Riflessioni a freddo sull’adunata degli alpini

La scorsa settimana la città di Trento era in fermento. Si è registrata un’affluenza da record con persone venute da ogni dove per prendere parte alla 91 esima adunata degli alpini. Le stradeerano invase da cori, stand e locali aperti 24h e da un senso di machismo dilagante. Pare infatti che buona parte dei partecipanti avesse deciso di aderire all’iniziativa non solo per sfoggiare il proprio orgoglioso senso d’appartenenza al corpo militare ma anche per sfoggiare orgogliosamente tutta la propria maschilità negativa.  In quei giorni infatti non è stato raro camminare per le strade senza imbattersi in molteplici sguardi viscidi, avvertendo improvvisamente la sensazione di essere diventate carne da macello a causa della libido altrui. Non è stato raro essere fermate per commenti inopportuni e indesiderati, che pare necessario e doveroso esternare anche quando non è palesemente richiesto. In quei giorni però il famoso concetto di “decoro urbano” era improvvisamente scomparso dalle strade e di questi ed altri episodi non vi era neppure l’ombra di dibattito tra l’opinione pubblica. Tutto è stato sommerso e dimenticato perché qualcosa bisogna pur sopportare per il bene e il lustro del territorio. La città ha visto anche un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine a garanzia dell’ordine pubblico, tra cui però questi episodi non sono sembrati nemmeno rientrare. Prima di uscire con questa riflessione abbiamo voluto prenderci il nostro tempo per riflettere e confrontarci e ora ci troviamo a chiederci dove siano finiti i vari slogan che qualche anno fa inneggiavano alla tutela delle “nostre” donne dall’invasore se poi il pericolo si manifesta sotto le sembianze di un uomo bianco e in divisa. Rimane solo il dispiacere di non aver potuto godere liberamente di un momento di festa collettivo e condiviso senza dover essere soggette, ancora una volta, alla mercificazione del proprio corpo che viene percepito unicamente come un oggetto da cui trarre soddisfazione per il proprio piacere personale. Certi episodi non dovrebbero mai verificarsi, indipendentemente da sesso, razza ed etnia. Eppure divengono ancora più gravi e ingiustificabili quando a compierli sono proprio determinate categorie.

Vogliamo anche condividere la testimonianza di una ragazza, studentessa universitaria, che ci è arrivata via mail e che pensiamo possa trasmettere i sentimenti delle donne in quei giorni.

ESSERE DONNA MULATTA IN TEMPI DI ADUNATA-riflessioni dal margine

Maggio 2018. Trento, sicura, silenziosa, regina di decoro urbano si prepara ad accogliere 600000 militari e simpatizzanti smaniosi di sfilare per giorni a passo di marcia.

Da settimane la città è in fermento, i camion di bitume rompono i silenzi notturni, squadre di pompieri vengono arruolate per onorare la patria e adornare la le facciate di bandiere tricolore, anche la bella e ormai succube sede di sociologia si veste a festa e da il ben venuto agli alpini. Allora via le bici, disinfetta i parchi da migranti e accattoni, scattano ordinanze su ordinanze speciali. 10 maggio è tutto pronto.

La città è luccicante e disposta a delegare interamente l’ordine pubblico all’organizzatissimo Corpo degli Alpini, legittimati in ogni loro azione dal semplice essere forze dell’ordine e di conseguenza affidabili, solidali, caritatevoli rappresentanti dell’ordine costituito.

Il capoluogo si trasforma in cittadella dell’Alpino, come per ogni grande evento il capitalismo si traveste per l’occorrenza e subdolo si appropria di ogni cosa. Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro)

Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche che intersecano razza e genere, dando vita ad una narrativa vissuta e rivissuta mille volte nei più svariati contesti. A chi importa il tuo vissuto, a chi importa da dove vieni, a chi importa chi sei, chi si ricorda di avere davanti una persona, a chi importa?

Il colore della tua pelle, i ricci ribelli, i lineamenti, l’espressione di genere sono un pass par tout per aprire le fogne , etichette incollate su ogni parte del mio corpo che legittimano qualsiasi forma di violenza razzista e sessista. Non serve altro, il discorso d’odio è servito, è tutto normale, dall’alto del privilegio maschio e occidentale è tutto consentito. Ogni angolo di quell’immenso e pericoloso formicaio era per me trappola e luogo di resistenza, i miei tratti somatici mi tradivano in continuazione, l’autodifesa mi teneva in vita, sempre vigile e attenta.

Al tavolo di ogni bar, ad ogni incrocio si potevano captare l’affanno delle poche sinapsi di branchi di energumeni messe sotto sforzo, per portare avanti una discussione che puntualmente veniva condita da una frase come: “sti negri de merda”, “non sono razzista, ma…”, “andassero tutti a casa loro”, “gli ammazzerei tutti”, ”tira fuori le tette”, “bella gnocca vieni qua” ,qualche camionata di insulti a venditori ambulanti, che corazzati da anni di resistenza continuavano imperterriti il loro lavoro, e poi via, un altro rosso , prego, che la festa continui!

Mi sono sentita ingiustamente violentata ed impotente, violentata dagli sguardi, dai commenti sessisti, dalle palpate, dal esotizzazione continua del mio corpo trasformato in oggetto sessuale che risveglia profumi di violenza tropicale, nostalgie coloniali.

Nessuno ha chiesto il mio consenso, nessuno si è sentito in dovere di farlo, nessuno si è sentito responsabile per quello che stava accadendo nello spazio pubblico che lo circondava, nessuna delle “loro (bianche) donne” mi è stata solidale. Le istituzioni complici, si sono girate dall’altra parte e con tranquillità si sono fatte servire un vino, al tavolo dell’aggressore.

Nessuno si è chiesto se fosse normale che una cameriera sottopagata dovesse sopportare per ore frasi del tipo “Che bela moreta, fammi un pompino” o semplicemente, “non mi faccio servire da una marocchina” tutto normale , tutto concesso, nobilitato dalla posizione di “salvatore della patria”, corpo solidale in caso di calamità naturale. Tutti sembravano non voler ricordare che machismo e razzismo vengono esercitati da qualsiasi corpo, tanto più se privilegiato e paramilitare.

Questi quattro giorni sono stati la cartina torna sole dell’aria che si respira a livello nazionale, dell’ansia che ogni corpo di donna o di negra sente quotidianamente nell’attraversare lo spazio pubblico, delle ondate razziste e sessiste che attraversano il paese, ma non lo scuotono, che si insinuano silenziose nel discorso politico istituzionale di ogni giorno.

Io, come moltissime altre, non ci sto! non sono disposta a dover lasciare la città perchè non è per me spazio sicuro, non sono disposta a delegare la mia sicurezza a gruppi di militari maschi e testosteronici , non sono disposta a sorridere e lasciare correre “perché in fondo si scherza”, non sono disposta ad essere complice della vostra lurida violenza quotidiana con il mio silenzio, non sono disposta a tutelare il buon costume della vostra civiltà, rispettosa solo con chi rientra nei canoni imposti. Non sono più disposta ad agognare sanguinante e invisibile perché voi possiate marciare in pace sul mio corpo e onorare la vostra patria. Siamo stanche e arrabbiate, non ci sarà più nessuna aggressione senza risposta, nessun silenzio complice.

Siamo a conoscenza del fatto che la sezione nazionale dell’ANA ha pubblicamente portato la propria solidarietà alle donne molestate e si è dissociato da qualsiasi atto di molestia. La nostra vuole essere solo una riflessione a freddo su ciò che abbiamo visto, vissuto e su cui ci siamo confrontati.