COMUNICATO SOLIDARIETÀ AL COLLETTIVO UNIVERSITARIO AUTONOMO DI FIRENZE

Ieri, 11 giugno 2017, a Firenze si è verificato l’ennesimo episodio di repressione verso chi si oppone ai tagli al diritto allo studio che si sta verificando negli atenei italiani. Le studentesse e gli studenti del Collettivo Universitario Autonomo di Firenze nella giornata di domenica hanno occupato uno dei tanti stabili che l’UniFi lascia marcire nel degrado e nell’incuria al posto di metterli a disposizione per le necessità delle studentesse e degli studenti. Il rettore Dei, invece di assumersi le proprie responsabilità e confrontarsi con le universitarie e gli universitari su come viene gestito il patrimonio immobiliare inutilizzato dell’ateneo, ha risposto inviando la celere per sgomberare lo stabile e farlo ripiombare nell’incuria e nel degrado da cui il Collettivo Universitario Autonomo di Firenze voleva strapparlo. Nel corso dell’operazione di polizia sono state fermate e poi rilasciate due compagne che erano all’interno dell’edificio. L’occupazione nasce come volontà di risposta e di riscatto rispetto alle politiche che si stanno affermando all’ateneo fiorentino. Infatti il rettore e l’Agenzia per il Diritto allo Studio della Regione Toscana sono responsabili di tagli al diritto allo studio e dell’introduzione di nuove tasse favorendo sempre più in questo modo l’introduzione e l’affermazione nell’università di una logica classista da selezione naturale in cui chi può permettersi di pagarsi gli studi di tasca propria, senza gravare sugli enti pubblici per il diritto allo studio, può accedere alla formazione universitaria mentre tutti gli altri e tutte le altre si vedono impossibilitat* a continuare i propri studi dopo l’ultimo anno di scuola superiore.

Come Collettivo Universitario Refresh la nostra solidarietà va al Collettivo Universitario Autonomo. In quanto studentesse e studenti che vivono quotidianamente all’interno dell’università-azienda e che lottano contro di essa sappiamo bene da che parte stare. Stiamo dalla parte di chi lotta, dalla parte di chi si oppone alle politiche neoliberali che stanno distruggendo l’università pubblica, dalla parte di chi si contrappone ai tagli al diritto allo studio e all’introduzione di nuove tasse. Stiamo dalla parte di chi di autorganizza per riappropriarsi di quel welfare studentesco di cui voglio sempre più privarci.

La vostra repressione non ci fermerà. Il tempo del riscatto è iniziato

#OCCUPATIDELL’UNIVERSITÀ

Fuori i fascisti dalla città e dall’università. No alle ronde di Casapound

Nella sera dello scorso 3 maggio, una ventina di militanti di CasaPound hanno deciso di inaugurare la loro nuova campagna “antidegrado” presentandosi in una delle note piazze antifasciste della città: Piazza Santa Maria Maggiore, spesso attraversata da student* universitar*, ma centro delle polemiche (e delle retoriche) cittadine sulla sicurezza. La settimana successiva si è ripetuto il medesimo siparietto grottesco in Piazza Dante (luogo altrettanto dibattuto), un’altra ronda squadrista giustificata dall’instancabile guerra al degrado cittadino; sarebbe forse meglio chiamarla caccia al diverso: all’immigrato, al/alla omosessuale, alla sex worker e in generale a tutt* quell* che non rientrano nello standard di normalità e decoro sancito da CasaPound. Che si tratti di orientamenti sessuali, di precarietà sociale o di colore della pelle, per i neofascisti de Il Baluardo, sempre di “feccia” si parla, e pertanto va allontanata per rendere più sicure le strade cittadine. A seguito di questi due episodi sono state fatte ben altre due ronde, a Roncafort e nella zona del parco di Melta.
Casapound è un partito dichiaratamente neofascista e razzista che professa odio contro i migranti, alimentando un clima di intolleranza fatto di menzogne e strumentalizzazioni. La difesa dell’italianità spazia dal confinamento del diverso all’aggressione fisica e personale. Ce lo mostrano Filippo Castaldini e Maurizio Zatelli, noti aggressori della sezione trentina del partito, soliti ad aggirarsi nella notte armati di coltello, pronti a difendere le strade, senza paura di infilare lame ben dentro alle pance di chi, a loro avviso, è feccia. La scia di sangue e violenze lasciata da questi “bravi ragazzi” si protrae dal 2013, anno di apertura della sede Il Baluardo. Costellata di intimidazioni, azioni squadriste, pestaggi e accoltellamenti, la politica da due soldi che professa Casapound vede come ultima campagna quella del “riempire le culle, svuotare i centri d’accoglienza”. Così come la Lega Nord anche Casapound infatti si è schierato contro l’accoglienza dei venti richiedenti asilo ospitati a Vela, attaccando la struttura che dovrebbe ospitare i/le migranti sul territorio trentino, da sempre solidale e accogliente.

Noi li conosciamo bene e non abbiamo intenzione di lasciare loro alcuno spazio, agibilità politica o militare che sia, all’interno della nostra città. Riteniamo che le strade di Trento, la sua Università e i suoi spazi debbano mantenersi liberi da idee intolleranti, da pratiche squadriste e vigliacche. La paranoia del degrado che assilla il dibattito pubblico, e che funge da pretesto per i militanti di Casapound per scorrazzare liberi per le strade, è in realtà inquinata, distorta e costruita per alimentare la guerra dei penultimi contro gli ultimi, dei poveri contro i più poveri.

Pur senza ignorare la presenza di fenomeni economici e sociali che costringono a vivere in precarietà, non accettiamo che la soluzione sia allontanare, marginalizzare o picchiare chi è abbandonato e represso da una società civile incapace di scagliarsi contro chi, invece, quei fenomeni li ha prodotti. L’attitudine a rinchiudersi nella bolla di perbenismo ipocrita che legittima l’azione di questi facinorosi in nome del decoro urbano e della difesa di libertà che democratiche non sono, ci costringe a considerare colpevoli anche tutti coloro (media, stampa, organi istituzionali, gruppi politici, associazionismo universitario e non) che non si assumono la denuncia e la condanna della presenza di Casapound e simili in città. Riteniamo che gli orientamenti repressivi dell’amministrazione locale e nazionale, l’aumento della militarizzazione per le strade, la diffusione di isterie securitarie siano risposte velleitarie che vagheggiano nel tentativo di eliminare gli/le indesiderat*, allontanare gli/le indesiderabil* e punire i/le dissenzient*.

Occorre invece praticare forme di riappropriazione degli spazi urbani lasciati al controllo poliziesco o squadrista, riempiendo le strade di socialità libera aperta all’incontro, rifiutando logiche d’esclusione e intervenendo laddove chi è emarginato possa trovare sponda per una rivendicazione di maggiori tutele sociali, lotta per i diritti fondamentali e possibilità d’integrazione e autodeterminazione personale e collettiva. La guerra al diverso non dà garanzie di un futuro degno, né tantomeno la discriminazione regala maggiori aspettative di benessere collettivo. Il lavoro, i diritti e la libertà sono egualmente negati da una minoranza di potenti a danno di tutt*.

Casapound ha dichiarato di volersi riprendere Trento, ma non ha fatto i conti con chi ancora crede negli ideali antifascisti e nelle pratiche che vi conseguono. Come student* universitar* riteniamo necessaria una riflessione attenta ai rischi che corrono la città e la sua Università nel momento in cui personaggi e gruppi politici di questo tipo si sentono legittimati ad aggirarsi liberamente per le strade. Non smetteremo mai di considerarci, in quanto student* universitar*, abitanti a tutti gli effetti di Trento e, pertanto, non permetteremo mai che ideali e pratiche veicolate da Casapound e simili, possano mettere piede all’interno degli spazi universitari e cittadini.

VOGLIAMO UN’UNIVERSITÀ E UNA CITTÀ LIBERA DAL FASCISMO, DAL RAZZISMO E DAL SESSISMO.

La libertà di espressione non si arresta, Gabriele libero!

Mentre un’opposizione ridotta all’osso accusa il governo di brogli e chiede l’annullamento del referendum, la commissione elettorale, forte dell’irreversibilità del “voto popolare”, pesta le mani alle arrancanti voci contrarie confermando i risultati della consultazione. Il tappeto rosso sembra ora srotolarsi su un terreno già solcato o, più precisamente, consunto.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si congratula con Erdoğan per l’ottimo lavoro. L’Osce grida “al ladro!”. La diplomazia italiana gioca al telefono senza fili con Ankara affinché un giornalista ignorato dalla stampa nazionale venga rispedito al mittente, possibilmente privo dell’elegante cappotto di legno all’egiziana.

A Istanbul si protesta contro la costituzionalizzazione di una dittatura e in Italia si cerca di ricomporre un puzzle degno di solidalizzare con il connazionale arrestato il 9 aprile. In questo giorno infatti Gabriele Del Grande, documentarista indipendente e regista di “Io sto con la sposa”, è stato arrestato in Turchia, precisamente ad Hatay, con accuse deboli e pressoché insostenibili. La verità la conosciamo bene, è la stessa verità di Giulio Regeni, è la stessa verità degli accademici arrestati e della repressione che vive il mondo della ricerca e della formazione. Quanto successo a Gabriele Del Grande non è nulla di inaspettato: la sua vicenda si svolge su un terreno già saturo di inquietanti presupposti; un terreno pronto al totalitarismo che non ha mai esitato a rendere manifeste le proprie intenzioni. La totale sospensione delle libertà democratiche a cui hanno fatto seguito migliaia di arresti finalizzati ad imbavagliare bocche scomode, non è certo un fatto nuovo.

È tristemente noto a tutti come dopo il fallito golpe di luglio 2016, circa 1600 tra professori, presidi e rettori universitari (tra cui quello di Ankara) siano stati licenziati, allontanati o incarcerati. Con la purga delle università, si è consumata anche quella delle emittenti televisive, seguite dagli arresti dentro le sedi giornalistiche, poi chiuse per sempre.  La fobia gulenista sembra aver mostrato -sotto la spinta di rivalsa post golpista- una prassi di conquista del potere e di deriva autoritaria che le dittature del XX secolo ci mostrarono ben prima che il mondo oggi si svegliasse con un Erdogan dittatore dopo voto democratico. Si sta parlando dell’annullamento dell’opposizione, della repressione della libertà d’espressione, di stato di polizia permanente nei grandi centri urbani, di propaganda mistificatoria, fino ad arrivare al taglio delle teste pensanti dentro le scuole e le università. E con la proposta di reintroduzione della pena di morte, il taglio di queste teste è probabile che diventi molto di più di una macabra metafora.

Una dittatura si è confezionata sotto ai nostri occhi e non possiamo negare l’indifferenza con cui ne abbiamo osservato la genesi. La maggioranza risicata che ha regalato a Erdoğan la vittoria ha incorniciato una sequenza di eventi che affonda le proprie radici ben oltre la scadenza del 16 aprile e ben più a fondo rispetto al golpe del luglio 2016.

È evidente come non siano state certo briciole a suggerire la via di una deriva totalitaria della Turchia di Erdoğan: i crimini perpetrati contro la minoranza curda e contro i migranti, i numerosi arresti che hanno mutilato l’ambito accademico, l’ondata di repressione e l’aria di censura non sono indizi da poco. Ma, come spesso accade, nessuno si accorge delle suole sozze dell’invitato finché questo non varca la soglia con le scarpe sporche di merda.

E quanto spesso tra i massimi organi dello Stato -e in generale dentro le democrazie europee- ci si è turati il naso davanti ad accordi commerciali con tale sanguinario dittatore o davanti all’emergere di nuovi fascismi in proprio seno? Nel richiedere la liberazione di Del Grande ci ricordiamo che la libertà di ricerca accademica, come la libertà d’espressione, non sono suppellettili che una democrazia può scegliere se includere o meno nella propria struttura di diritti fondamentali tutelati.

Di quanti Giulio Regeni abbiamo bisogno per prendere una posizione decisa nei confronti delle derive autoritarie che si stanno confezionando sotto ai nostri sguardi imbambolati?