Al secondo piano della Facoltà di Lettere e Filosofia esposte sul lato Ovest sono presenti, tra le altre, due particolari fotografie.
Entrambe in bianco e nero, rappresentano due momenti di libera aggregazione e socialità studentesca di una Trento ormai lontana nel tempo. La prima è una veduta di piazza S.Maria ripresa a livello del terreno dove si contano numerosi probabili studenti e studentesse sedute per terra con qualche birra in lattina, magari accompagnata da un buon numero di sigarette. L’altra è un’istantanea della folla che si radunava in Vicolo Colico, davanti all’Ex bar Accademia, dove spesso si rimaneva irretiti e costretti a rallentare il passo per poter procedere oltre.
A fianco di queste due fotografie, poco più a sinistra, sono presenti i bagni dell’ateneo. Sulla maniglia della porta di questi, come di altri servizi della facoltà, ci sono i dispositivi di lettura del badge universitario, che permettono o meno l’accesso. Praticamente per andare a pisciare è necessario esibire un documento.
Ebbene, cosa lega una porta ad apertura elettronica con due fotografie in bianco e nero appese ad un muro nemmeno troppo in vista? Vediamo di procedere con ordine, partendo dalla porta, per poi aprire un portone.
Lo scorso 3 Dicembre, dalle pagine di un noto quotidiano locale1, il Direttore di Dipartimento di Lettere e Filosofia Fulvio Ferrari spiegava i motivi di un provvedimento preso in seguito ad un fatto accaduto qualche tempo prima: un eroinomane era stato rinvenuto in una pozza di sangue dentro ad un bagno della facoltà. In seguito a questo fatto, 15 bagni su 20 sono stati chiusi, lasciando “accessibili” solamente quelli con apertura elettronica tramite badge che, in caso di momentaneo smarrimento, poteva essere sostituito dall’esibizione di un documento d’identità presso la segreteria. Succede così che un gruppo di studenti di lingue moderne si lamentino di questo provvedimento, chiamando in causa il Corriere del Trentino, che a sua volta chiede spiegazioni a Ferrari il quale dice che quello dell’eroinomane è solo l’ultimo di una serie di episodi “sgradevoli” che costringono a chiudere i bagni. Gli studenti in questione infatti danno corda e rincarano dichiarando che di “frequentazioni a rischio di persone poco per bene, quali eroinomani o prostitute² che spesso si trovano nelle panchine al di fuori dell’edificio” se ne vedono fin troppe. Tant’è che “l’ultima cosa desiderata -da Ferrari- era quella di militarizzare l’ateneo” ma che per loro “anche se il Dipartimento è un luogo pubblico questo non vuol dire automaticamente dire che ci possa entrare chiunque” e che pertanto “sarebbe opportuno che chi di competenza prendesse seri provvedimenti, che vadano al di là della chiusura dei servizi igienici”. A queste si aggiungono le dichiarazioni allucinanti³ del sindacato studentesco, l’Udu, che assieme al rappresentante degli studenti di Lettere, Masseo Purgato, dichiara: “Il consiglio è quello di farsi il badge”. Quindi Crotti, presidente del consiglio degli studenti: “Se il Comune non interviene in modo fermo per risolvere la situazione di degrado in cui versa la zona della Portella e Santa Maria, dove è situato il dipartimento, noi possiamo fare bene poco, se non presidiare gli spazi.”
Dichiarazioni che sembrano quasi suggerire l’attuazione di una sorta di Daspo Accademico -se non urbano- nei confronti degli indesiderat*. Interessante cambio di rotta rispetto alle posizioni antibadge che nel 2014 solcavano tra Udu e Atreju un divario che in campagna elettorale faceva comodo mantenere.
Ora, premettendo che eravamo rimast* a quando “pubblico” voleva dire di tutt*, ci rattristiamo ancora una volta nel vedere come sex worker e tossicodipendenti vengano trattati da pericolosi criminali “poco per bene” che minacciano la sicurezza e la tenuta democratica dell’ateneo tutto a tal punto da richiederne l’allontanamento con “seri provvedimenti”, dopo aver negato loro l’accesso ai bagni. A questo punto però, immaginando già la polemica sterile pronta a sentenziare a riguardo, è doveroso per noi concedere che ritrovarsi una persona in una pozza di sangue nel bagno non sia una situazione facile da affrontare. Tuttavia ciò che più turba i nostri brevi sonni non è tanto la risposta repressiva e punitiva dell’istituzione-università che, come ha già sottolineato Ferrari, adotta una soluzione tampone, ma è l’approccio degli studenti e delle studentesse alla questione. L’assenza di un’interazione critica orientata alla comprensione, che dovrebbe spingere a interrogarsi sul perché l’ateneo sia frequentato non solo da student*, è figlia di un distaccamento dell’Università dai problemi sociali. A onor del vero, un radicale sovvertimento della società e delle istituzioni è stato perseguito da studenti e studentesse in passato. Ma, se è vero che l’Ateneo in primis ha in più occasioni cercato di inquinare e depotenziare la memoria storica e collettiva della contestazione del ’68 che partì proprio dall’occupazione del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale nel ’66 (la prima in Italia), dall’altra parte non è perdonabile che la componente studentesca che tutti i giorni attraversa il piano terra di Lettere non si interroghi sui motivi delle agitazioni raffigurate nelle gigantografie dell’epoca. Ve n’è una in particolare di Giorgio Salomon esposta nell’atrio di Lettere: gli ultimi due a destra sono Marco Boato e Mauro Rostagno.
La memoria collettiva ricorda come studenti e studentesse di allora avessero a cuore proprio il tema del sapere: come viene elaborato, trasmesso, a cosa e a chi serve, quali i suoi rapporti con la società e con il potere. Sorge quindi spontaneo chiedersi quando l’impeto d’indagine critica della realtà sia stato ucciso dentro l’università. Forse quando si è preferito affiggere Rostagno sui muri di Lettere, salvo poi relegarlo al secondo piano di Sociologia. Quand’è successo che gli studenti e le studentesse, oltre che l’Università come calderone di saperi, hanno cominciato a chiudere gli occhi di fronte alle dinamiche che portano alle dipendenze o ai ricatti giocati sui corpi delle donne che lavorano davanti alla facoltà? Forse quando studiare è diventato un mezzo e non un fine. Un mero passaggio di acquisizione nozionistica per poter ottenere CFU.
Da qui si apre il portone. Il bianco e nero che tinge gli ormai ex frequentatori e frequentatrici di Santa Maria e della vecchia Accademia è lo stesso che tinge le prime linee di Rostagno e Boato. La scelta stilistica sembra quasi voler suggerire la medesima dislocazione temporale di due momenti in realtà separati da una manciata di decenni: il passato. La piazza che una volta era affollata da studenti e studentesse sedut* a sorseggiare birra d’asporto oggi è perennemente vuota, eccetto durante il periodo natalizio. Come scomparsa è anche la gioventù che riempiva Vicolo Colico e che ora invece riempie le cantine del nuovo locale. Per divertirsi a Trento occorre andare sottoterra. Lontano dagli occhi, lontano da tutto. Pertanto chi, tra gli studenti e le studentesse, si azzarderebbe oggi a dire che l’ennesima limitazione di un’attività commerciale (come la Scaletta) a causa del “degrado” studentesco sia giusta? Qualche manciata di firme è stata sufficiente per imporsi su un più grande numero di utenti dell’unico bar non sotterraneo aperto dopo le 22.00 e costantemente frequentato. Non è poi così distante il momento in cui a fianco di Santa Maria e a Vicolo Colico verrà affissa anche la foto della Scaletta piena. Sia chiaro: lungi da noi tutelare l’immagine e il nome di un’attività commerciale che in fin dei conti mira solo a far soldi e che della condizione studentesca poco gliene cale. Potrebbero esserci centinaia di settantenni ubriach* in via Santa Maria Maddalena, e non cambierebbe di molto. La socialità studentesca non si dispone attorno alla frequentazione di attività commerciali, ma al contrario è la presenza di universitar* nelle strade che favorisce i bar e i circoli. Anzi, li tiene proprio in vita.
Tuttavia, non si può però a questo punto non puntualizzare riguardo a queste dinamiche repressive: l’attacco ad eroinomani e sex worker in un’università e la marginalizzazione di studenti e studentesse dalle vie notturne della città sono approcci escludenti. C’è una continuità nelle pratiche repressive messe in campo dalle istituzioni che detengono il potere amministrativo e politico degli spazi pubblici (Comune e Università). Le misure adottate non tengono conto dei bisogni e delle necessità delle persone, oltre che delle dinamiche sociali ed economiche che costringono a vivere in strada o sotto ricatto. Chi studia invece, chi indaga la realtà, chi si interroga e non accetta una trasmissione mummificata del sapere dovrebbe farlo. C’è bisogno, oggi più che mai, di rimettere in discussione temi cruciali del sapere e del potere. È una necessità impellente, che fa mancare il respiro. Con quale legittimità ci si può oggi lamentare della chiusura di un bar a causa della “molestia alcolica” procurata mentre allo stesso tempo si auspica un’espulsione di soggetti sgradevoli dalle nostre facoltà? L’università e il comune stanno applicando lo stesso paradigma di esclusione degli indesiderat*. Solo che vi è un cortocircuito, una miopia, una contraddizione di pensiero quando si applicano due atteggiamenti diversi davanti ad un’unica e uguale repressione. Non la si può legittimare da un lato e condannarla dall’altro. Serve riacquistare una coscienza studentesca, che nasca dalla condivisione di saperi e opinioni e che sappia indirizzare la propria rabbia verso l’alto, verso chi ogni giorno perpetua un giogo fatto di restrizioni e aumenti delle spese, non verso chi sta peggio. C’è un filo rosso che colora il bianco e nero delle fotografie di Rostagno e di Santa Maria ed è il filo che solo una componente studentesca ribelle, critica e consapevole sa tessere. Non siamo numeri di matricola, non siamo solo utenti di un bar, non siamo portafogli da svuotare in tasse e affitti. Siamo corpi e teste pensanti e come tali pretendiamo di avere voce in capitolo su come viviamo la nostra quotidianità, ma soprattutto su come vivremo il nostro futuro.
Il primo filo è stato teso, il prossimo lo intrecceremo nelle lotte.
NOTE:
(1) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171203/281530816348673
(2) Da questo punto in poi sostituiremo il termine prostituta con quello di sex worker in ragione dei seguenti motivi:
- Etimologia del termine prostituta, dal latino prostĭtŭĕre: 1. mettere davanti, esporre 2. prostituire 3. disonorare. L’ultima voce suggerisce un’accezione marcatamente negativa del termine.
- Il termine sex worker non si connota moralmente, né dal punto di vista di genere (diversamente potremmo dire invece per l’italiano lavoratrice/lavoratore del sesso), include il riconoscimento di un’attività che investe tempo ed energie (lavoro) anche se spesso priva di tutele, contratto e salario.
(3) https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20171124/281535111298125