DASPO URBANO? Capiamoci qualcosa

DASPO URBANO

Il seguente testo non ha la pretesa di essere un’analisi organica ed esaustiva sulla questione del Daspo urbano quanto piuttosto vuole essere un contributo alla discussione su questo strumento repressivo. Con questo piccolo documento abbiamo voluto condividere con tutt* voi le nostre discussioni e analisi sul Daspo e sui dati politici che siamo stat* in grado di individuare come Collettivo Universitario Refresh

Da alcune settimane il dibattito politico cittadino si è concentrato sulla proposta d’introduzione della misura del Daspo urbano nel regolamento di polizia municipale di Trento. Sulla scia delle polemiche scatenate dagli incontri di boxe non autorizzati, tra bande di spacciatori in Piazza Dante, dalla fine di Giugno abbiamo assistito all’ennesimo teatrino dell’assurdo da parte della politica trentina sul tema della sicurezza, che ha ridotto un serio problema sociale a una mera questione di ordine pubblico diventando l’ennesima occasione per le diverse forze politiche per alimentare la campagna elettorale permanente che a Trento si combatte sul falso problema della cosiddetta sicurezza urbana e del degrado. Sorvolando per questioni di decenza sulle aberrazioni con le quali i diversi esponenti sia di destra che di sinistra hanno alimentato un sentimento di insicurezza che da troppo tempo serpeggia tra le e gli abitanti della città, il sindaco Andreatta, pressato dall’insofferenza del Prefetto, del Questore e dei suoi alleati, ha partorito l’idea di applicare il Daspo Urbano che prevede l’allontanamento dei soggetti indesiderati da un’area delimitata di città.

Dal Daspo sportivo al Daspo urbano. L’evoluzione dello strumento repressivo

In seguito all’approvazione della legge Minniti-Orlando, in Italia esistono diverse tipologie di Daspo, siano esse previste dalla legge oppure sperimentazioni fatte a partire da quest’ultima. Allo stato attuale si possono individuare tre tipi di Daspo. Il Daspo sportivo, il primo ad essere applicato, il Daspo di piazza e, ultimo ma non meno importante, il Daspo urbano.

Il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive (DASPO) è una misura prevista dalla legge italiana al fine di contrastare il fenomeno della violenza durante le manifestazioni sportive, in particolare durante le partite calcistiche. L’esigenza di contrastare la violenza durante le manifestazioni sportive sorse dopo i tragici fatti che caratterizzarono la finale della Coppa dei campioni del 1985. Il 29 maggio di quell’anno, mentre Juventus e Liverpool si affrontavano per la conquista del titolo allo stadio di Bruxelles, la violenza degli ultrà della squadra inglese causò la morte di 39 tifosi, quasi tutti italiani. Quest’episodio scosse l’opinione pubblica a livello europeo e condusse all’elaborazione e alla firma, avvenuta il 19 agosto 1985 a Strasburgo, della Convenzione Europea sulla violenza e i disordini degli spettatori durante le manifestazioni sportive, segnatamente nelle partite di calcio. La Convenzione Europea in questione si pone l’obiettivo specifico della prevenzione e controllo non soltanto dei fenomeni durante le partite di calcio ma anche inerenti agli altri sport e manifestazioni sportive, tenuto conto delle loro esigenze specifiche in cui si temano, appunto violenze o disordini degli spettatori. La Convenzione pone un punto fermo sulle modalità di elaborazione e di attuazione di tali provvedimenti, enfatizzando una maggiore presenza dei servizi d’ordine” e l’adozione, nel caso in cui o si ritenga opportuno, di una legislazione che commini pene appropriate o, all’occorrenza, provvedimenti amministrativi appropriati alle persone riconosciute colpevoli di reati legati alla violenza o disordini degli spettatori. La Convenzione Europea entrò in vigore in Italia l’1 gennaio 1986, ma la legge che sancì l’introduzione del Daspo sportivo fu la legge 13 dicembre 1989 n. 401, ad essa ne seguirono altre che perfezionarono gli strumenti di controllo da applicare sui i tifosi e sulle curve calcistiche, trasformando gli stadi in laboratori in cui sperimentare forme sempre più efficaci di repressione. La Legge n.401 del 13 dicembre 1989 prevede l’utilizzo dello strumento del Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive (DASPO) che vieta al soggetto ritenuto pericoloso di accedere ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive, siano esse ad elevato grado di rischio o meno. Questo tipo di misura consiste in un provvedimento del Questore che, senza alcuna pronuncia giudiziaria, impedisce ai tifosi ritenuti pericolosi di andare allo stadio per un periodo che va da uno a cinque anni. Il carattere preventivo di questa misura ha sempre suscitato proteste da parte della tifoseria organizzata, nonché sollevato dubbi di legittimità costituzionale negli ambienti giuridici, anche se la Consulta, nel 2002 attraverso un suo pronunciamento, ne ha sancito la compatibilità con la Costituzione.

Visti i discreti risultati del Daspo sportivo e la relativa pacificazione degli stadi, negli anni scorsi venne la tentazione a chi ci governa di elaborare uno strumento simile per reprimere il dissenso. Infatti ogni volta che nel corso di una manifestazione si verificano scontri di piazza si evoca l’idea di approvare leggi speciali di prevenzione. Una delle ultime occasioni in cui venne espressa pubblicamente questa volontà fu dopo il corteo No Expo del Primo Maggio 2015 a Milano. In quell’occasione l’allora Ministro degli Interni Angelino Alfano dichiarò che il Governo stava lavorando per elaborare divieti preventivi come avviene per le partite di calcio. Nel caso in cui ci fosse stato un alto grado di pericolosità sarebbe stato proibito sfilare nel centro delle città come avviene quando si impedisce ai tifosi di andare in trasferta. L’ipotesi era quella di estendere ai manifestanti il Daspo con la chiara volontà di applicarlo a livello politico subordinando il diritto al legittimo dissenso ad una valutazione del governo in carica, dando, quindi, al potere un’ulteriore arma di controllo del dissenso capace di allontanare i soggetti ritenuti scomodi e riducendo le manifestazioni di piazza a ordinate e disciplinate sfilate da passerella. Nonostante la proposta del Daspo politico non avuto alcun seguito, le questure italiane hanno iniziato a sfruttare le nuove regole sul Daspo per colpire chi è impegnat* nelle lotte sociali. La nuova regolamentazione fu introdotta con la riforma dell’agosto 2014, in cui è contemplata la possibilità di estendere il provvedimento a “tifosi” denunciati o condannati per reati contro l’ordine pubblico o coinvolti in episodi violenti. Il risultato il Daspo di piazza dal momento che alcune questure hanno disposto il Daspo o avviato procedimenti amministrativi che possono portare a quest’ultimo nei confronti di persone che avevano preso parte a manifestazioni politiche. Possiamo citare almeno due casi. Il primo avvenne a Livorno dove quattro compagni furono denunciati per partecipato alla contestazione contro Matteo Salvini, avvenuta il 14 luglio 2015. Nell’ottobre dello stesso anno, oltre alle accuse di lesioni aggravate e porto d’arma impropria, ai quattro venne recapitata anche una diffida in quanto, secondo la Questura livornese frequentatori abituali dello stadio. Il secondo, invece, avvenne a Pisa dove, nel gennaio 2016, sei compagn* vennero raggiunte dalla diffida per aver partecipato a una manifestazione contro un comizio della Lega Nord, tenutosi il 14 novembre dell’anno precedente, in cui ci furono scontri con la polizia. L’accusa fu quella di aver istigato a delinquere e aver avuto una condotta violenta. Nel caso delle e dei compagn* pisan* il Tar annullò il provvedimento. In entrambi i casi i e le manifestanti sono stat* colpit* da questi provvedimenti in via sperimentale dovendo subire inedite misure di controllo. Questi nuovi strumenti di limitazione della libertà sono stati applicati sui settori più vulnerabili della società e sui quali è più facile la speculazione mediatica e politica.

È in questo contesto che si inserisce il Daspo urbano, partorito da Minniti e contenuto nella Legge 13 aprile 2017 n.46 che mira a prevenire i fenomeni di criminalità diffusa e a promuovere la legalità e il rispetto del decoro urbano. L’ex Decreto sicurezza poi convertito in legge contiene una serie di provvedimenti volti a rafforzare i poteri del sindaco in materia di strumenti a disposizione per garantire la sicurezza sul territorio. Il rafforzamento del ruolo dei primi cittadini su questa materia costituisce un ulteriore passo verso la piena realizzazione della figura di quello, che alcuni anni fa, veniva chiamato sindaco-sceriffo. La norma più importante del pacchetto sicurezza targato Minniti è probabilmente il cosiddetto il “DASPO urbano”, con cui un sindaco in collaborazione con il prefetto potrà multare e poi stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione di aree e infrastrutture pubbliche, viene trovato in stato di ubriachezza, compie atti contrari alla pubblica decenza o esercita abusivamente l’attività di commerciante o di posteggiatore. La definizione è molto ampia e quest’ultima potrebbe essere utilizzata contro diverse tipologie di abitanti del territorio. Inoltre viene introdotto l’arresto in flagranza differita (entro 48 ore) che sarà esteso anche alle manifestazioni di piazza. Nonostante sia da poco entrato in vigore il Daspo urbano è già stato applicato, il primo episodio fu il 25 marzo 2017 quando, in occasione della manifestazione dei movimenti sociali, svoltasi a Roma in occasione dei festeggiamenti del 60° anniversario della firma del Trattato di Roma, venne utilizzato questo strumento per bloccare l’arrivo di un centinaio di manifestanti, tenuti in ostaggio senza alcuna motivazione nel complesso della Questura di Roma. Altri episodi in cui si è vista l’applicazione del Daspo urbano si sono verificati a Napoli e a Saronno.

Il Daspo urbana in salsa trentina

La proposta di Daspo urbano in discussione in questi giorni nel Consiglio Comunale di Trento prevede l’allontanamento per 48 h da una zona perimetrata del centro storico per chi compie atti indecorosi quali il danneggiamento di arredi urbani, i comportamenti lesivi dell’incolumità delle persone, il bivacco e l’occupazione di panchine con comportamenti contrari alla decenza, del decoro e dell’igiene, salire su monumenti e fontane, fare accattonaggio molesto e orinare per strada. La zona della città che deve rispondere a criteri di decoro è quella che indicativamente va da Piazza Dante al quartiere delle Albere

Chi si renderà colpevole di uno degli atti sopracitati verrà prima allontanato dalla zona soggetta a Daspo per un periodo di 48 ore e nel caso in cui non rispetti il decreto di allontanamento verrà sanzionato con una multa che varia da 300 a 900 euro. Se non la pagherà interverrà il questore che potrebbe ordinare il divieto di ingresso nell’area per un minimo di sei mesi.

Perché opporsi al Daspo

Come militanti politici, però, quello che ci interessa sottolineare in questa sede non è tanto il dato tecnico-giuridico che lasciamo volentieri ad altri quanto più il dato politico che, secondo noi, traspare da questo strumento repressivo. L’origine di questo provvedimento risiede nella volontà di combattere il degrado e ristabilire il decoro nelle aree urbane. Come il concetto di degrado, anche il concetto di decoro è una categoria molto ampia che si presta alle interpretazioni più diverse ed è proprio in questo suo carattere flessibile che risiede il primo dato da rilevare, cioè che il concetto storico di decoro diventa un canone stabilito dalle forze politiche in carica che volta per volta possono decidere di usarlo per definire chi è ben accetto e chi no all’interno delle aree del centro, sfruttando questo margine di agibilità per i propri scopi politici. Questa definizione da parte delle forze politiche del concetto di decoro pone in luce alcuni aspetti. Il primo è la valenza esplicitamente politica che assume la misura repressiva del Daspo urbano. Il secondo è la definizione di un palese criterio di distinzione tra i soggetti sociali che vivono la città, che vengono divisi in desiderati, cioè coloro che rispettano i canoni del decoro e sono ammessi a vivere le aree soggette a Daspo, e gli indesiderati. Con questa suddivisione la politica istituzionale si toglie definitivamente la maschera e utilizza un criterio classista, se mai avesse smesso di farlo, mascherandolo con motivazioni “estetiche”, secondo una logica che ricorda molto quella del merito che grazie alle ultime riforme abbiamo visto introdotta nelle scuole superiori. Questa divisione tra desiderati e indesiderati nasconde un aspetto ancor più preoccupante ed è quello della normazione degli stili di vita delle e degli abitanti delle città. Infatti se vuoi poter vivere l’area soggetta a Daspo devi conformarti a un certo codice di comportamento altrimenti fuori, sei espulso. Naturalmente questo codice, sebben in linea generale rivolto a tutt*, in realtà è pensato principalmente per i soggetti sociali “deboli”. Tant’è che il concetto di decoro, come quello di merito, non è altro che un tentativo, a parer nostro maldestro, di camuffare la vecchia e mai abbandonata divisione fatta su base economica. La divisione immateriale basata sul concetto di decoro trova il suo corrispettivo materiale nella divisione dello spazio urbano attraverso l’introduzione di un perimetro all’interno della città, che costituisce un confine interno. La suddivisione tra due tipologie di aree cittadine coincide tendenzialmente con la classica frattura tra centro e periferia andandola a rafforzare. Infatti lo strumento del Daspo urbano si affianca alle misure di gestione dello spazio urbano, come la gentrificazione, che abbiamo conosciuto in questi anni. In quest’ottica il centro città vetrina viene fisicamente “fortificato” approfondendo sempre di più la distanza con la periferia che diventa la discarica dei problemi sociali delle città nella speranza che allontanando le problematiche esse magicamente svaniscano. In questo processo di “fortificazione” del centro cittadino cambia anche il ruolo delle forze dell’ordine che assumono la funzione di esercito di difesa del centro politico ed economico delle città.

Di fronte a questo scenario che molto probabilmente andrà sempre più cristallizzandosi, se non è attraverso l’azione di Minniti lo sarà con l’azione di altri politici che hanno fatto del securitarismo e della repressione la loro crociata, sorge il problema di come essere all’altezza dei tempi che corrono e di essere in grado di opporsi efficacemente ai piani scellerati della controparte. Partendo dalle nostre vite, l’unica opzione percorribile, per quanto ardua possa essere, non è piegarsi e concedere terreno ma anzi è quella di far saltare il perimetro, sia esso materiale o immateriale, con il quale vogliono dividere le nostre città e le sue e i suoi abitanti attraverso la rottura come metodo, il conflitto come pratica quotidiana e la militanza come stile di vita.

I compagni e le compagne del Collettivo Universitario Refresh

Contro fascismi e militarizzazione noi scegliamo la socialità libera!

Nel clima di folklore che ha percorso le strade di Trento nelle ultime settimane, tra il Festival dell’economia e i fuochi di S. Vigilio, anche i fascisti di Casapound sono usciti dalle tane per predicare discriminazione e razzismo.

Se lo scorrazzare a piede libero, con coltelli e prurito alle mani, di questi tempi può essere concepito come una forma di sicurezza, noi ne facciamo volentieri a meno. Senza scomodare l’opinione del Dante, che ultimamente ne ha viste di cotte, di crude – e di pelate – ci possiamo trovare invece vicini all’analisi del professor Barnao: non è promettendo pulizie etniche o lanciafiamme che si possono affrontare le difficoltà che piazza Dante pone. Con una mano al cuore e una al manganello, la città di Trento ripiega sull’ordine pubblico per affrontare ciò che di fatto è un fenomeno, e che in quanto tale andrebbe invece studiato ricorrendo ad un’attenta analisi sociologica. Quanto avvenuto in piazza Dante deve fare i conti con la quotidianità di chi la vive. Spesso si tratta di chi viene marginalizzato da politiche sociali miopi e inadeguate, frutto di vuoti culturali che faticano ad indagare le ragioni per cui pezzi di società finiscano nella spirale della criminalità organizzata e dello spaccio.

L’indifferenza genera i mostri – come Casapound – che mercoledì 28 giugno si presenteranno in una piazza Dante completamente militarizzata. In opposizione a tutto questo promuoviamo invece una cultura antifascista e libera capace di esprimersi in tutta la ricchezza dei suoi contenuti affinché non sia dato alcuno spazio a chi della cultura non sa che farsene. 

Abbiamo deciso dunque di esserci anche noi domani in quella piazza e abbiamo deciso di esprimere attraverso la musica il nostro essere antifascisti e antifasciste, per dimostrare come sia sufficiente la semplice socialità libera per rendere i luoghi pubblici più sicuri. Errico Cantamale e Luciano Forlese, accompagnati dalle loro chitarre, renderanno Piazza Dante una piazza finalmente viva, ANTIRAZZISTA E ANTIFASCISTA. 

VI ASPETTIAMO IN TANTI E TANTE DALLE 20.30 IN PIAZZA DANTE IL 28 GIUGNO!!

COMUNICATO SOLIDARIETÀ AL COLLETTIVO UNIVERSITARIO AUTONOMO DI FIRENZE

Ieri, 11 giugno 2017, a Firenze si è verificato l’ennesimo episodio di repressione verso chi si oppone ai tagli al diritto allo studio che si sta verificando negli atenei italiani. Le studentesse e gli studenti del Collettivo Universitario Autonomo di Firenze nella giornata di domenica hanno occupato uno dei tanti stabili che l’UniFi lascia marcire nel degrado e nell’incuria al posto di metterli a disposizione per le necessità delle studentesse e degli studenti. Il rettore Dei, invece di assumersi le proprie responsabilità e confrontarsi con le universitarie e gli universitari su come viene gestito il patrimonio immobiliare inutilizzato dell’ateneo, ha risposto inviando la celere per sgomberare lo stabile e farlo ripiombare nell’incuria e nel degrado da cui il Collettivo Universitario Autonomo di Firenze voleva strapparlo. Nel corso dell’operazione di polizia sono state fermate e poi rilasciate due compagne che erano all’interno dell’edificio. L’occupazione nasce come volontà di risposta e di riscatto rispetto alle politiche che si stanno affermando all’ateneo fiorentino. Infatti il rettore e l’Agenzia per il Diritto allo Studio della Regione Toscana sono responsabili di tagli al diritto allo studio e dell’introduzione di nuove tasse favorendo sempre più in questo modo l’introduzione e l’affermazione nell’università di una logica classista da selezione naturale in cui chi può permettersi di pagarsi gli studi di tasca propria, senza gravare sugli enti pubblici per il diritto allo studio, può accedere alla formazione universitaria mentre tutti gli altri e tutte le altre si vedono impossibilitat* a continuare i propri studi dopo l’ultimo anno di scuola superiore.

Come Collettivo Universitario Refresh la nostra solidarietà va al Collettivo Universitario Autonomo. In quanto studentesse e studenti che vivono quotidianamente all’interno dell’università-azienda e che lottano contro di essa sappiamo bene da che parte stare. Stiamo dalla parte di chi lotta, dalla parte di chi si oppone alle politiche neoliberali che stanno distruggendo l’università pubblica, dalla parte di chi si contrappone ai tagli al diritto allo studio e all’introduzione di nuove tasse. Stiamo dalla parte di chi di autorganizza per riappropriarsi di quel welfare studentesco di cui voglio sempre più privarci.

La vostra repressione non ci fermerà. Il tempo del riscatto è iniziato

#OCCUPATIDELL’UNIVERSITÀ

Fuori i fascisti dalla città e dall’università. No alle ronde di Casapound

Nella sera dello scorso 3 maggio, una ventina di militanti di CasaPound hanno deciso di inaugurare la loro nuova campagna “antidegrado” presentandosi in una delle note piazze antifasciste della città: Piazza Santa Maria Maggiore, spesso attraversata da student* universitar*, ma centro delle polemiche (e delle retoriche) cittadine sulla sicurezza. La settimana successiva si è ripetuto il medesimo siparietto grottesco in Piazza Dante (luogo altrettanto dibattuto), un’altra ronda squadrista giustificata dall’instancabile guerra al degrado cittadino; sarebbe forse meglio chiamarla caccia al diverso: all’immigrato, al/alla omosessuale, alla sex worker e in generale a tutt* quell* che non rientrano nello standard di normalità e decoro sancito da CasaPound. Che si tratti di orientamenti sessuali, di precarietà sociale o di colore della pelle, per i neofascisti de Il Baluardo, sempre di “feccia” si parla, e pertanto va allontanata per rendere più sicure le strade cittadine. A seguito di questi due episodi sono state fatte ben altre due ronde, a Roncafort e nella zona del parco di Melta.
Casapound è un partito dichiaratamente neofascista e razzista che professa odio contro i migranti, alimentando un clima di intolleranza fatto di menzogne e strumentalizzazioni. La difesa dell’italianità spazia dal confinamento del diverso all’aggressione fisica e personale. Ce lo mostrano Filippo Castaldini e Maurizio Zatelli, noti aggressori della sezione trentina del partito, soliti ad aggirarsi nella notte armati di coltello, pronti a difendere le strade, senza paura di infilare lame ben dentro alle pance di chi, a loro avviso, è feccia. La scia di sangue e violenze lasciata da questi “bravi ragazzi” si protrae dal 2013, anno di apertura della sede Il Baluardo. Costellata di intimidazioni, azioni squadriste, pestaggi e accoltellamenti, la politica da due soldi che professa Casapound vede come ultima campagna quella del “riempire le culle, svuotare i centri d’accoglienza”. Così come la Lega Nord anche Casapound infatti si è schierato contro l’accoglienza dei venti richiedenti asilo ospitati a Vela, attaccando la struttura che dovrebbe ospitare i/le migranti sul territorio trentino, da sempre solidale e accogliente.

Noi li conosciamo bene e non abbiamo intenzione di lasciare loro alcuno spazio, agibilità politica o militare che sia, all’interno della nostra città. Riteniamo che le strade di Trento, la sua Università e i suoi spazi debbano mantenersi liberi da idee intolleranti, da pratiche squadriste e vigliacche. La paranoia del degrado che assilla il dibattito pubblico, e che funge da pretesto per i militanti di Casapound per scorrazzare liberi per le strade, è in realtà inquinata, distorta e costruita per alimentare la guerra dei penultimi contro gli ultimi, dei poveri contro i più poveri.

Pur senza ignorare la presenza di fenomeni economici e sociali che costringono a vivere in precarietà, non accettiamo che la soluzione sia allontanare, marginalizzare o picchiare chi è abbandonato e represso da una società civile incapace di scagliarsi contro chi, invece, quei fenomeni li ha prodotti. L’attitudine a rinchiudersi nella bolla di perbenismo ipocrita che legittima l’azione di questi facinorosi in nome del decoro urbano e della difesa di libertà che democratiche non sono, ci costringe a considerare colpevoli anche tutti coloro (media, stampa, organi istituzionali, gruppi politici, associazionismo universitario e non) che non si assumono la denuncia e la condanna della presenza di Casapound e simili in città. Riteniamo che gli orientamenti repressivi dell’amministrazione locale e nazionale, l’aumento della militarizzazione per le strade, la diffusione di isterie securitarie siano risposte velleitarie che vagheggiano nel tentativo di eliminare gli/le indesiderat*, allontanare gli/le indesiderabil* e punire i/le dissenzient*.

Occorre invece praticare forme di riappropriazione degli spazi urbani lasciati al controllo poliziesco o squadrista, riempiendo le strade di socialità libera aperta all’incontro, rifiutando logiche d’esclusione e intervenendo laddove chi è emarginato possa trovare sponda per una rivendicazione di maggiori tutele sociali, lotta per i diritti fondamentali e possibilità d’integrazione e autodeterminazione personale e collettiva. La guerra al diverso non dà garanzie di un futuro degno, né tantomeno la discriminazione regala maggiori aspettative di benessere collettivo. Il lavoro, i diritti e la libertà sono egualmente negati da una minoranza di potenti a danno di tutt*.

Casapound ha dichiarato di volersi riprendere Trento, ma non ha fatto i conti con chi ancora crede negli ideali antifascisti e nelle pratiche che vi conseguono. Come student* universitar* riteniamo necessaria una riflessione attenta ai rischi che corrono la città e la sua Università nel momento in cui personaggi e gruppi politici di questo tipo si sentono legittimati ad aggirarsi liberamente per le strade. Non smetteremo mai di considerarci, in quanto student* universitar*, abitanti a tutti gli effetti di Trento e, pertanto, non permetteremo mai che ideali e pratiche veicolate da Casapound e simili, possano mettere piede all’interno degli spazi universitari e cittadini.

VOGLIAMO UN’UNIVERSITÀ E UNA CITTÀ LIBERA DAL FASCISMO, DAL RAZZISMO E DAL SESSISMO.

Allarme gender a UniTn? Ma fateci il piacere!

ACCADEMIA LGBT – Università gender con i soldi UE. Alla lobby gay 1,2 milioni di euro”. In questo modo Patrizia Floder Reitter titola un suo articolo apparso il 4 maggio scorso su La Verità, quotidiano di Maurizio Belpietro, e ripreso integralmente da La Voce del Trentino qualche giorno fa.
In questo articolo, il cui titolo lascia poco spazio all’immaginazione circa il contenuto, si parla di come pare essere arrivato il virus del gender all’Università di Trento, il quale rischia di infettare intere generazioni di giovani menti. Nello specifico, messi sotto la lente di ingrandimento sono tre personaggi, la Prof.ssa Barbara Poggio, l’avvocato Alexander Schuster e l’assessora Sara Ferrari. Quella che è definibile come una vera e propria schedatura di tutti i personaggi in realtà riguarda il ruolo che hanno, almeno a detta dell’autrice dell’articolo, attorno e all’interno al Centro Studi interdisciplinari di Genere (CSG) dell’Università di Trento. Ad essere messi in discussione dall’autrice sono due aspetti principali.
Il primo è il contenuto e le tematiche affrontate dai vari seminari organizzati negli anni dal CSG e dai suoi progetti di ricerca. Nell’articolo infatti la Floder Reitter sciorina tutta una serie di titoli di seminari o riporta virgolettati estrapolati da ben più complesse relazioni, imputando a questi la duplice colpa di propagandare messaggi devianti e di avere una ingenua platea di studenti e studentesse presenti in quanto interessati/e al riconoscimento di un tot di CFU. Secondo l’autrice dell’articolo infatti, parlare di omosessualità, bullismo omo-trans fobico, genitorialità omosessuale o di altre maschilità significa che la platea di ascoltatrici e ascoltatori verrà automaticamente “convertita” ad uno stile di vita omosessuale, deviato, non ortodosso e non tradizionale.
Il secondo aspetto ad essere messo in discussione è il finanziamento dei seminari e delle ricerche del CSG, fondi che spesso (e fortunatamente) sono pubblici, siano essi provenienti dall’UE, dalla Provincia o dal Comune. La Floder Reitter infatti considera il finanziamento a tale campo di indagine accademica e del CSG come un finanziamento alle “lobby gay” le quali hanno tutto l’interesse di infilarsi all’interno del sistema della pubblica istruzione per deviare giovani menti.
Questo il senso dell’articolo, vaneggiamento più, vaneggiamento meno.
Chiariamoci: da La Voce del Trentino e da La Verità non ci aspettiamo del giornalismo decente, qualsiasi cosa questo significhi. Ci aspettiamo menzogne travestite da notizie utili alla propaganda politica di qualche destrorso di turno o a veicolare e incrementare un clima generale di bigottismo, intolleranza, odio fra poveri e paura. Ciò detto, la lettura dell’articolo ci spinge a prendere una posizione per due ordini di motivi. In primo luogo, sebbene siamo consapevoli che questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi e aspre critiche che il CSG ha dovuto subire negli ultimi anni e di un clima di terrore generico in Trentino sull’allarme gender, è anche vero che questa notizia va ufficialmente oltre i confini della provincia autonoma e sbarca sul nazionale… per quanto il giornaletto di Belpietro probabilmente avrà una manciata scarsa di lettrici e lettori (o almeno ci auguriamo che sia così). In secondo luogo, le parole della Floder Reitter, per quanto deliranti e visionarie, attaccano in ogni caso la produzione accademica, la professionalità e la disponibilità di professionisti e professioniste del CSG che abbiamo anche avuto modo di incrociare non poco tempo fa, durante lo sciopero dei e dai generi dell’otto marzo. E questo non può starci bene. Perché se è vero che il campo di indagine di genere può non piacere o non interessare, ricamarci dietro arzigogolati discorsi di educazione alla devianza e finanziamento delle lobby gay significa attaccare la ricerca accademica (oltre che essere folgorati, diciamocelo). E non un tipo di ricerca qualunque ma quella che si interroga profondamente sulle dinamiche di genere e spesso prova anche a delineare dei piani per superare pregiudizi e abbattere muri, dentro e fuori l’accademia. Strumenti che possono piacere o meno, possono essere criticati o osannati, ma comunque è un tipo di ricerca dinamica che se è vero che prende dal pubblico, anche in termini economici, è vero anche che si propone di restituire qualcosa di utile alla comunità di riferimento, concependo così anche la ricerca accademica stessa in un altro modo, non come un qualcosa che sta nelle più alte stanze di una torre d’avorio ma come qualcosa che può essere, insieme ad altro, fattore di cambiamento e rinnovamento. Questo fa il CSG e questo fanno molti ricercatori e ricercatrici che lavorano sulle questioni di genere. E questo ci piace. E va difeso, anche dai vaneggiamenti di una “giornalista”.
Inoltre, se non piacciono i finanziamenti pubblici a questo tipo di ricerca inevitabilmente dobbiamo riprendere un discorso che ai/alle neoliberali non piacerà molto. La ricerca DEVE essere pubblica. E basta. Perché peggio che vedere fondi pubblici usati per un tipo di ricerca che qualche mente bigotta stigmatizza, c’è vedere fondi e strumenti pubblici, in combo con grossi nomi di privati, finanziare e fare ricerca su robe seriamente dannose. Le stesse che poi sedicenti esportatori di democrazia o difensori di valori patriottici utilizzano per fare la guerra al primo nemico-costruito di turno, col solo scopo di continuare a far funzionare l’industria della guerra che, quella sì, ingrassa tasche e pance di pochi.

Per quello che vale, ci schieriamo con il CSG e la ricerca di genere, ci schieriamo con chi dentro l’università prova a rivedere il mondo con occhi diversi, provando a disinnescare pezzo dopo pezzo le strutture di potere relazionali, e non, che derivano dal semplice binario maschio/femmina. Ci schieriamo con il CSG perché prima di andare a fare i conti in tasca ad alcuni personaggi che provano ad educare alle diversità, ci piacerebbe che sedicenti “giornalisti/e” alla Floder Reitter andassero a inchiestare e a ficcare il naso lì dove si ricerca e perfezionano gli strumenti di guerra. Infine ci piacerebbe anche che la difesa di una certa parte di accademia, libero pensiero, libera ricerca venissero difesi dall’intera comunità universitaria. Perché, per quanto ci riguarda, una buona università non è fatta di ranking e cerimonie patinate. Una buona università è fatta dal sapere critico. In quanto studenti e studentesse universitarie abbiamo preso una posizione. Lasciamo il passo ad altri e altre.

La libertà di espressione non si arresta, Gabriele libero!

Mentre un’opposizione ridotta all’osso accusa il governo di brogli e chiede l’annullamento del referendum, la commissione elettorale, forte dell’irreversibilità del “voto popolare”, pesta le mani alle arrancanti voci contrarie confermando i risultati della consultazione. Il tappeto rosso sembra ora srotolarsi su un terreno già solcato o, più precisamente, consunto.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si congratula con Erdoğan per l’ottimo lavoro. L’Osce grida “al ladro!”. La diplomazia italiana gioca al telefono senza fili con Ankara affinché un giornalista ignorato dalla stampa nazionale venga rispedito al mittente, possibilmente privo dell’elegante cappotto di legno all’egiziana.

A Istanbul si protesta contro la costituzionalizzazione di una dittatura e in Italia si cerca di ricomporre un puzzle degno di solidalizzare con il connazionale arrestato il 9 aprile. In questo giorno infatti Gabriele Del Grande, documentarista indipendente e regista di “Io sto con la sposa”, è stato arrestato in Turchia, precisamente ad Hatay, con accuse deboli e pressoché insostenibili. La verità la conosciamo bene, è la stessa verità di Giulio Regeni, è la stessa verità degli accademici arrestati e della repressione che vive il mondo della ricerca e della formazione. Quanto successo a Gabriele Del Grande non è nulla di inaspettato: la sua vicenda si svolge su un terreno già saturo di inquietanti presupposti; un terreno pronto al totalitarismo che non ha mai esitato a rendere manifeste le proprie intenzioni. La totale sospensione delle libertà democratiche a cui hanno fatto seguito migliaia di arresti finalizzati ad imbavagliare bocche scomode, non è certo un fatto nuovo.

È tristemente noto a tutti come dopo il fallito golpe di luglio 2016, circa 1600 tra professori, presidi e rettori universitari (tra cui quello di Ankara) siano stati licenziati, allontanati o incarcerati. Con la purga delle università, si è consumata anche quella delle emittenti televisive, seguite dagli arresti dentro le sedi giornalistiche, poi chiuse per sempre.  La fobia gulenista sembra aver mostrato -sotto la spinta di rivalsa post golpista- una prassi di conquista del potere e di deriva autoritaria che le dittature del XX secolo ci mostrarono ben prima che il mondo oggi si svegliasse con un Erdogan dittatore dopo voto democratico. Si sta parlando dell’annullamento dell’opposizione, della repressione della libertà d’espressione, di stato di polizia permanente nei grandi centri urbani, di propaganda mistificatoria, fino ad arrivare al taglio delle teste pensanti dentro le scuole e le università. E con la proposta di reintroduzione della pena di morte, il taglio di queste teste è probabile che diventi molto di più di una macabra metafora.

Una dittatura si è confezionata sotto ai nostri occhi e non possiamo negare l’indifferenza con cui ne abbiamo osservato la genesi. La maggioranza risicata che ha regalato a Erdoğan la vittoria ha incorniciato una sequenza di eventi che affonda le proprie radici ben oltre la scadenza del 16 aprile e ben più a fondo rispetto al golpe del luglio 2016.

È evidente come non siano state certo briciole a suggerire la via di una deriva totalitaria della Turchia di Erdoğan: i crimini perpetrati contro la minoranza curda e contro i migranti, i numerosi arresti che hanno mutilato l’ambito accademico, l’ondata di repressione e l’aria di censura non sono indizi da poco. Ma, come spesso accade, nessuno si accorge delle suole sozze dell’invitato finché questo non varca la soglia con le scarpe sporche di merda.

E quanto spesso tra i massimi organi dello Stato -e in generale dentro le democrazie europee- ci si è turati il naso davanti ad accordi commerciali con tale sanguinario dittatore o davanti all’emergere di nuovi fascismi in proprio seno? Nel richiedere la liberazione di Del Grande ci ricordiamo che la libertà di ricerca accademica, come la libertà d’espressione, non sono suppellettili che una democrazia può scegliere se includere o meno nella propria struttura di diritti fondamentali tutelati.

Di quanti Giulio Regeni abbiamo bisogno per prendere una posizione decisa nei confronti delle derive autoritarie che si stanno confezionando sotto ai nostri sguardi imbambolati?