-capitalista ha una qualità globale, non esiste terra risparmiata dal sentire questa crisi, nessun lago, montagna o fiume lasciato intatto,nessuna società che non sia stata influenzata dai tentativi di dominio. Tuttavia, quelle più colpite dalla crisi sono le donne. E ciò è direttamente connesso al carattere sessista della modernità capitalista. Il sistema sta cercando di superare la crisi sfruttando e abusando delle donne in modo
ideologico e materiale ancora più forte, e così cerca di garantire la sua esistenza.
Contro le affermazioni comuni, il liberalismo, come una delle ideologie fondamentali dello Statonazione, non ha portato alcun contributo positivo alla liberazione e all’uguaglianza delle donne. Al contrario, è proprio in quest’epoca liberale che il sessismo è stato rafforzato e usato come elemento ideologico. È una grande bugia che il liberalismo libera le donne. La mercificazione della donna, in
tutto il suo corpo, personalità e anima, costituisce la forma più pericolosa di schiavitù.
In questo contesto, la modernità capitalista costituisce il più alto stadio del sistema patriarcale. In nessun punto della storia della civilizzazione le donne sono state soggette allo sfruttamento tanto quanto lo sono state nell’era della modernità capitalista. Dalla prospettiva delle donne, esiste una colonizzazione che è aumentata di mille volte nella sua profondità e nei suoi scopi. Il sessismo nella società dello stato-nazione mentre assegna all’uomo il massimo potere ha trasformato la società
nella colonia più inferiore attraverso la figura della donna. In questa dimensione, nella storia della civilizzazione in generale e nella modernità capitalista in particolare, la donna è nella posizione di essere la più vecchia e la più nuova nazione colonizzata. Dalla prospettiva del sistema egemonico una ragione per quest’insostenibile crisi è la colonizzazione delle donne.
Le donne e la liberazione delle donne costituisce il fondamentale potere che si oppone al sistema patriarcale e capitalista mondiale. Al cuore di tutte le forme di potere, di egemonia, di sfruttamento, di saccheggio, di schiavitù, di violenza, e di oppressione che il sistema stesso crea in sé si basa sulla dominazione della donna. La schiavitù e la proprietà imposte sulle donne passo dopo passo si diffondono complessivamente nell’intera società. Questo è il motivo per cui la lotta di liberazione delle donne, tra tutte le lotte anti-sistema ha la più grande forza di scuotere dalle fondamenta il
sistema del maschio egemonico. E, di fatto, è questa dinamica che disvela la crisi che il sistema sperimenta. Come donne, dobbiamo vedere chiaramente la forza che possediamo e gli effetti che creiamo. In questo senso, l’aumento massivo della violenza e degli attacchi contro le donne in tutto il mondo è direttamente connesso a questa situazione di crisi e alla relazione tra il sistema mondiale patriarcale capitalista e la liberazione delle donne. Il sistema sessista basato sullo sfruttamento attacca la donna che pone la più grande sfida e pericolo al suo potere. Nei fatti parliamo di una guerra di aggressione sistematica. La forma di questa guerra di aggressione può differire al livello locale ma stiamo essenzialmente di fronte ad un fenomeno universale. Dobbiamo guardare alle connessioni tra gli stupri di gruppo in Asia e la violenza di genere negli Stati Uniti. Con un approccio olistico dobbiamo esaminare le uccisioni delle donne in Latinoamerica, che hanno raggiunto il livello di un massacro, come i rapimenti e la resa in schiavitù di donne e ragazze da bande, mascherate come religiose, in Africa e in Medio Oriente. Dobbiamo analizzare insieme la crescita del fascismo, i regimi misogini e i loro attacchi ai diritti ottenuti dalle donne come risultato delle loro lotte. E dobbiamo essere profondamente consapevoli del fatto che questa guerra, guidata dal sistema patriarcale su scala globale, sta cercando di soffocare la ricerca e le lotte di liberazione
delle donne. Per questo, probabilmente, il sistema maschile dominante non è mai stato così tanto messo sotto pressione nella storia della civilizzazione. Le sue fondamenta non sono mai state scosse fino a questo punto. Analogamente, dalla prospettiva delle donne, le condizioni per assicurare la liberazione non sono mai state così mature. Le possibilità di realizzare la seconda grande rivoluzione delle donne non ha mai raggiunto questo stadio. Questo è il motivo per cui stiamo attraversando un periodo storico. Ci sono dunque grandi opportunità, ma anche i pericoli sono
altrettanto grandi.
Se questo è il caso, cosa dobbiamo fare, se vogliamo confrontare questi pericoli e effettivamente valutare le possibilità per assicurare la liberazione delle donne e attraverso questa la liberazione di
tutta la società? Come possiamo difendere noi stesse dai crescenti attacchi del sistema? In questo caso, l’autodifesa non va intesa in senso passivo. E’ necessaria un’autodifesa attiva. La più grande e la più efficace forma di autodifesa è creare una vita libera e stritolare le vene del sistema dominante maschile. Dobbiamo rendere la nostra vita insostenibile per il sistema, non il contrario. Ma perchè questo possa succedere dobbiamo portare avanti una lotta ad un livello più alto. Su scala globale, la
lotta di liberazione delle donne ha creato un forte fondamento in entrambe le dimensioni teoretica e pratica. Ma ora è il momento di mettersi in marcia.
Come Movimento di Liberazione delle donne del Kurdistan siamo state impegnate in una grande lotta per più di 30 anni per approfondire l’ideologia di liberazione della donna, per rivelare la forza di autodifesa e la coscienza delle donne e per assicurare alle donne una equa e libera partecipazione nell’ambito della politica, per superare il sessismo in tutte le sfere della vita e per accelerare la libertà delle donne. All’interno di questo cammino abbiamo sempre compreso l’enorme importanza e senso di condividere i nostri risultati e conclusioni con tutte le donne del mondo. E ora, con grande entusiasmo, gioia e determinazione per trasformare il 21 secolo nell’era della donna liberata, per portare alla seconda grande rivoluzione delle donne, noi miriamo di essere all’altezza della missione del movimento universale di liberazione delle donne.

Care donne,
è assolutamente essenziale che ci organizziamo ad un livello universale per creare un sistema di donne globale e equo contro il sistema mondiale capitalista sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità e i nostri colori, non c’è nulla che – se non come un mosaico, allora come un artefatto di marmo – il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere. Perché questo possa accadere, dobbiamo sviluppare
alleanze democratiche tra donne. Dobbiamo sviluppare modi, metodi, e prospettive appropriate alle condizioni, secondo le caratteristiche e le necessità del ventunesimo secolo. Essenzialmente, dobbiamo tutte insieme sviluppare per il ventunesimo secolo il programma di liberazione delle donne. Come movimento di liberazione delle donne del Kurdistan noi dobbiamo lo sviluppo della nostra rivoluzione come una rivoluzione di donne al nostro leader Abdullah Ocalan, che 19 anni fa è stato rapito all’interno di una cospirazione della organizzazione di bande maschile e statale chiamata  NATO ed è ancora in ostaggio in Turchia in condizioni di isolamento che non hanno precedente
storico.
È il sistema di analisi di Ocalan, le sue prospettive di liberazione, la sua trasformazione personale, i sui sforzi senza fine per lo sviluppo del movimento per la liberazione della donna che mettono insieme la forza che sta dietro queste dinamiche che ora ispirano persone in tutto il mondo. Il suo essere rinchiuso in una prigione in un’isola negli ultimi 19 anni e il suo completo isolamento dal mondo esterno negli ultimi quasi tre anni sono connessi all’influenza delle sue idee. Però i pensieri non possono essere isolati; gli spiriti liberi non possono essere tenuti in ostaggio. Il seguente estratto dalle prospettive di Ocalan, sviluppato in condizioni di isolamento carcerario, è illuminante sotto la
prospettiva di una lotta universale di liberazione delle donne:
“Senza dubbio, la denuncia della situazione della donna è una dimensione del problema. Ma quello che è più importante riguarda la questione della liberazione. In altre parole, la soluzione del problema ha un’importanza molto più grande. Si dice spesso che il livello di libertà generale della società si può misurare dalla libertà delle donne. È corretto e importante considerare come si possa riempire questa affermazione. La liberazione delle donne e l’uguaglianza non semplicemente
determina la libertà ed uguaglianza della società. Per questo sono necessari la teoria, programmi, organizzazioni, e pianificazione di azioni. Più importante, mostra che non possono esserci politiche democratiche senza le donne e inoltre che, nei fatti, la politica di classe rimarrà inadeguata, e natura e pace non possono essere sviluppate e protette.”

Come movimento di liberazione delle donne curde, in occasione dell’8 marzo 2018, lanciamo un appello alle donne del mondo: mettiamoci assieme e assieme sviluppiamo la necessaria teoria, programmi, organizzazione, e piani di azione per la liberazione della donna. Con la coscienza che solo una lotta organizzata può portarci risultati, aumentiamo l’organizzazione in tutte le sfere della vita. Collettivizziamo le nostre coscienze, forza di analisi, esperienze di lotta, e prospettive per
creare le nostre alleanze democratiche. Non lottiamo le une separate dalle altre – lottiamo assieme.
E, lungo il percorso, trasformiamo il ventunesimo secolo nell’era della liberazione della donna!
Perché questo è esattamente il momento giusto! È il momento per la rivoluzione delle donne!

Afrin è ovunque, e ovunque è resistenza!

Evviva la lotta universale di liberazione delle donne!

Jin, jiyan, azadi! Donne, vita, libertà!

8 marzo 2018

Komalên Jinên Kurdistan (KJK)