Valore legale della laurea? Capiamoci qualcosa

È di qualche settimana fa la notizia che il ministro dell’interno Salvini, appoggiato dal Movimento 5 Stelle, abbia dichiarato di voler abolire il valore legale della laurea. Sentendo la notizia abbiamo provato a interrogarci su cosa questo provvedimento potrebbe comportare e siamo arrivat* ad alcune semplici conclusioni.

Abolire il valore legale della laurea è un provvedimento che porterà le università ad essere ancora più elitarie di quanto già non siano, privando i laureati e le laureate di qualsiasi tutela legale una volta all’interno del mondo del lavoro. Si creerà infatti un divario, d’altra parte già presente, tra università pubbliche e private e tra università prestigiose e non. Non è tuttavia ben chiaro in che modo e chi stabilirà il prestigio dei singoli atenei. Senza una tutela legale, i laureati delle università “di serie B” non avranno le stesse possibilità e le stesse garanzie contrattuali di chi risulta laureat* nelle università considerate di “serie A”.

Questo meccanismo porterà gli atenei a divenire sempre più competitivi e ad innalzare inevitabilmente le tasse di iscrizione impedendo l’accesso a tutt* coloro che non si trovano in una condizione economica tale da poter affrontare la spesa. Piano piano si andrà a perdere quell’idea di università pubblica e accessibile, che già ora è difficile da raggiungere a pieno. Neolaureat* si troveranno a essere sempre più precar* all’interno di un mondo del lavoro che non offrirà alcuna tutela legale e alcun riconoscimento dei sacrifici fatti in anni di studio.

Ci stupisce come due partiti come la Lega e il M5S, partiti che da sempre si fanno promotori degli interessi de* più debol*, del popolo italiano, scagliandosi in più occasioni contro le élite, siano promotori di un provvedimento che priverebbe l’università di qualsiasi uguaglianza, promuovendo una becera discriminazione di stampo classista, la quale favorirà solo le élite e le fasce economicamente più alte della società.

Per noi che da anni ci battiamo per un’università aperta e accessibile a tutti e tutte, questo provvedimento è inevitabilmente inaccettabile. Probabilmente ai ministri di Lega e M5S fa paura l’idea che l’università possa essere un luogo libero e aperto, libero da discriminazioni e imposizioni. Probabilmente si ha paura che le nuove generazioni, studiando e sviluppando un sapere critico, possano costruirsi gli anticorpi necessari per debellare l’ondata di regressione e odio che questo governo ci sta proponendo. Probabilmente risulta più comodo rendere l’università un luogo elitario, escludendo tutte quelle fasce della società che si trovano ai margini.

Riflessioni a freddo sull’adunata degli alpini

La scorsa settimana la città di Trento era in fermento. Si è registrata un’affluenza da record con persone venute da ogni dove per prendere parte alla 91 esima adunata degli alpini. Le stradeerano invase da cori, stand e locali aperti 24h e da un senso di machismo dilagante. Pare infatti che buona parte dei partecipanti avesse deciso di aderire all’iniziativa non solo per sfoggiare il proprio orgoglioso senso d’appartenenza al corpo militare ma anche per sfoggiare orgogliosamente tutta la propria maschilità negativa.  In quei giorni infatti non è stato raro camminare per le strade senza imbattersi in molteplici sguardi viscidi, avvertendo improvvisamente la sensazione di essere diventate carne da macello a causa della libido altrui. Non è stato raro essere fermate per commenti inopportuni e indesiderati, che pare necessario e doveroso esternare anche quando non è palesemente richiesto. In quei giorni però il famoso concetto di “decoro urbano” era improvvisamente scomparso dalle strade e di questi ed altri episodi non vi era neppure l’ombra di dibattito tra l’opinione pubblica. Tutto è stato sommerso e dimenticato perché qualcosa bisogna pur sopportare per il bene e il lustro del territorio. La città ha visto anche un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine a garanzia dell’ordine pubblico, tra cui però questi episodi non sono sembrati nemmeno rientrare. Prima di uscire con questa riflessione abbiamo voluto prenderci il nostro tempo per riflettere e confrontarci e ora ci troviamo a chiederci dove siano finiti i vari slogan che qualche anno fa inneggiavano alla tutela delle “nostre” donne dall’invasore se poi il pericolo si manifesta sotto le sembianze di un uomo bianco e in divisa. Rimane solo il dispiacere di non aver potuto godere liberamente di un momento di festa collettivo e condiviso senza dover essere soggette, ancora una volta, alla mercificazione del proprio corpo che viene percepito unicamente come un oggetto da cui trarre soddisfazione per il proprio piacere personale. Certi episodi non dovrebbero mai verificarsi, indipendentemente da sesso, razza ed etnia. Eppure divengono ancora più gravi e ingiustificabili quando a compierli sono proprio determinate categorie.

Vogliamo anche condividere la testimonianza di una ragazza, studentessa universitaria, che ci è arrivata via mail e che pensiamo possa trasmettere i sentimenti delle donne in quei giorni.

ESSERE DONNA MULATTA IN TEMPI DI ADUNATA-riflessioni dal margine

Maggio 2018. Trento, sicura, silenziosa, regina di decoro urbano si prepara ad accogliere 600000 militari e simpatizzanti smaniosi di sfilare per giorni a passo di marcia.

Da settimane la città è in fermento, i camion di bitume rompono i silenzi notturni, squadre di pompieri vengono arruolate per onorare la patria e adornare la le facciate di bandiere tricolore, anche la bella e ormai succube sede di sociologia si veste a festa e da il ben venuto agli alpini. Allora via le bici, disinfetta i parchi da migranti e accattoni, scattano ordinanze su ordinanze speciali. 10 maggio è tutto pronto.

La città è luccicante e disposta a delegare interamente l’ordine pubblico all’organizzatissimo Corpo degli Alpini, legittimati in ogni loro azione dal semplice essere forze dell’ordine e di conseguenza affidabili, solidali, caritatevoli rappresentanti dell’ordine costituito.

Il capoluogo si trasforma in cittadella dell’Alpino, come per ogni grande evento il capitalismo si traveste per l’occorrenza e subdolo si appropria di ogni cosa. Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro)

Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche che intersecano razza e genere, dando vita ad una narrativa vissuta e rivissuta mille volte nei più svariati contesti. A chi importa il tuo vissuto, a chi importa da dove vieni, a chi importa chi sei, chi si ricorda di avere davanti una persona, a chi importa?

Il colore della tua pelle, i ricci ribelli, i lineamenti, l’espressione di genere sono un pass par tout per aprire le fogne , etichette incollate su ogni parte del mio corpo che legittimano qualsiasi forma di violenza razzista e sessista. Non serve altro, il discorso d’odio è servito, è tutto normale, dall’alto del privilegio maschio e occidentale è tutto consentito. Ogni angolo di quell’immenso e pericoloso formicaio era per me trappola e luogo di resistenza, i miei tratti somatici mi tradivano in continuazione, l’autodifesa mi teneva in vita, sempre vigile e attenta.

Al tavolo di ogni bar, ad ogni incrocio si potevano captare l’affanno delle poche sinapsi di branchi di energumeni messe sotto sforzo, per portare avanti una discussione che puntualmente veniva condita da una frase come: “sti negri de merda”, “non sono razzista, ma…”, “andassero tutti a casa loro”, “gli ammazzerei tutti”, ”tira fuori le tette”, “bella gnocca vieni qua” ,qualche camionata di insulti a venditori ambulanti, che corazzati da anni di resistenza continuavano imperterriti il loro lavoro, e poi via, un altro rosso , prego, che la festa continui!

Mi sono sentita ingiustamente violentata ed impotente, violentata dagli sguardi, dai commenti sessisti, dalle palpate, dal esotizzazione continua del mio corpo trasformato in oggetto sessuale che risveglia profumi di violenza tropicale, nostalgie coloniali.

Nessuno ha chiesto il mio consenso, nessuno si è sentito in dovere di farlo, nessuno si è sentito responsabile per quello che stava accadendo nello spazio pubblico che lo circondava, nessuna delle “loro (bianche) donne” mi è stata solidale. Le istituzioni complici, si sono girate dall’altra parte e con tranquillità si sono fatte servire un vino, al tavolo dell’aggressore.

Nessuno si è chiesto se fosse normale che una cameriera sottopagata dovesse sopportare per ore frasi del tipo “Che bela moreta, fammi un pompino” o semplicemente, “non mi faccio servire da una marocchina” tutto normale , tutto concesso, nobilitato dalla posizione di “salvatore della patria”, corpo solidale in caso di calamità naturale. Tutti sembravano non voler ricordare che machismo e razzismo vengono esercitati da qualsiasi corpo, tanto più se privilegiato e paramilitare.

Questi quattro giorni sono stati la cartina torna sole dell’aria che si respira a livello nazionale, dell’ansia che ogni corpo di donna o di negra sente quotidianamente nell’attraversare lo spazio pubblico, delle ondate razziste e sessiste che attraversano il paese, ma non lo scuotono, che si insinuano silenziose nel discorso politico istituzionale di ogni giorno.

Io, come moltissime altre, non ci sto! non sono disposta a dover lasciare la città perchè non è per me spazio sicuro, non sono disposta a delegare la mia sicurezza a gruppi di militari maschi e testosteronici , non sono disposta a sorridere e lasciare correre “perché in fondo si scherza”, non sono disposta ad essere complice della vostra lurida violenza quotidiana con il mio silenzio, non sono disposta a tutelare il buon costume della vostra civiltà, rispettosa solo con chi rientra nei canoni imposti. Non sono più disposta ad agognare sanguinante e invisibile perché voi possiate marciare in pace sul mio corpo e onorare la vostra patria. Siamo stanche e arrabbiate, non ci sarà più nessuna aggressione senza risposta, nessun silenzio complice.

Siamo a conoscenza del fatto che la sezione nazionale dell’ANA ha pubblicamente portato la propria solidarietà alle donne molestate e si è dissociato da qualsiasi atto di molestia. La nostra vuole essere solo una riflessione a freddo su ciò che abbiamo visto, vissuto e su cui ci siamo confrontati.

#SIAMOAFRIN

Il Collettivo Universitario Refresh organizza la proiezione di Binxêt – Sotto il confine, il film documentario di Luigi D’Alife con la voce di Elio Germano per un momento di controinformazione in cui continuare a parlare della rivoluzione confederale e di ciò che sta succedendo in Siria del Nord a sostegno della campagna di solidarietà SiAmo Afrin.

28 maggio 2018 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia (aula da definirsi)

▶️Ore 18:00:
Proiezione del docu-film “Binxêt – Sotto il confine” distribuito da OpenDDB (Distribuzioni dal Basso)
Trailer: https://vimeo.com/205059760

▶️A seguire momento di dibattito e piccolo rinfresco all’esterno della Facoltà

(I fondi raccolti verranno versati a sostegno della campagna SiAmo Afrin) 

#SiAmoAfrin:

“In seguito al lancio dell’”Operazione Ramoscello d’Ulivo” da parte della Turchia, il pacifico, multiculturale e democratico cantone di Afrin in Rojava (Nord Est della Siria) è stato invaso, saccheggiato, bruciato e distrutto. Si stima che circa 450.000 persone siano fuggite terrorizzate, dopo che le forze turche e i loro alleati jihadisti, molti con radici in Al-Quaeda e nelle frange dell’ISIS, hanno preso il controllo della città. Gli sfollati attualmente vivono all’aperto, senza beni di prima necessità, come cibo, acqua e latte in polvere per bambini. Malattie come la tubercolosi non sono solamente presenti, ma si diffondono con una certa velocità e allo stesso tempo c’è una mancanza di medicinali e attrezzature mediche. Le ONG locali, come la Kurdish Red Crescent (KRC) e la Hêvî Foundation stanno tentando con i pochi mezzi che hanno a disposizione di sostenere gli sfollati. A Shahba la KRC ha messo in piedi due campi di accoglienza: Berxwedan e Seredem. Tuttavia non riescono a far fronte a tutte le necessità, soprattutto alla luce della totale inerzia delle ONG internazionali, molte delle quali presenti in Siria. In migliaia ancora vivono all’aperto, sotto rifugi di fortuna costruiti con la plastica.

L’invasione di Afrin non solo ha portato a una massiccia crisi umanitaria, ma aha anche messo in pericolo la democrazia pacifica, multiculturale e radicale basata sulla parità fra uomini e donne e la sostenibilità ecologica in Rojava. L’invasione – con annessa pulizia etnica – era sì rivolta al popolo curdo, ma allo stesso tempo ha colpito anche le altre minoranze etniche e religiose presenti sul territorio, come gli Yazidi ed i Cristiani, i quali sono attualmente sottoposti a conversioni forzate all’islamda parte delle forze turche e degli jihadisti alleati. L’occupazione turca ha delle implicazioni a livello globale e se da una parte le unità di difesa popolare curde YPG e YPJ sono state quelle hanno ottenuto i maggiori successi nella lotta contro l’ISIS, dall’altra dopo quello che è successo ad Afrin ora sono impegnate a proteggere i civili e questo purtroppo comporta un preoccupante aumento delle attività di Daesh.

Davanti al continuo silenzio della comunità internazionale che non ha condannato l’invasione turca di Afrin, davanti al fallimento delle organizzazioni umanitarie internazionali che non si sono mobilitate per fornire aiuti umanitari ai civili sfollati, tutti i gruppi, gli attivisti e associazioni di solidarietà hanno lanciato una chiamata globale e un invito a partecipare alla campagna “SiAmo Afrin” “We Are Afrin).

La campagna vede la partecipazione di due importanti Ong: una italiana, il GUS (Gruppo Umana Solidarietà) e una in Rojava chiamata Hêvî Foundation. La campagna partirà dall’Italia il 25 aprile in coincidenza con il 73 ° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, e punta a diffondersi a livello globale; si concluderà poi con una delegazione internazionale che punta ad arrivare in Rojava il 2 giugno per consegnare i fondi raccolti.

Gli obiettivi della campagna sono:

–          Raccogliere fondi per gli sfollati di Afrin

–          Condannare il silenzio globale e l’inattività del governo

–          Condannare la mancanza di aiuti internazionali ad Afrin

–          Inviare una delegazione internazionale di solidarietà a Rojava

–          Evidenziare l’ipocrisia mediatica silente su quanto successo ad Afrin.”

 Inoltre per sostenere la campagna è attivo un croefunding (qui il link:https://www.retedeldono.it/it/progetti/gus/siamoafrin) a cui possiamo contribuire tutt*.

UN PAESE DOVE I NERI VENGONO UCCISI PER STRADA

Firenze. Un uomo, incensurato, di 65 anni, (dopo un sospettabile progetto di
suicidio) decide di incamminarsi armato su ponte Amerigo Vespucci e di sparare alla
prima persona che incontra, ammazzando, Idy Diene, 54enne nero, colpendolo con
sei colpi di pistola.
In apparenza e sui giornali, nessun movente razziale e xenofobo. Il reo ha
successivamente motivato il suo gesto dicendo di essere stufo dei continui litigi con la moglie per un presunto debito di 30.000 euro.
Ma il caso vuole che la vittima sia senegalese. Come Senegalesi erano Samb Modou e Diop Mor che nel 13 dicembre 2011 sono morti sparati nella stessa Firenze, per mano di Gianluca Casseri, militante di Casapound. Il caso vuole, o forse non è del tutto colpa del caso, che quest’omicidio accada a un mese di distanza dalla tentata strage fascista di Macerata, quando Luca Traini, nazifascista legato politicamente alla Lega di Salvini, decide di fare giustizia sul tragico femminicidio di Pamela Mastropietro sparando a 6 persone, tutte di colore .

La vicenda di Firenze impone la riflessione riguardo alcuni aspetti. In primo luogo, l’omicidio accade in un clima generale di intolleranza, di odio e di razzismo, alimentato da settimane e mesi di campagna elettorale e dichiarazioni pubbliche di chi oggi si appresta a fare, forse, il presidente del consiglio. In secondo luogo, il risultato elettorale di Domenica 4 marzo ci dà l’idea di come in questo Paese si stia diffondendo un sentimento di rabbia e di intolleranza generale, strumentalizzato e continuamente fomentato da quella classe dirigente che poi è risultata vincitrice alle urne.

Non è un caso che la comunità senegalese abbia da subito classificato questo
episodio come fortemente razzista e discriminatorio, a loro va tutta la nostra
solidarietà e appoggio. Non vogliamo lasciarl* sol*, e non perché, ogniqualvolta un immigrato sia vittima di violenza, ci interessi dire la nostra, ma perché la suddetta comunità è riuscita, senza troppa fatica, ad individuare e a sollevare il problema dell’odio razziale che si respira per le strade delle nostre città .

E poco importa se in Senato viene eletto un senatore nero, perché, indipendentemente dal colore della sua pelle, le sue posizioni politche rispecchiano e rispecchieranno direttamente le posizioni di un partito che fino all’altro ieri sosteneva la pulizia di massa strada per strada, quartiere per quartiere, volendo eliminare “gli indesiderati” –così come vengono chiamati i nuovi poveri, tra cui migranti, sex workers, senzatetto- per mettere fine a una situazione che viene presentata come caotica, “di degrado” e fuori controllo.
Un Paese in cui la Lega passa dal 4% al 18%, grazie alla retorica della guerra tra
poveri è un Paese accecato e disorientato. Le cause, possono derivare da molteplici ​fattori: dall’impoverimento generale, dalla mancanza di posti di lavoro, dalle
difficoltà che si hanno nel completare il proprio corso di studi, dalla mala gestione
dei flussi migratori. Tutti questi problemi vengono abilmente strumentalizzati dal
partito xenofobo di turno, che abilmente indirizza il malcontento generale
attaccando il più povero, categoria sociale entro la quale rientra sicuramente la
composizione migrante di questo paese, e in cui rientra anche il pensionato Roberto
Pirrone che ha commesso l’ omicidio.
Andando oltre alla storia personale dell’omicida però, quello che ci preme
sottolineare sono le continue retoriche fondate sulla paura e di conseguenza
sull’odio che identificano di volta in volta il degrado, la sicurezza, la legittima difesa, le migrazioni forzate, come fenomeni sociali il cui capro espiatorio ha sempre la pellescura, e mai bianca (eccetto per il caso delle zecche dei centri sociali), portando così una popolazione a essere perennemente in conflitto con se stessa e a frammentarsi, diventando ultra-individualista e xenofoba, per definizione: paurosa del diverso, e in questo tipo di società il diverso è chiunque. Questi anni di crisi e di feroce sfruttamento delle classi più povere, hanno permesso alla classe dominante e alla stampa sensazionalistica di far diventare la paura un sentimento quotidiano, che sovrasta e disintegra la solidarietà. Più ci spaventano, più alziamo muri e più siamo incapaci di leggere in maniera critica la realtà che ci circonda. Per fare un esempio concreto, durante la protesta legittima dei senegalesi, il problema più grande pare siano state delle fioriere danneggiate, distrutte in seguito ad una rabbia verso l’ennesimo omicidio razziale, ma che la comunità senegalese ha già provveduto a ripagare, attraverso un’autotassazione. Non c’è bisogno di eventi tragici ed “eccezionali” come la morte di un uomo, basta scendere al bar sotto casa, in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città per trovare chi inneggia ed elogia Luca Traini, attentatore di Macerata, dicendo che il suo unico sbaglio è stato quello di non averl* ammazzat* e di aver preso male la mira.

Siamo arrabbiat* perché siamo stanch* di piangere le vittime del razzismo di questo
paese. Siamo convint* che sia necessario e urgente aprire luoghi e spazi di confronto
su questi temi, mettendo in piedi un ragionamento che vada al di là del semplice “è
successo e ne prendo atto”, ma che punti a costruire anticorpi reali al razzismo,
attraverso il confronto e la mobilitazione.

Ci troverete tutti i giorni ai nostri posti a lottare per un mondo diverso, partendo da una via, un quartiere, una città, una scuola, un’università, in cui si abbattono i muri dell’intolleranza e si costruisce solidarietà e accoglienza.
Per questi motivi rilanciamo l’assemblea universitaria antifascista antirazzista e
antissessista il 12/03 alle ore 18.00 a sociologia in aula 10. Una nuova possibilità di combattere il razzismo sta nascendo all’interno dell’università di Trento e noi siamo pront* a cogliere questa sfida e a sostenere questo percorso.

A FIANCO DELLE VITTIME DEL TERRORISMO FASCISTA

Lo stile potrebbe essere avvicinabile a quello dell’ISIS, ma la matrice è di natura puramente nostrana: fascista e razzista. Non che l’ISIS non sia allo stesso modo una forma di fascismo ma la tentata strage di Macerata, per mano (e proiettili) di Luca Traini, trova fondamento nella cultura d’odio e intolleranza che si respira nelle strade e sui mezzi d’informazione, da fin troppo tempo. Occorre allargare lo sguardo e uscire dalla dinamica personale che ha portato l’ex candidato leghista marchigiano a sparare a Jennifer Odion, Nigeria, 25 anni; Mahamadou Toure, Mali, 28 anni; Wilson Kofi, Ghana, 20 anni; Festus Omagbon, Nigeria, 32 anni; Gideon Azeke, Nigeria, 25 anni; Omar Fadera, Gambia, 23 anni.
Per farlo partiamo proprio dai nomi delle vittime, dimenticate e ignorate nei giorni successivi dalla maggior parte dei media e dalle istituzioni, salvo poi cominciare passerelle elettorali al capezzale di chi quotidianamente viene accusato di essere responsabile di tutte le nefandezze della penisola: mancanza di lavoro, violenza sulle donne, problema abitativo, disuguaglianza giuridica.
La politica e le sue rappresentanze non riescono ad assumersi la paternità di queste problematiche, ma lascia che altri incolpino gli ultimi. Nessuna scusa è stata portata a loro, nessun politico, testata o singolo giornalista si è assunto la responsabilità di aver permesso che il concime che ogni giorno esce dalle bocche dei fascisti, dei razzisti -e dal confronto democratico con loro- finisse cosparso sul terreno in cui è maturato il frutto dell’azione di Luca Traini. Ma è lo stesso sudicio terreno in cui si radicano le politiche securitarie di un governo PD, che attraverso il suo Ministro dell’Interno dichiara che “non ci si può fare giustizia da soli”, suggerendo come si dovrebbero considerare colpevoli di qualcosa tutti quelli con la pelle scura, ma che loro ci stanno già pensando: c’è il Decreto Minniti-Orlando votato a cacciare legittimi richiedenti asilo dai progetti d’accoglienza e utile a marginalizzare ogni persona o realtà indesiderata dai lucidi centro-città a colpi di DASPO urbani. Ma c’è anche l’infame accordo con la Libia, che legittima campi di concentramento sulle coste del Mediterraneo e dona soldi e mezzi a bande armate che sparano sui barconi. Su questo infatti si dovrebbe trovare d’accordo anche Matteo Salvini, che condanna la violenza sempre. Ma se ieri sparare era legittima difesa, oggi diventa una conseguenza dell’esasperante scontro sociale, creato anche e soprattutto da lui.
Alla fine è successo, era solo questione di tempo. Il primo attentato in Italia nei confronti di inermi persone disarmate è avvenuto. È per questo che Forza Nuova si è subito schierata a sostegno dell’attentatore, portandogli l’onore che solo certi camerati che sparano alle spalle possono permettersi. Nulla di nuovo insomma. Il terrorismo fascista esiste da decenni, e la runa Wolfsangel tatuata sulla scatola vuota (o piena di letame, a seconda delle prospettive) che Traini porta sul collo ce lo ricorda bene: il simbolo che dalle SS porta al gruppo terroristico fascista degli anni ’80 Terza Posizione è ben noto a Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova e Terza Posizione nella quale militò giusto gli anni necessari a partecipare a qualche strage prima di farne 19 di latitanza assieme a Mario Adinolfi, anche lui di Terza Posizione, ora ideologo di Casapound. Forse però tutte queste cose messe insieme hanno fatto passare la voglia ai giornalisti di usare laparolaconlaF, nel mentre che raccontavano dettagliatamente della mano a paletta che usciva dal tricolore sotto al monumento ai caduti di Macerata in cui ha deciso di farsi arrestare uno che 80 anni fa la guerra l’avrebbe condotta contro gli ebrei. Dal terreno concimato da questo tipo di letame che ogni giorno viene legittimato da questa democrazia nostalgica, il primo frutto marcio è venuto alla luce, ed era pelato.
Occorre riprendere a calpestarci sopra per non permettere che altri piccoli diglett infestino il suolo.
Per farlo bisogna liberare la terra dai germi, abolendo la schiavitù dell’uomo sull’uomo che sfrutta, impoverisce e reprime chi non conosce gli strumenti per la propria emancipazione. Chi studia è privilegiato, e può venirne in possesso. In un sistema dell’istruzione classista che non permette l’accesso libero e gratuito ai saperi, chi ha la possibilità di studiare deve prendere coscienza della responsabilità che gli è affidata. Gli strumenti culturali necessari all’opposizione di ideologie intolleranti e ignoranti si acquisiscono nelle aule, per poi metterli a disposizione di chi viene escluso dalla catena di distribuzione della ricchezza protetta dai fascisti. Solo un’emancipazione culturale può davvero regalare le prospettive di un futuro che sia affrancato dai fascismi. Ma quel giorno non è oggi.
Quel futuro è tutto da costruire, di quegli strumenti ci dobbiamo ancora riappropriare. Cominciamo a farlo, partendo dalle aule e dalle piazze, a fianco delle vittime di Macerata, sabato 10 febbraio, di fronte alla facoltà di Sociologia, ore 15.00.

Da Lettere alla Scaletta, lo stesso paradigma escludente.

Al secondo piano della Facoltà di Lettere e Filosofia esposte sul lato Ovest sono presenti, tra le altre, due particolari fotografie. 

Entrambe in bianco e nero, rappresentano due momenti di libera aggregazione e socialità studentesca di una Trento ormai lontana nel tempo. La prima è una veduta di piazza S.Maria ripresa a livello del terreno dove si contano numerosi probabili studenti e studentesse sedute per terra con qualche birra in lattina, magari accompagnata da un buon numero di sigarette. L’altra è un’istantanea della folla che si radunava in Vicolo Colico, davanti all’Ex bar Accademia, dove spesso si rimaneva irretiti e costretti a rallentare il passo per poter procedere oltre.

A fianco di queste due fotografie, poco più a sinistra, sono presenti i bagni dell’ateneo. Sulla maniglia della porta di questi, come di altri servizi della facoltà, ci sono i dispositivi di lettura del badge universitario, che permettono o meno l’accesso. Praticamente per andare a pisciare è necessario esibire un documento.

Ebbene, cosa lega una porta ad apertura elettronica con due fotografie in bianco e nero appese ad un muro nemmeno troppo in vista? Vediamo di procedere con ordine, partendo dalla porta, per poi aprire un portone. 

Lo scorso 3 Dicembre, dalle pagine di un noto quotidiano locale1, il Direttore di Dipartimento di Lettere e Filosofia Fulvio Ferrari spiegava i motivi di un provvedimento preso in seguito ad un fatto accaduto qualche tempo prima: un eroinomane era stato rinvenuto in una pozza di sangue dentro ad un bagno della facoltà. In seguito a questo fatto, 15 bagni su 20 sono stati chiusi, lasciando “accessibili” solamente quelli con apertura elettronica tramite badge che, in caso di momentaneo smarrimento, poteva essere sostituito dall’esibizione di un documento d’identità presso la segreteria. Succede così che un gruppo di studenti di lingue moderne si lamentino di questo provvedimento, chiamando in causa il Corriere del Trentino, che a sua volta chiede spiegazioni a Ferrari il quale dice che quello dell’eroinomane è solo l’ultimo di una serie di episodi “sgradevoli” che costringono a chiudere i bagni. Gli studenti in questione infatti danno corda e rincarano dichiarando che di “frequentazioni a rischio di persone poco per bene, quali eroinomani o prostitute² che spesso si trovano nelle panchine al di fuori dell’edificio” se ne vedono fin troppe. Tant’è che “l’ultima cosa desiderata -da Ferrari- era quella di militarizzare l’ateneo” ma che per loro “anche se il Dipartimento è un luogo pubblico questo non vuol dire automaticamente dire che ci possa entrare chiunque” e che pertanto “sarebbe opportuno che chi di competenza prendesse seri provvedimenti, che vadano al di là della chiusura dei servizi igienici”. A queste si aggiungono le dichiarazioni allucinanti³ del sindacato studentesco, l’Udu, che assieme al rappresentante degli studenti di Lettere, Masseo Purgato, dichiara: “Il consiglio è quello di farsi il badge”. Quindi Crotti, presidente del consiglio degli studenti: “Se il Comune non interviene in modo fermo per risolvere la situazione di degrado in cui versa la zona della Portella e Santa Maria, dove è situato il dipartimento, noi possiamo fare bene poco, se non presidiare gli spazi.”
Dichiarazioni che sembrano quasi suggerire l’attuazione di una sorta di Daspo Accademico -se non urbano- nei confronti degli indesiderat*. Interessante cambio di rotta rispetto alle posizioni antibadge che nel 2014 solcavano tra Udu e Atreju un divario che in campagna elettorale faceva comodo mantenere.
Ora, premettendo che eravamo rimast* a quando “pubblico” voleva dire di tutt*, ci rattristiamo ancora una volta nel vedere come sex worker e tossicodipendenti vengano trattati da pericolosi criminali “poco per bene” che minacciano la sicurezza e la tenuta democratica dell’ateneo tutto a tal punto da richiederne l’allontanamento con “seri provvedimenti”, dopo aver negato loro l’accesso ai bagni. A questo punto però, immaginando già la polemica sterile pronta a sentenziare a riguardo, è doveroso per noi concedere che ritrovarsi una persona in una pozza di sangue nel bagno non sia una situazione facile da affrontare. Tuttavia ciò che più turba i nostri brevi sonni non è tanto la risposta repressiva e punitiva dell’istituzione-università che, come ha già sottolineato Ferrari, adotta una soluzione tampone, ma è l’approccio degli studenti e delle studentesse alla questione. L’assenza di un’interazione critica orientata alla comprensione, che dovrebbe spingere a interrogarsi sul perché l’ateneo sia frequentato non solo da student*, è figlia di un distaccamento dell’Università dai problemi sociali. A onor del vero, un radicale sovvertimento della società e delle istituzioni è stato perseguito da studenti e studentesse in passato. Ma, se è vero che l’Ateneo in primis ha in più occasioni cercato di inquinare e depotenziare la memoria storica e collettiva della contestazione del ’68 che partì proprio dall’occupazione del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale nel ’66 (la prima in Italia), dall’altra parte non è perdonabile che la componente studentesca che tutti i giorni attraversa il piano terra di Lettere non si interroghi sui motivi delle agitazioni raffigurate nelle gigantografie dell’epoca. Ve n’è una in particolare di Giorgio Salomon esposta nell’atrio di Lettere: gli ultimi due a destra sono Marco Boato e Mauro Rostagno.

La memoria collettiva ricorda come studenti e studentesse di allora avessero a cuore proprio il tema del sapere: come viene elaborato, trasmesso, a cosa e a chi serve, quali i suoi rapporti con la società e con il potere. Sorge quindi spontaneo chiedersi quando l’impeto d’indagine critica della realtà sia stato ucciso dentro l’università. Forse quando si è preferito affiggere Rostagno sui muri di Lettere, salvo poi relegarlo al secondo piano di Sociologia. Quand’è successo che gli studenti e le studentesse, oltre che l’Università come calderone di saperi, hanno cominciato a chiudere gli occhi di fronte alle dinamiche che portano alle dipendenze o ai ricatti giocati sui corpi delle donne che lavorano davanti alla facoltà? Forse quando studiare è diventato un mezzo e non un fine. Un mero passaggio di acquisizione nozionistica per poter ottenere CFU.

Da qui si apre il portone. Il bianco e nero che tinge gli ormai ex frequentatori e frequentatrici di Santa Maria e della vecchia Accademia è lo stesso che tinge le prime linee di Rostagno e Boato. La scelta stilistica sembra quasi voler suggerire la medesima dislocazione temporale di due momenti in realtà separati da una manciata di decenni: il passato. La piazza che una volta era affollata da studenti e studentesse sedut* a sorseggiare birra d’asporto oggi è perennemente vuota, eccetto durante il periodo natalizio. Come scomparsa è anche la gioventù che riempiva Vicolo Colico e che ora invece riempie le cantine del nuovo locale. Per divertirsi a Trento occorre andare sottoterra. Lontano dagli occhi, lontano da tutto. Pertanto chi, tra gli studenti e le studentesse, si azzarderebbe oggi a dire che l’ennesima limitazione di un’attività commerciale (come la Scaletta) a causa del “degrado” studentesco sia giusta? Qualche manciata di firme è stata sufficiente per imporsi su un più grande numero di utenti dell’unico bar non sotterraneo aperto dopo le 22.00 e costantemente frequentato. Non è poi così distante il momento in cui a fianco di Santa Maria e a Vicolo Colico verrà affissa anche la foto della Scaletta piena. Sia chiaro: lungi da noi tutelare l’immagine e il nome di un’attività commerciale che in fin dei conti mira solo a far soldi e che della condizione studentesca poco gliene cale. Potrebbero esserci centinaia di settantenni ubriach* in via Santa Maria Maddalena, e non cambierebbe di molto. La socialità studentesca non si dispone attorno alla frequentazione di attività commerciali, ma al contrario è la presenza di universitar* nelle strade che favorisce i bar e i circoli. Anzi, li tiene proprio in vita.
Tuttavia, non si può però a questo punto non puntualizzare riguardo a queste dinamiche repressive: l’attacco ad eroinomani e sex worker in un’università e la marginalizzazione di studenti e studentesse dalle vie notturne della città sono approcci escludenti. C’è una continuità nelle pratiche repressive messe in campo dalle istituzioni che detengono il potere amministrativo e politico degli spazi pubblici (Comune e Università). Le misure adottate non tengono conto dei bisogni e delle necessità delle persone, oltre che delle dinamiche sociali ed economiche che costringono a vivere in strada o sotto ricatto. Chi studia invece, chi indaga la realtà, chi si interroga e non accetta una trasmissione mummificata del sapere dovrebbe farlo. C’è bisogno, oggi più che mai, di rimettere in discussione temi cruciali del sapere e del potere. È una necessità impellente, che fa mancare il respiro. Con quale legittimità ci si può oggi lamentare della chiusura di un bar a causa della “molestia alcolica” procurata mentre allo stesso tempo si auspica un’espulsione di soggetti sgradevoli dalle nostre facoltà? L’università e il comune stanno applicando lo stesso paradigma di esclusione degli indesiderat*. Solo che vi è un cortocircuito, una miopia, una contraddizione di pensiero quando si applicano due atteggiamenti diversi davanti ad un’unica e uguale repressione. Non la si può legittimare da un lato e condannarla dall’altro. Serve riacquistare una coscienza studentesca, che nasca dalla condivisione di saperi e opinioni e che sappia indirizzare la propria rabbia verso l’alto, verso chi ogni giorno perpetua un giogo fatto di restrizioni e aumenti delle spese, non verso chi sta peggio. C’è un filo rosso che colora il bianco e nero delle fotografie di Rostagno e di Santa Maria ed è il filo che solo una componente studentesca ribelle, critica e consapevole sa tessere. Non siamo numeri di matricola, non siamo solo utenti di un bar, non siamo portafogli da svuotare in tasse e affitti. Siamo corpi e teste pensanti e come tali pretendiamo di avere voce in capitolo su come viviamo la nostra quotidianità, ma soprattutto su come vivremo il nostro futuro.
Il primo filo è stato teso, il prossimo lo intrecceremo nelle lotte.
NOTE:

(1) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171203/281530816348673

(2) Da questo punto in poi sostituiremo il termine prostituta con quello di sex worker in ragione dei seguenti motivi:

  1. Etimologia del termine prostituta, dal latino prostĭtŭĕre: 1. mettere davanti, esporre 2. prostituire 3. disonorare. L’ultima voce suggerisce un’accezione marcatamente negativa del termine.
  2. Il termine sex worker non si connota moralmente, né dal punto di vista di genere (diversamente potremmo dire invece per l’italiano lavoratrice/lavoratore del sesso), include il riconoscimento di un’attività che investe tempo ed energie (lavoro) anche se spesso priva di tutele, contratto e salario.

(3) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171124/281535111298125